tributi locali

Tributi locali: l’autotutela per i cittadini

Le tasse sono qualcosa con cui tutti noi abbiamo famigliarità, ma sono così tante che a volte non ne comprendiamo fino in fondo la natura. Eppure conoscerle è molto importante, soprattutto nel momento in cui non ci troviamo a pagare imposte sul reddito ma tasse strettamente legate alla nostra vita quotidiana che vanno a finanziare il livello a noi più vicino di amministrazione pubblica. È il caso dei tributi locali, che è giusto pagare ma che possono registrano anomalie che spesso vanno a danno dei cittadini: in questo caso, la legge ci mette a disposizione dei meccanismi di autotutela. Vediamo in cosa consistono. 

Cosa intendiamo per “Tributi locali

tributi locali sono quei tributi stabiliti dalla legge statale che ne definisce i presupposti, i soggetti passivi e le basi imponibili. I più noti sono sicuramente l’IMU e la TARI. L’imposta municipale propria (IMU) è l’imposta dovuta per il possesso di fabbricati, escluse le abitazioni principali classificate nelle categorie catastali diverse da A/1, A/8 e A/9, di aree fabbricabili e di terreni agricoli ed è dovuta dal proprietario o dal titolare di altro diritto reale (usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie), dal concessionario nel caso di concessione di aree demaniali e dal locatario in caso di leasing.

La tassa sui rifiuti (TARI) è il tributo destinato a finanziare i costi relativi al servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti. È dovuta da chiunque possieda o detenga a qualsiasi titolo locali o aree scoperte suscettibili di produrre i rifiuti medesimi.

Autotutela per i tributi locali: quando si può richiedere

È possibile chiedere in autotutela la rettifica o l’annullamento dell’atto che si ritiene errato.

Per rettifica si intende lasemplice correzione di errori materiali o di semplici irregolarità involontarie, mentre per annullamento si intende l’eliminazione dell’atto preso contezza della sua irregolarità tutto ciò può avvenire in autotutela, ovvero attraverso il quale l’ufficio tributi, qualora rilevi un errore contenuto nei propri atti, ha la facoltà di sistemare il proprio provvedimento senza costringere il contribuente a ricorrere alla commissione tributaria provinciale. L’annullamento dell’atto illegittimo comporta automaticamente l’annullamento degli atti ad esso consequenziali.

Come applicare l’autotutela

L’autotutela può essere applicata d’ufficio, se proviene dalla stessa pubblica amministrazione che, avvedendosi dell’errore, modifica il provvedimento viziato, oppure può essere richiesta su istanza del contribuente che ritiene l’importo richiesto non dovuto.

Questo per errore di persona o di soggetto passivo, evidente errore logico o di calcolo, errore sul presupposto d’imposta o doppia imposizione.

La presentazione dell’istanza di autotutela da parte del contribuente non sospende il termine per il pagamento del tributo né i termini per poter ricorrere al giudice tributario. Nel caso in cui l’ufficio tributi risponda negativamente all’istanza di autotutela presentata o rimanga in silenzio, il contribuente dovrà procedere al ricorso presso il giudice tributario, nei termini previsti dalla legge.

Il ricorso deve essere proposto, a pena di inammissibilità, entro  sessanta giorni dalla data di notificazione dell’atto. In caso di rifiuto tacito alla restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti o di silenzio-rigetto all’istanza di autotutela cd. obbligatoria può essere proposto dopo novanta giorni dalla domanda di restituzione o dall’istanza. La decorrenza dei termini processuali è sospesa di diritto ogni anno dal 1° agosto al 31 agosto.

Autotutela per i tributi locali: uno dei molti modi per tutelarci

Quando riconosciamo di essere stati sottoposti a un trattamento ingiusto, sia esso di natura fiscale o altro, da parte dello stato, è giusto opporci e far valere la nostra buona fede. E questo non solo per una questione di autotutela, ma per responsabilità nei confronti dello stato stesso, che può in questo modo riconoscere e correggere i propri errori. Per fare questo, però, occorre una conoscenza della legge approfondita. Per questo rivolgersi a un legale qualificato è sempre la migliore soluzione. Se ritieni di avere bisogno di assistenza, rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

conversione del pignoramento

Conversione del pignoramento: come salvare i propri beni

Capita di avere un periodo complicato dal punto di vista economico. A volte le conseguenze di questi periodi non hanno strascichi sgradevoli, altre volte, invece, lasciano il segno. Può capitare addirittura che si arrivi ad una procedura esecutiva per il pignoramento dei beni del debitore, e a quel punto sorge spontanea una domanda: quei beni sono definitivamente perduti? In effetti no, esiste ancora una possibilità: la conversione del pignoramento.

Conversione del pignoramento: cos’è?

La conversione del pignoramento è un istituto previsto e disciplinato dall’art. 495 c.p.c., che consente al debitore, dopo l’avvio di una procedura esecutiva e prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione dei beni pignorati, di sostituire agli stessi una somma di denaro comprensiva dell’importo dovuto al creditore procedente e agli eventuali creditori intervenuti (capitale, interessi e spese) e delle spese dell’esecuzione. 

Come funziona la conversione del pignoramento

È necessario depositare un’apposita istanza nella cancelleria del Tribunale del luogo in cui è stato eseguito il pignoramento. Unitamente all’istanza di conversione, deve essere depositata in cancelleria, a pena di inammissibilità, una somma di denaro. Questa non sarà inferiore ad 1/6 dell’importo del credito per cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti indicati nei rispettivi atti di intervento, dedotti i versamenti già effettuati, che dovranno essere provati documentalmente.

L’istanza di conversione del pignoramento deve essere depositata prima che sia disposta l’assegnazione o la vendita, ossia prima che il Giudice emetta l’ordinanza con la quale fissa la data della vendita o delega le operazioni. Può essere presentata una sola volta nella procedura esecutiva, a pena di inammissibilità.

Dopo il deposito dell’istanza, il Giudice dell’esecuzione, valutata l’ammissibilità della domanda, determinerà, previa audizione delle parti, l’importo globale che il debitore dovrà versare ed il termine per il versamento. Il giudice, tuttavia, può anche rigettare l’istanza o dichiararla inammissibile ovvero accoglierla solo parzialmente. Il debitore potrà in tal caso chiedere, con istanza motivata, la modifica o la revoca dell’ordinanza ex art. 487 c.p.c. oppure presentare ricorso ex art. 617 c.p.c.

Conversione e rateizzazione: è possibile?

Solo quando i beni pignorati siano costituiti da beni immobili o cose mobili, il giudice può disporre, se ricorrono giustificati motivi, un pagamento rateale, a cadenza mensile, fino ad un massimo di quarantotto mesi.

Cosa succede se il debitore non paga?

In caso di mancato versamento di anche una sola rata, ovvero di un ritardo nel versamento superiore a 30 giorni, il debitore si riterrà decaduto dal beneficio. Le somme già versate formeranno parte dei beni pignorati e, su richiesta del creditore procedente o di un creditore intervenuto, la procedura esecutiva riprenderà e seguirà la vendita.

Qualora, invece, il debitore provveda all’integrale pagamento nei termini stabiliti, i beni pignorati saranno liberati dal vincolo del pignoramento e rientreranno nella piena disponibilità del debitore.

La conversione del pignoramento suggerisce che c’è sempre una possibilità, ma…

Simili procedure non vanno mai prese sottogamba. Ignorare avvisi, saltare pagamenti o disattendere ingiunzioni non è mai la soluzione, anzi un atteggiamento del genere non fa che esacerbare i problemi. Quando ci si trova in difficoltà, l’unica cosa da fare è rivolgersi a un legale esperto che ci consigli per il meglio, aiutandoci ad uscire da un periodo difficile nel modo migliore e meno gravoso. Se hai bisogno di assistenza contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Camilla Marcato.

diritto all'oblio

Diritto all’Oblio: Come proteggere la propria reputazione Online

Le notizie online hanno una longevità che va ben oltre quella dei media tradizionali. Esistono, però, alcune informazioni che non vogliamo più siano di pubblico dominio. Il diritto alla rimozione di tali dati dalla rete viene chiamato “diritto all’oblio”, ma possiamo pretenderlo sempre?

Diritto all’oblio: di cosa stiamo parlando?

Il diritto all’oblio, sancito dall’articolo 17 del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), è un diritto fondamentale che consente agli individui di richiedere la rimozione dei propri dati personali online. Parliamo di notizie, foto, video eccetra, quando questi non sono più pertinenti, sono obsoleti o sono trattati illegalmente.

Nel contesto attuale, dominato dal digitale, il diritto all’oblio rappresenta una fondamentale salvaguardia per la tutela della propria reputazione. Questo impedisce di rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona, a causa della consultazione digitale o della ripubblicazione di una notizia relativa a fatti del passato. La tutela del diritto all’oblio, tuttavia, va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto. Si tratta dell’espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia. I criteri per il bilanciamento sono stati, infatti, individuati nell’attualità delle informazioni, nella loro esattezza e nella rilevanza pubblica del soggetto coinvolto.

Come esercitare il diritto all’oblio?

  1. La prima azione da intraprendere è inviare una richiesta motivata di cancellazione dei dati al titolare del trattamento, ovverosia il soggetto che determina le finalità ed i mezzi del trattamento del dato personale. Questi dovrà dare un riscontro entro un mese, prorogabile di due mesi in casi complessi. Google, ad esempio, ha predisposto un modulo web per l’inoltro di tale richiesta che dovrà essere corredata da motivazioni precise e dall’URL specifico in cui si trova la notizia da cancellare.
  2. Se il titolare del trattamento non rispetta i termini stabiliti, rifiuta la richiesta senza giustificazione adeguata. Oppure, se la risposta non è soddisfacente, l’interessato può presentare un reclamo al Garante per la protezione dei dati personali. Questi potrà ordinare la cancellazione dei dati se ritiene che ci sia stata una violazione del diritto all’oblio.
  3. Instaurazione di un contenzioso nel caso in cui l’interessato intenda tutelare i suoi diritti giudizialmente. L’azione giudiziaria mira a ottenere un ordine di cancellazione dei dati ed eventualmente un risarcimento per i danni subiti a causa della mancata tutela del diritto all’oblio.

Anche il nostro legislatore è intervenuto di recente, introducendo una tutela rafforzata e più celere del diritto all’oblio per i casi di cronaca giudiziaria. Ed infatti la riforma Cartabia ha introdotto l’art. 64-ter delle disposizioni attuative del codice di procedura penale. Con questo ha inteso garantire il diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini nei cui confronti è stata emessa una sentenza di proscioglimento, di non luogo a procedere ovvero un provvedimento di archiviazione.

In tali casi il soggetto interessato potrà richiedere alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento di apporre il divieto di indicizzare i propri dati nella rete internet. In questo modo impedisce qualsiasi relazione futura online tra i propri dati personali ed il procedimento penale concluso con esito favorevole. Oppure, qualora le notizie sul web siano già pubbliche, deindicizzare i suoi dati con la rimozione dall’indice dei motori di ricerca.

Far valere i propri diritti è fondamentale, ma occorre farlo nel modo corretto!

Il diritto all’oblio è una richiesta molto diffusa nell’epoca di internet, e in effetti la tutela della privacy e della propria riservatezza è importantissima. Anche in questo caso, come in tutti quelli che richiedono la conoscenza della legge, non è il caso di muoversi da soli. L’intervento di un legale specializzato è fondamentale per non commettere errori e ottenere il risultato che ci prefiggiamo nel modo migliore e più rapido. Se ne hai bisogno contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Giacomo Grasso

responsabilità dell'albergatore

La responsabilità dell’albergatore per le cose portate in albergo.

Quando andiamo in vacanza l’hotel diventa la nostra seconda casa: è lì che lasciamo tutto il necessario per trascorrere qualche giorno in totale relax. E se dovesse succedere qualcosa ai nostri effetti personali? Qual è la responsabilità dell’albergatore? Ne risponde oppure no?

Responsabilità dell’albergatore: uno sguardo alla legge

In base a quanto previsto dall’articolo 1783 del Codice Civile, l’albergatore risponde di ogni deterioramento, distruzione o sottrazione delle cose portate in hotel.

Quella dell’albergatore è una responsabilità che sorge con la semplice introduzione da parte del cliente delle cose all’interno della struttura ricettiva e permane per tutto il tempo in cui usufruisce dell’alloggio.

La responsabilità dell’albergatore per gli oggetti portati dal cliente prescinde, in ogni caso, dal fatto che questi le affidi o meno alla sua custodia.

L’eventuale consegna per la custodia, sotto questo profilo, costituisce, infatti, solamente un criterio di delimitazione della responsabilità.

Ai sensi dell’articolo 1784 c.c., l’albergatore è illimitatamente responsabile sia per le cose che gli vengono lasciate in custodia, sia per quelle che si è rifiutato di custodire ma che, per legge, avrebbe dovuto accettare. Le carte-valore, il denaro contante e gli oggetti di valore. La legge, in ogni caso, gli consente di rifiutarsi di ricevere tali beni qualora questi siano pericolosi. Oppure, tenuto conto dell’importanza o delle condizioni di gestione dell’albergo, abbiano valore eccessivo o siano ingombranti.

E per quanto riguarda gli altri oggetti?

Per quanto concerne, invece, gli altri oggetti che il cliente immette nei locali che l’albergatore mette a sua disposizione (la camera ad uso esclusivo, i locali di uso comune, le aree pertinenziali e quant’altro), sulla scorta di quanto disposto dall’art. 1783, III comma, codice civile, la responsabilità di quest’ultimo è limitata al valore di quanto si sia deteriorato, distrutto o sia stato sottratto nel limite di cento volte il prezzo di locazione dell’alloggio per giornata.

Questo contenimento della responsabilità è stato previsto dal legislatore nell’ottica di individuare un punto di equilibrio tra l’esigenza che ha il cliente durante il soggiorno di non dover tenere sempre con sé tutti i propri effetti personali e quella di non gravare in maniera eccessiva l’albergatore con una forma di responsabilità illimitata su beni dei quali non è in grado di esercitare una forma di controllo diretto.

La responsabilità dell’albergatore: quando la limitazione viene meno

Si tratta di un limite che, comunque, può venir meno nei casi previsti dall’art. 1785 bis c.c., ossia nelle ipotesi in cui il deterioramento, la distruzione o la sottrazione avvengano per colpa (ossia per negligenza, imprudenza o imperizia) dell’albergatore o di uno dei suoi familiari o ausiliari.

Ad ogni buon conto, ai sensi dell’art. 1785 c.c., la responsabilità dell’albergatore è esclusa quando il verificarsi di tali eventi sia dovuto alla condotta del cliente o di persone a lui collegate. Oppure a cause di forza maggiore o dipendenti dalla natura degli oggetti stessi.

La responsabilità dell’albergatore riguardo ai beni degli ospiti è un argomento complesso…

Ciononostante succede spesso, e vale la pena conoscere il funzionamento della legge in questi casi. Ancora di più, però, è fondamentale farsi assistere da un legale specializzato nel momento in cui il danno sia consistente. Se ne hai bisogno puoi rivolgerti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

informative sulla privacy

Capire le informative sulla privacy: cosa firmiamo ogni giorno e perché è importante

Nell’era digitale, ci capita spesso di firmare informative sulla privacy senza pensarci troppo. Che sia per un nuovo servizio online, una newsletter o una palestra, diamo il nostro consenso per la raccolta e l’uso dei nostri dati personali. Ma cosa stiamo davvero firmando? E perché è così importante comprenderlo?

Cosa sono le informative sulla privacy?

Le informative sulla privacy sono documenti legali essenziali che delineano in modo chiaro e dettagliato le modalità con cui un’azienda o un’organizzazione raccoglie, utilizza, condivide e protegge i dati personali degli utenti. Questi documenti sono fondamentali per garantire la trasparenza e il rispetto della privacy degli utenti. In diverse giurisdizioni, tra cui l’Europa con il Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) e in Italia attraverso le normative del Garante per la Privacy, è obbligatorio fornire queste informative per assicurare che gli utenti siano consapevoli dei loro diritti e delle modalità di gestione delle loro informazioni personali.

Nonostante la loro cruciale importanza, le informative sulla privacy spesso utilizzano un linguaggio tecnico e giuridico che può risultare complesso da comprendere per coloro che non sono esperti del settore. Pertanto, è di vitale importanza leggere con attenzione queste informative e comprendere pienamente i termini e le condizioni a cui si sta aderendo.

Ecco allora quali sono i punti principali del contenuto di un’informativa sulla privacy:

  1. Raccolta dei dati: descrive quali informazioni vengono raccolte, come nome, indirizzo e dati di navigazione.
  2. Uso dei dati: spiega come i dati raccolti verranno utilizzati, ad esempio per migliorare i servizi o per scopi di marketing.
  3. Condivisione dei dati: indica con chi i dati possono essere condivisi, come partner commerciali, fornitori di servizi o enti governativi.
  4. Diritti degli utenti: elenca i diritti degli utenti in merito ai propri dati, come il diritto di accesso, rettifica, cancellazione e opposizione al trattamento.
  5. Misure di sicurezza: descrive le misure adottate per proteggere i dati dall’accesso non autorizzato o dalla divulgazione.

Problemi comuni

Uno dei problemi principali delle informative sulla privacy è la loro lunghezza e complessità. Molti di noi si trovano a scorrere rapidamente questi documenti, accettando i termini senza una lettura approfondita. Questo può portare a conseguenze indesiderate, come la condivisione non intenzionale dei propri dati con terze parti.

Ci sono stati numerosi casi in cui la mancata comprensione delle informative sulla privacy ha portato a problemi significativi. Ad esempio, alcuni utenti si sono ritrovati con i loro dati venduti a società di marketing senza saperlo, ricevendo pubblicità mirata non richiesta. In altri casi, i dati sono stati condivisi con terze parti per scopi di ricerca o analisi, senza un chiaro consenso da parte degli utenti.

Consigli pratici per i lettori

Per proteggere meglio i tuoi dati personali, è importante prendersi il tempo per leggere attentamente le informative sulla privacy. Ecco alcuni suggerimenti:

  1. Cerca parole chiave: parole come “dati condivisi”, “terze parti” e “diritti degli utenti” possono aiutarti a identificare rapidamente le informazioni più rilevanti.
  2. Chiedi chiarimenti: se qualcosa non è chiaro, non esitare a chiedere spiegazioni. Le aziende sono tenute a fornire contatti specifici per chiarimenti, spesso includendo il nome e i dettagli del loro Data Protection Officer (DPO), la persona responsabile della protezione dei dati personali. Puoi contattare il DPO per qualsiasi domanda o dubbio relativo alla gestione dei tuoi dati personali.
  3. Usa strumenti di protezione della privacy: Utilizza le impostazioni di privacy dei browser e le app di gestione della privacy per proteggere i tuoi dati.

Informative sulla privacy: un tassello nella tutela dei dati personali

Certo, però, che un tassello non è l’intero puzzle. La tutela dei dati sensibili e della privacy personale è qualcosa di molto complesso che non è facile padroneggiare. Ecco per quale ragione è sempre meglio rivolgersi a un legale, sia per essere tutelati al meglio che per non violare la legge nel momento in cui, ad esempio per motivi di lavoro, ci troviamo a dover gestire dati sensibili altrui. Se hai bisogno di assistenza per questo o per altri argomenti, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con la dottoressa Georgiana Badea

raccomandata

Raccomandata o atto giudiziario: Si può evitare di ritirarli?

Quante volte capita di non voler ricevere una raccomandata perché si ha paura che si tratti di una multa, di una diffida o di un atto giudiziario e non ci si fa trovare in casa o si rifiuta di ricevere la busta? È davvero una decisione saggia? Vediamolo insieme

La raccomandata

La raccomandata a.r. o con ricevuta di ritorno viene utilizzata dal mittente per avere la certezza che la busta sia stata spedita e consegnata al destinatario. Il postino, infatti, dopo aver consegnato il plico al destinatario, invia al mittente la conferma dell’avvenuto ricevimento.

Mancato ritiro della raccomandata: cosa succede?

Nel caso in cui il postino si rechi all’indirizzo indicato sulla busta e vi non trovi nessuno, lascia un avviso nella cassetta postale del destinatario, con il quale lo informa della tentata consegna. La raccomandata, invece, non viene inserita in cassetta, ma viene depositata presso l’ufficio postale più vicino, dove rimane in giacenza per un mese. Qualora il destinatario non vada andare a ritirare la busta, dopo 30 giorni la busta viene restituita al mittente.

L’atto giudiziario

La cosiddetta busta verde contenente un atto giudiziario, può essere notificata in due modi: a mezzo del servizio postale oppure tramite un ufficiale giudiziario.

  • Notificato a mezzo posta

Nel primo caso, se il destinatario rifiuta di ricevere la busta, il postino indica la data di mancata consegna e restituisce l’avviso al mittente. In ogni caso, la notifica si intende perfezionata al momento del rifiuto dell’atto. Se, invece, il destinatario è assente, il postino deposita la busta presso l’ufficio postale e dà avviso dell’avvenuto deposito con un’altra raccomandata. La notifica si considera perfezionata una volta decorsi 10 giorni dalla comunicazione di avvenuto deposito dell’atto, sempre che esso non venga ritirato prima dei 10 giorni.

  • Notificato dall’Ufficiale Giudiziario

In alternativa, l’atto giudiziario può essere notificato a mani (cioè personalmente) dall’ufficiale giudiziario. Questi, se il destinatario non ritira il plico o è assente, deposita la busta presso la Casa comunale, affigge alla porta o alla cassetta delle lettere del destinatario un avviso di deposito e ne dà avviso a quest’ultimo con un’ulteriore raccomandata. Anche in questo caso vale la regola dei 10 giorni: la notifica si considera perfezionata una volta trascorsi 10 giorni dall’avviso di avvenuto deposito, anche se nessuno è mai andato a ritirare la busta.

Evitare di ritirare una raccomandata o un atto giudiziario, dunque, non è mai consigliabile. Non conoscendo il contenuto dell’atto, infatti, si perde la possibilità di difendersi adeguatamente e di rivolgersi in tempo utile ad un legale.

Non c’è da scherzare, dunque, con una raccomandata o con un atto giudiziario!

E una volta ricevuta, si potrebbe aver bisogno di assistenza legale: rivolgiti al nostro studio per essere rappresentato nel migliore dei modi, tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

bocciatura

Cosa è possibile fare se si ritiene ingiusta la bocciatura

E’ arrivata l’estate, fine della Scuola, tempo di vacanze. Non sempre però la fine della Scuola significa tempo di vacanze, significa anche esami per tutti i ragazzi che andranno a finire un ciclo scolastico. Significa , comunque, per tutti gli studenti, rimanere lì in attesa del risultato di fine anno, che, per chi sta affrontando il secondo ciclo della scuola media superiore può significare anche giudizio sospeso e quindi vacanze di studio. Questo, tuttavia, è il male minore laddove quel che maggiormente si può temere è la perdita di speranza davanti alla bocciatura.

Ma veramente sono perdute tutte le speranze?

Si può fare qualcosa contro la bocciatura?

Chiariamo subito una cosa, contro una bocciatura , di regola, si può fare ben poco, salvo che non si tratti di una bocciatura ingiusta. Tuttavia, quel che è ingiusto per uno studente molto spesso non lo è per la legge, nel senso che davanti ad un Giudice una bocciatura si riterrà ingiusta solo ove vi siano dei vizi formali.

Si ricordi, infatti, che il docente ha una grande discrezionalità di valutazione, e la valutazione del professore, ove vi sia il rispetto delle norme, non può essere sindacata da alcun organo giudicante.

Ma quali regola deve rispettare il docente?

A fronte della discrezionalità su cui il docente può fare affidamento, esistono alcune regole che non possono essere ignorate.

  • Il professore non può fare differenze tra un alunno ed un altro (trattamento discriminatorio)
  • Non può esprimere giudizi personali sull’alunno
  • Deve motivare il suo giudizio ed esprimerlo, poi, con un numero
  • Deve, inoltre, permettere ad uno studente di essere valutato in maniera corretta, quindi con un numero sufficienti di verifiche, un solo voto non costituisce, certo elemento idoneo per esprimere una valutazione.

Tutte queste regole sono espresse, nella scuola, dal Regolamento di Istituto e dal PTOF. Se vengono rispettate le norme del Regolamento del PTOF ( acronimo per Piano Triennale dell’offerta Formativa) difficilmente la bocciatura potrà essere ritenuta illegittima. 

Se queste regole non vengono rispettate cosa può fare l’alunno o il genitore?

Il primo organo a cui è possibile rivolgersi è il Dirigente scolastico, diretto responsabile della procedura che ha condotto all’atto. In questo caso devono essere palesi degli errori, per esempio di calcolo, per chiedere allo stesso organo che ha emesso il provvedimento di verificare la sussistenza di errori e corregerli, in maniera alquanto semplice il ricorso da farsi può essere definito un ricorso in autotutela 

Entro trenta giorni dalla notifica della mancata ammissione alla classe successiva   il genitore o l’alunno, se maggiorenne, potrà rivolgersi all’USR, l’Ufficio scolastico Regionale. Di questo ufficio esistono delle articolazioni periferiche, ( di regola coincidono con il territorio provinciale). Si tratta di un organo amministrativo che ha anche il compito di dirimere le controversie  con le istituzioni scolastiche.  

Bocciatura: il ricorso gerarchico

In questo caso si tratta di un ricorso gerarchico, da presentarsi in carta semplice, nel quale la parte esprime tutti i motivi per i quali ritiene illegittima la mancata ammissione, come già detto, motivi formali. Ad esempio, il mancato avvio di corsi di recupero per le materie risultate insufficienti, l’errore di valutazione. O ancora la difformità tra il voto scritto nel registro e il voto espresso nel compito, la contraddittorietà tra la motivazione e il voto. A questo punto il Dirigente può chiedere alla scuola, alla luce delle considerazioni contenute in ricorso, di valutare nuovamente la posizione dell’alunno e quindi ammetterlo, per esempio, alla classe successiva o permettere allo studente di affrontare il recupero.

Va detto che con varie circolari ritengo che USR non possa considerarsi un superiore gerarchico stante l’ampia autonomia riconosciuta alle istituzioni scolastiche. La conseguenza è che l’USR si dichiarerà incompetente per la risoluzione della controversia e indicherà la via giurisdzionale.  

Se infatti, il parere del USR è negativo o se l’Ufficio dichiara la propria incompetenza ,la parte ha un’ulteriore possibilità che è quella di adire il TAR, Tribunale Amministrativo Regionale. Il tutto nel termine di 60 giorni dalla notifica della bocciatura. In questo caso sarà necessario essere assistiti da un legale. Gli errori e i vizi formali, per pensare di aver un qualche successo nel giudizio, dovranno essere particolarmente gravi ed evidenti.

Anche in questo caso il TAR, ove rilevasse l’esistenza di vizi formali, annullerà il provvedimento, il che non significa che promuoverà l’alunno, ma, invece, che rinvierà l’alunno all’istituto scolastico al fine di una nuova valutazione, da farsi una volta rimossi i vizi.

Una bocciatura capita, ma non sempre lo studente se la merita!

Quando questo succede, si può fare qualcosa, come abbiamo visto, ma si rischia di perdere il proprio tempo se non lo si fa nel giusto modo! Ecco perché farsi assistere da un legale è fondamentale. Se hai bisogno del nostro aiuto, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

alberi del vicino

Alberi del vicino: quando una pianta viola la legge

A volte gli alberi del vicino danno noia, sconfinando con le fronde sul nostro giardino o, magari, riempiendo la nostra macchina di foglie. Non tutti sanno, però, che esistono delle disposizioni di legge volte a regolare le modalità di piantumazione e cura della vegetazione che cresce nei nostri cortili.

Il Legislatore, infatti, per evitare l’insorgere di litigi tra vicini, ha stabilito precisi limiti legali da rispettare che, se violati, possono addirittura richiedere l’intervento di un Giudice. 

Qualora nella nostra proprietà irrompa, in qualsiasi modo, parte della vegetazione che sorge nel fondo dei nostri vicini, l’Ordinamento, tenuto conto della particolarità del singolo caso, concede fondamentalmente due tutele che, se pur giuridicamente distinte, sono entrambe volte alla rimozione degli elementi di turbamento ed, eventualmente, al risarcimento del danno.

La violazione delle distanze legali per gli alberi del vicino

Nell’ordine, l’articolo 892 del codice civile tutela il proprietario di un fondo dall’eccessiva prossimità della vegetazione che cresce sul fondo del vicino e, nello specifico  detta le seguenti disposizioni in tema di distanze degli alberi dal confine: 

  • Tre metri per gli alberi di alto fusto. Rispetto alle distanze, si considerano alberi di alto fusto, quelli il cui fusto, semplice o diviso in rami, sorge ad altezza notevole […]”;
  • Un metro e mezzo per gli alberi non ad alto fusto […]”
  • Mezzo metro per le viti, gli arbusti, le siepi vive […]”.

È tuttavia necessario prestare attenzione alle previsioni regolamentari e agli usi locali che, se presenti oppure diversi rispetto a quelli appena elencati, saranno i parametri da tenere in considerazione.   

Come individuare la categoria corretta?

Il compito del giurista  esula da qualsivoglia valutazione strettamente scientifica. Allo stesso tempo, egli ha a disposizione gli elementi sufficienti per individuare la categoria botanica più opportuna, a partire dal copioso contributo giurisprudenziale sul tema. Infatti è oramai indiscusso che per attribuire ad un albero la qualifica di “alto fusto”, occorre tener presenti le caratteristiche vegetative dello stesso anche se, per giovane età o per ritardato sviluppo, non abbia già raggiunto l’altezza che per sua natura è destinato ad avere. A nulla rilevano infatti, eventuali potature irrazionali eseguite al solo fine di far apparire le piante a un’altezza inferiore rispetto a quella che fisiologicamente le caratterizza. 

E se a creare turbamento sono alberi piantati nei limiti stabiliti dalla legge?

Nel caso in cui le distanze legali siano state rispettate, ma nel nostro fondo sporgano comunque i rami degli alberi del vicino, quest’ultimo può essere, ai sensi dell’art. 896 c.c., costretto a tagliarli.

Questi diritti possono essere fatti valere a prescindere dall’esistenza di un eventuale danno patito dal proprietario, in quanto la finalità delle citate norme è proprio quella di salvaguardare il fondo stesso dal propagarsi di radici, dalla caduta delle foglie ovvero dall’immissione di ombra e umidità.

In questi casi una risoluzione bonaria, da ricercarsi anche attraverso l’instaurazione di un dialogo fattivo tra vicini, è certamente la strada più serena da intraprendere. Tuttavia, spesso ci si ritrova ad affrontare ingiustificato disinteresse e reticenza che rendono l’intervento di un legale imprescindibile. Legale che, nel caso in cui deciderà d’intraprendere la via dell’azione giudiziaria, dovrà preliminarmente attivare una procedura di mediazione obbligatoria ai sensi dell’articolo 5 comma 1 bis del D.lgs. 28/2010

Se si decide di procedere per risolvere il problema degli alberi del vicino…

Anche questioni apparentemente innocue e normali possono sfociare in litigi e screzi. Per questo è sempre meglio affrontare la situazione facendosi consigliare da un professionista. Se hai bisogno di assistenza legale non esitare a rivolgerti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con la dottoressa Alberto Padoan

lesioni stradali

Lesioni stradali: le peggiori conseguenze di un incidente 

Da anni, ormai, abbiamo imparato a porre più attenzione alla sicurezza stradale, e anche la legge è scesa molto più nel dettaglio definendo in modo molto più completo alcuni concetti come le lesioni stradali. Ma in cosa consistono esattamente, e come vengono trattate dalla legge?

Lesioni stradali, la base della legge

L’art. 590-bis comma 1 del codice penale punisce “chiunque” cagioni, in violazione delle “norme sulla disciplina della circolazione stradale o della navigazione marittima con qualunque condotta colposa nell’attività circolatoria, l’evento lesivo è punito con la reclusione da 3 mesi a 1 anno per le lesioni gravi e con la reclusione da 1 a 3 anni per le lesioni gravissime. Ma quale differenza sussiste tra lesioni gravi o gravissime? L’art. 583 c.p. ci spiega detta distinzione:

  • lesione grave: se dal fatto deriva una malattia che mette in pericolo la vita della persona offesa o che ha durata superiore ai quaranta giorni, oppure se si è verificato un indebolimento permanente di un senso o di un arto;
  • lesione gravissima: se il fatto ha causato una malattia certamente o probabilmente insanabile, la perdita di un senso, di un arto, dell’uso di un organo oppure della capacità di procreare nonché grave difficoltà della favella o deformazione del viso.

Vi sono poi dei casi puniti con maggior rigore a seconda delle modalità e delle circostanze con cui si realizza l’evento.

Stato di ebbrezza: un’aggravante per le lesioni stradali

Chiunque poi si ponga alla guida in stato di ebbrezza alcolica e ne cagioni per colpa delle lesioni, è punito in maniera aggravata con la reclusione da un anno e sei mesi per le lesioni gravi e da due a quattro anni per quelle gravissime. La stessa pena si applica anche a chi cagiona dette lesioni:

  • circolando in un centro urbano ad una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/h;
  • attraversando col semaforo rosso o circolando contromano; 
  • sorpassando un altro mezzo in corrispondenza di attraversamento pedonale o linea continua.

La novità introdotta dal D. Lgs 10 ottobre 2022 n. 150 (c.d. “Riforma Cartabia”) è la punibilità del delitto a querela della persona offesa nel caso in cui non ricorrano circostanze aggravanti. In tal senso, quindi, il danneggiato bisognerà che richieda la punibilità entro tre mesi dal momento in cui si verifica il delitto.

L’omicidio stradale: la più grave conseguenza di un incidente

L’art. 589 bis stabilisce che “Chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o della navigazione marittima o interna è punito con la reclusione da due a sette anni”. La pena è aumentata con la reclusione da otto a dodici anni nel caso in cui si cagioni per colpa la morte da parte di chi si ponga alla guida in stato di ebrezza alcolica o di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, e in tutti gli altri casi già visti per le circostanze aggravanti delle lesioni stradali.

Per questo delitto, in qualsiasi caso, è prevista la procedibilità d’ufficio, pertanto l’Autorità Giudiziaria farà partire in automatico un procedimento penale.

In ogni caso, l’assistenza di un legale in caso di lesioni stradali è necessaria!

Accertare responsabilità e stabilire pene e soprattutto risarcimenti non è così immediato come si potrebbe pensare… anzi! Per questo, in caso di lesioni stradali, è sempre una ottima idea rivolgersi a un avvocato: se ne hai bisogno contatta il nostro studiotutela i tuoi diritti!

convivenza di fatto

Convivenza di fatto: una tutela per le coppie non sposate 

Ci sono persone che, pur vivendo insieme ed essendo una coppia consolidata e solida, decidono di non convolare a nozze. Si tratta di una scelta assolutamente legittima e rispettabile che può avere le più disparate motivazioni, e che lo stato riconosce e norma. Lo scopo è di tutelare il più possibile i diritti dei membri della coppia e inquadrare il loro stato in una fattispecie normativa: la disciplina della convivenza di fatto

In Italia, la normativa riguardante la convivenza di fatto viene finalmente alla luce con la stessa norma che regola le Unioni Civili.  Si tratta legge 76/2016, che disciplina anche il rapporto di convivenza. Differentemente da quella sulle unioni civili, riconosce una serie di diritti e di doveri alle persone di sesso diverso, maggiorenni, che coabitino stabilmente. Questi, in virtù del legame affettivo, si prestano reciproca assistenza morale e materiale. 

Convivenza di fatto: un iter burocratico davvero semplificato 

Per essere dichiarati conviventi, i componenti della coppia devono rendere una dichiarazione avanti all’Ufficiale di Stato Civile. Non è necessaria la presenza di testimoni, ed è sufficiente anche una semplice dichiarazione con raccomandata o via pec. 

Diritti e doveri della coppia di fatto. 

Dalla dichiarazione di convivenza sorgono una serie di diritti e doveri soprattutto avanti ai terzi che permettano il manifestarsi del legame affettivo ed impediscano al convivente di essere trattato, ai fini normativi, come uno “sconosciuto”. Si pensi solo alla difficoltà frapposte dalle leggi ad avere informazioni sullo stato di salute di un soggetto, possibilità riservata ai soli congiunti , tra cui, appunto, non veniva annoverato, il convivente. 

La convivenza di fatto conferisce, infatti, ai membri della coppia il diritto di visita, di assistenza ed accesso alle informazioni reciproche in caso di malattia e di ricovero, ma anche in caso di detenzione. In caso di morte di un membro della coppia, il convivente può continuare ad abitare nella casa di proprietà esclusiva del defunto per un periodo che varia dai 2 ai 5 anni. Oppure può succedergli nel contratto di locazione. 

Nel caso in cui il decesso sia causato da un fatto illecito altrui, come ad esempio un incidente stradale, viene riconosciuto al convivente della vittima il diritto al risarcimento del danno morale. Vengono regolamentati anche i diritti nell’attività di impresa di quel convivente che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente. 

I conviventi di fatto hanno la possibilità di sottoscrivere un contratto di convivenza che disciplini i loro rapporti patrimoniali. Il contratto di convivenza, che deve essere redatto in forma scritta per avere validità, può avere anche la forma di scrittura privata autenticata, oltre che di atto pubblico. Può essere autenticato anche da un avvocato. 

Come si scioglie una convivenza di fatto. 

Il contratto stipulato dai membri della coppia può essere sempre modificato o, più radicalmente, risolto. Il contratto può essere sciolto anche per decisione unilaterale, ossia per volontà di un solo membro della coppia, che dovrà notificare semplicemente la sua decisione all’altro membro. 

La convivenza di fatto, infine, contempla in caso di scioglimento il diritto del convivente più debole a ricevere dall’altro gli alimenti, non il mantenimento, qualora versi in una situazione di bisogno. Se le due parti, però, non si accordano sull’entità degli alimenti e sulla modalità con cui devono corrispondersi, si dovrà ricorrere a un Giudice che ne stabilirà i parametri tenendo conto del periodo di convivenza. 
 
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Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon