dovere di custodia

Dovere di custodia: il rispetto e la cura secondo la legge

Ci sono concetti del vivere comune che tendiamo a dare per scontati, sia per una facilità intuitiva di capire quali sono le implicazioni dei gesti che stiamo compiendo sia per saggezza popolare. Eppure anche alcuni concetti che diamo per scontati sono normati dalla legge, essendone le conseguenze sulla società troppo impattanti per poter essere trascurate. È il caso del dovere di custodia.

Cosa si intende per dovere di custodia?

Per custodia si intende un’attività di cura, di sorveglianza, di assistenza a persone o conservare cose, che deriva sia da un obbligo contrattuale sia extracontrattuale. Ad esempio, l’art. 1177 c.c. fa conseguire all’obbligo di consegnare una cosa quello della sua custodia (e quindi di conservazione) sino alla consegna.

L’obbligo di custodia è altresì tipico e conseguenza diretta del contratto di deposito: chi riceve una cosa mobile ha l’obbligo di custodirla e restituirla in natura, identica alla cosa ricevuta (art. 1766 c.c.).

Così anche in tema di locazione, il conduttore di un immobile assume l’obbligo di custodia del bene che ha ricevuto in locazione.

Cosa comporta il dovere di custodia di un bene o un animale?

L’art. 2051 c.c. stabilisce che ciascuno è responsabile per i danni cagionati dalle cose che ha in custodia.

Ciò significa che colui che “esercita un potere fisico” sulla cosa è chiamato a risarcire i danni causati dalla stessa: si pensi ad esempio l’uso di una bicicletta ricevuta in prestito da un amico, il soggetto che la usa è custode e quindi responsabile per i danni che provoca nell’uso del mezzo. La responsabilità sorge tuttavia quando l’effettivo potere sulla cosa è prolungato (uso della bicicletta per un mese), non vi è responsabilità se la custodia è temporanea o occasionale (ad esempio ricevo la biciletta per fare un giro).

Anche con riferimento agli animali, l’art. 2052 c.c. stabilisce che il proprietario o chi se ne serve per il tempo in cui l’ha in uso, è responsabile per i danni cagionati dall’animale, anche se questi si è smarrito. 

Dietro a ogni elemento che compone la vita civile c’è sempre una legge a cui riferirsi

Per questo, potersi appoggiare al momento giusto al giusto professionista per farci seguire nel modo migliore è fondamentale. Se hai l’esigenza di una consulenza legale contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan

dichiarazione sostitutiva

La dichiarazione sostitutiva di certificazione e di atti notori e le relative sanzioni in caso di non veridicità

La possibilità di presentare una dichiarazione sostitutiva è alle volte, per il cittadino, un vero e proprio sollievo. Risparmia infatti la necessità di produrre documenti il cui ottenimento richiederebbe tempo ed energia, ma si tratta di uno strumento da maneggiare con cura. La non veridicità di una dichiarazione sostitutiva, infatti, è sanzionata dalla legge. Cominciamo col capire di cosa si tratta quando parliamo di dichiarazione sostitutiva. 

Dichiarazione sostitutiva di certificazione e atto notorio: cosa dice la legge

Sono regolamentate dal Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”, approvato con d.P.R. n. 445 del 2000. In particolare, gli artt. 46 e 47 di detto decreto presidenziale disciplinano i casi e le modalità con cui il privato possa comprovare con dichiarazioni sottoscritte dall’interessato gli stati, le qualità personali e i fatti, tra le quali a titolo di esempio: 

  • data e il luogo di nascita; residenza e cittadinanza; 
  • il godimento dei diritti civili e politici; stato di famiglia; 
  • iscrizione in albi; 
  • titolo di studio; 
  • situazione reddituale o economica anche ai fini della concessione dei benefici di qualsiasi tipo previsti da leggi speciali. 
  • Possesso e numero del codice fiscale, della partita IVA e di qualsiasi dato presente nell’archivio dell’anagrafe tributaria; 
  • qualità di legale rappresentante di persone fisiche o giuridiche, di tutore, di curatore e simili; 
  • di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa.

La durata temporale delle dichiarazioni così rese corrisponde alla stessa validità degli atti che vanno a sostituire. Dall’art. 71 invece si prendono in considerazione i controlli sulle suddette dichiarazioni, che sono effettuati a campione in misura proporzionale al rischio e all’entità del beneficio, e nei casi di ragionevole dubbio. Se da detto controllo emergono delle irregolarità su quanto dichiarato, il dichiarante decade da eventuali benefici conseguiti.

Cosa succede se si dichiara il falso in una dichiarazione sostitutiva

Inoltre, in caso di dichiarazioni mendaci o atti falsi, è punito ai sensi dell’art. 483 c.p. che disciplina la falsità ideologica del privato commesso attestando falsamente a un pubblico ufficiale i fatti del quale l’atto è destinata a provare la verità, prevedendo la pena della reclusione fino a due anni. Il reato in esame viene punito duramente proprio perché presuppone la volontà e consapevolezza di commettere il falso.

L’approfondimento e la conoscenza della legge talvolta non è sufficiente

In molti casi, l’assistenza di un legale non è solo un modo per essere sicuri di essere nel giusto. Diventa una necessità nel momento in cui ci troviamo di fronte a una procedura troppo complessa o dobbiamo rispondere di qualche illecito. Se hai bisogno di assistenza rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti.

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

diritto di credito

Diritto di credito: cos’è, come nasce e quando si prescrive

Quante volte è capitato di avere un credito nei confronti di una persona e confidare nella sua buona fede circa il suo recupero? Tuttavia, spesso capita che, col passare del tempo tale credito vada dimenticato e solo anni dopo ci si accorga dell’ammanco. A questo punto sorge il dubbio se sia ancora possibile riscuoterlo o abbia “una data di scadenza”.

Quando si può parlare di diritto di credito?

Un diritto di credito è una situazione che fa capo a un soggetto, detto creditore, il quale, per soddisfare un proprio interesse, può pretendere una prestazione da un altro soggetto, detto debitore. Per fare un esempio pratico, si pensi a quando venditore e compratore concludono un contratto: il venditore si impegna a consegnare la merce e il compratore a corrispondere il denaro. 

Nel caso in cui il compratore non paghi immediatamente quanto acquistato, ecco che per il venditore sorge il diritto di credito.

Come posso dimostrare il mio diritto di credito?

Il più delle volte, il venditore, se si tratta di un professionista, quando consegna la merce emette anche una fattura che attesta tale consegna e l’importo da pagare. È proprio tale “pezzo di carta” che attesta il diritto di credito.

Posso ottenere il pagamento della fattura dopo che è trascorso del tempo dalla sua emissione?

Sì. Di regola il diritto di credito si prescrive nel termine di dieci anni.

E se il mio credito non deriva da un contratto?

Esistono altri tipi di diritti di credito, come ad esempio quello che sorge dal risarcimento di un danno o quello derivante dal canone di locazione e dalle spese condominiali non corrisposti alle scadenze pattuite.

Per tali crediti è necessario agire tempestivamente, in quanto il termine entro il quale si può chiedere che la somma venga corrisposta è più breve, rispettivamente di cinque e due anni.

È sufficiente sollecitare il pagamento per impedire che il credito si prescriva?

No, non è sufficiente. Non si deve confidare nelle parole del compratore che promette genericamente che pagherà, ma è necessario sollecitare formalmente il debitore a pagare entro un breve lasso di tempo così da evitare che il credito non possa più essere riscosso.

Insomma, è sempre meglio agire a livello formale!

Ma agire a livello formale prevede una profonda conoscenza della legge e delle procedure a essa legate. Ecco perché farsi assistere da un avvocato è sempre importante! Se hai bisogno di un professionista in tal senso, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

assegno di mantenimento

Assegno di mantenimento, cosa fare in caso di mancato pagamento?

La riforma Cartabia ha introdotto davvero molti cambiamenti nel diritto di famiglia. Uno dei cambiamenti introdotti da questo complessa riforma riguarda una delle sue espressioni più tangibili, economiche: l’assegno di mantenimento.

Assegno di mantenimento: cosa cambia con la riforma Cartabia

La riforma Cartabia, in vigore dal 30 giugno 2023, ha semplificato la possibilità di ottenere direttamente dal terzo il versamento dell’assegno di mantenimento stabilito in sede contenziosa. Il tutto senza ricorrere ad una procedura lunga e dispendiosa che scoraggiava i più nel recupero.

In passato, infatti, se, a seguito di una separazione, veniva stabilito un assegno di mantenimento nei confronti del coniuge e/o dei figli, ove l’obbligato non avesse adempiuto spontaneamente era necessario, per ottenere un pagamento continuo del dovuto, agire mediante ricorso  avanti al Tribunale , ai sensi dell’articolo 156  6 comma del codice civile, per ottenere l’ordine del Giudice al terzo debitore di versare direttamente la somma al beneficiario.

Se il terzo non pagava era necessario intraprendere una procedura contro il terzo

La normativa, in caso di divorzio, era assai più semplice, creando una disparità di trattamento tra il coniuge separato e quello divorziato. Infatti l’articolo 8 della Legge sul Divorzio prevede ai commi dal 3° al 6° un procedimento stragiudiziale che si articola  in tre fasi:

  1. Messa in mora dell’inadempiente con invio di raccomandata o tramite pec;
  2. Decorso del termine di trenta giorni dalla messa in mora;
  3. Notifica diretta al terzo debitore, con comunicazione anche all’obbligato, del provvedimento che ha disposto l’assegno e che ne contiene la misura, con l’invito a versargli direttamente le somme dovute.

La legge Cartabia, mutuando da questa procedura, assai più semplice, ha esteso la possibilità di ottenere il pagamento diretto del mantenimento anche nei casi di separazione. L’ articolo 473 bis numero 37 c.p.c. prevede , infatti, che si applichi la procedura prima limitata al solo caso del divorzio. Questo non solo in caso di separazione, ma anche in tutti quei casi nei quali vi sia il diritto da un assegno di mantenimento non percepito. Questo, in particolare, nei casi di ex conviventi con prole, operando quindi una parificazione tra i figli nati all’interno del matrimonio e fuori dal matrimonio . Inoltre la normativa in parola trova applicazione anche nel caso di negoziazione, ossia, quel diverso procedimento- che definiamo semi contenzioso. Mediante questo procedimento è possibile giungere alla separazione, al divorzio o a provvedimenti relativi all’affido e al mantenimento dei figli nati da una coppia non sposata.

E se il terzo non paga?

La norma di cui sopra disciplina anche questa circostanza, prevedendo che se il terzo non paga sarà possibile agire direttamente contro questi. L’articolo, inoltre, prevede anche l’ipotesi, non infrequente, nella quale il credito dell’obbligato sia già stato pignorato. Di regola il terzo a cui ci si rivolge è il datore di lavoro, e succede che lo stipendio sia già stato oggetto di precedenti pignoramenti. In questo caso sarà necessario rivolgersi al Giudice dell’esecuzione per stabilire la ripartizione delle somme. Va detto che l’assegno di mantenimento, soprattutto ove riguardi minori, ha una natura e una finalità tale da renderlo, nella maggior parte dei casi, prioritario rispetto ad altri pignoramenti.

L’assegno di mantenimento è solo la punta dell’iceberg!

Il diritto di famiglia è davvero complesso e delicato, perché va a toccare situazioni e casi molto sensibili e impattanti sul benessere psicofisico delle persone. Per questo è sempre meglio affidarsi al miglior professionista a nostra disposizione. Se hai bisogno di assistenza in materia rivolgiti al nostro studio, tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon

alberi del vicino

Alberi del vicino: quando una pianta viola la legge

A volte gli alberi del vicino danno noia, sconfinando con le fronde sul nostro giardino o, magari, riempiendo la nostra macchina di foglie. Non tutti sanno, però, che esistono delle disposizioni di legge volte a regolare le modalità di piantumazione e cura della vegetazione che cresce nei nostri cortili.

Il Legislatore, infatti, per evitare l’insorgere di litigi tra vicini, ha stabilito precisi limiti legali da rispettare che, se violati, possono addirittura richiedere l’intervento di un Giudice. 

Qualora nella nostra proprietà irrompa, in qualsiasi modo, parte della vegetazione che sorge nel fondo dei nostri vicini, l’Ordinamento, tenuto conto della particolarità del singolo caso, concede fondamentalmente due tutele che, se pur giuridicamente distinte, sono entrambe volte alla rimozione degli elementi di turbamento ed, eventualmente, al risarcimento del danno.

La violazione delle distanze legali per gli alberi del vicino

Nell’ordine, l’articolo 892 del codice civile tutela il proprietario di un fondo dall’eccessiva prossimità della vegetazione che cresce sul fondo del vicino e, nello specifico  detta le seguenti disposizioni in tema di distanze degli alberi dal confine: 

  • Tre metri per gli alberi di alto fusto. Rispetto alle distanze, si considerano alberi di alto fusto, quelli il cui fusto, semplice o diviso in rami, sorge ad altezza notevole […]”;
  • Un metro e mezzo per gli alberi non ad alto fusto […]”
  • Mezzo metro per le viti, gli arbusti, le siepi vive […]”.

È tuttavia necessario prestare attenzione alle previsioni regolamentari e agli usi locali che, se presenti oppure diversi rispetto a quelli appena elencati, saranno i parametri da tenere in considerazione.   

Come individuare la categoria corretta?

Il compito del giurista  esula da qualsivoglia valutazione strettamente scientifica. Allo stesso tempo, egli ha a disposizione gli elementi sufficienti per individuare la categoria botanica più opportuna, a partire dal copioso contributo giurisprudenziale sul tema. Infatti è oramai indiscusso che per attribuire ad un albero la qualifica di “alto fusto”, occorre tener presenti le caratteristiche vegetative dello stesso anche se, per giovane età o per ritardato sviluppo, non abbia già raggiunto l’altezza che per sua natura è destinato ad avere. A nulla rilevano infatti, eventuali potature irrazionali eseguite al solo fine di far apparire le piante a un’altezza inferiore rispetto a quella che fisiologicamente le caratterizza. 

E se a creare turbamento sono alberi piantati nei limiti stabiliti dalla legge?

Nel caso in cui le distanze legali siano state rispettate, ma nel nostro fondo sporgano comunque i rami degli alberi del vicino, quest’ultimo può essere, ai sensi dell’art. 896 c.c., costretto a tagliarli.

Questi diritti possono essere fatti valere a prescindere dall’esistenza di un eventuale danno patito dal proprietario, in quanto la finalità delle citate norme è proprio quella di salvaguardare il fondo stesso dal propagarsi di radici, dalla caduta delle foglie ovvero dall’immissione di ombra e umidità.

In questi casi una risoluzione bonaria, da ricercarsi anche attraverso l’instaurazione di un dialogo fattivo tra vicini, è certamente la strada più serena da intraprendere. Tuttavia, spesso ci si ritrova ad affrontare ingiustificato disinteresse e reticenza che rendono l’intervento di un legale imprescindibile. Legale che, nel caso in cui deciderà d’intraprendere la via dell’azione giudiziaria, dovrà preliminarmente attivare una procedura di mediazione obbligatoria ai sensi dell’articolo 5 comma 1 bis del D.lgs. 28/2010

Se si decide di procedere per risolvere il problema degli alberi del vicino…

Anche questioni apparentemente innocue e normali possono sfociare in litigi e screzi. Per questo è sempre meglio affrontare la situazione facendosi consigliare da un professionista. Se hai bisogno di assistenza legale non esitare a rivolgerti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con la dottoressa Silvia Pellicani

promessa di matrimonio

Promessa di matrimonio: molto più di un momento romantico!

Le stesse parole promessa di matrimonio evocano alla mente immagini molto precise, commoventi e forse un po’ stereotipate. Lui in ginocchio con un bellissimo tramonto sullo sfondo, un anello adagiato sul suo cofanetto fra le mani, mentre lei, emozionata e con la voce rotta dalla commozione, sussurra il fatidico sì.

Scene da romanzo che tutti e tutte vorremmo vivere una volta nella vita… ma al di là dei cliché, dietro al concetto di Promessa di matrimonio c’è ben di più, e non solo a livello emotivo! Si tratta di un vero e proprio istituto giuridico: cerchiamo di capirlo!

Promessa di matrimonio, oltre il romanticismo!

La promessa di matrimonio è un istituto da molti, oggi, considerato obsoleto. Sicuramente un qualsiasi studente di Giurisprudenza, quando si trova a dover studiare gli articoli 79-80 e 81 del codice civile, rimane perplesso e stupito, convinto che si tratti di qualcosa, al più, di “pittoresco” ma totalmente inattuale.

Qui sta il bello della professione, ossia il fatto che, per citare Pirandello, la realtà supera sempre la fantasia. Così succede che l’avvocato si trovi a fare i conti con quei tre “antichi” articoli che tanto lo avevano fatto sorridere da studente e che certamente aveva nel fondo della sua memoria e dei suoi appunti. Succede quando arriva in studio il promesso sposo abbandonato sull’altare e che ha il vestito da cerimonia già confezionato. Oppure la promessa sposa tradita prima del fatidico giorno, con l’agenzia di viaggi che chiede il saldo di un viaggio di nozze che nessuno farà mai. O ancora la futura sposa che non intende in alcun modo restituire il prezioso anello di fidanzamento regalato anni addietro. O, infine, i poveri genitori dei promessi sposi che hanno dato fondo ai loro risparmi per costruire il nido d’amore rimasto vuoto.

Ma in cosa consiste la promessa di matrimonio?

La promessa di matrimonio a cui fa riferimento il codice è quella solenne , ed è quella che fa chiunque si reca in Comune a chiedere le pubblicazioni del matrimonio. Si sostanzia, quindi, nel promettersi vicendevolmente di convolare a nozze.

Il codice chiarisce immediatamente che si tratta, in realtà, di una promessa senza alcun carattere vincolante per il principio della libertà matrimoniale, considerato un diritto della personalità. Tuttavia, il non dar seguito alla promessa ha delle conseguenze, in senso lato, economiche.

Innanzi tutto è possibile chiedere la restituzione dei doni fatti a causa del matrimonio se questo non è stato contratto. Questo entro il termine di un anno dal momento del rifiuto o la morte di uno dei futuri sposi. Non ci si riferisce solo al classico anello di fidanzamento. Secondo la dottrina , il termine è ben più esteso e si riferisce anche alla corrispondenza epistolare, ossia alle lettere, e alle fotografie.

Tutto questo è possibile perché la promessa di matrimonio produce effetti definitivi a prescindere dalla circostanza che i fidanzati abbiano deciso se e quando sposarsi. Gli effetti, tuttavia, possono essere rimossi per il solo fatto che non sia seguito il matrimonio, indipendentemente dalla causa della rottura del fidanzamento. In definitiva ciò significa che chiunque dei due promittenti ha diritto a richiedere la restituzione dei doni fatti durante il fidanzamento. Anche colui che con il suo comportamento ha dato origine al venir meno della promessa.

Dunque nel rompere una promessa di matrimonio il concetto di colpa non gioca alcun ruolo?

Non esattamente: la norma prevede, in effetti, l’obbligo di risarcire i danni cagionati all’altra parte dal promittente che, senza giusto motivo, ricusi di eseguire la promessa di matrimonio. Insomma, lo sposo o la sposa abbandonata sull’altare ha diritto di chiedere il risarcimento del danno. Questo sia per le spese fatte che per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa.

Questo significa che il promesso sposo o sposa abbandonato o abbandonata in prossimità delle nozze, potrà chiedere all’altro di non fargli o farle gravare le spese fatte per le nozze stesse. Si pensi al vestito degli sposi, al ristornate, alle partecipazioni e alla bomboniere. Ma anche ai mobili acquistati per la nuova casa o, ancora la casa stessa. Tuttavia, bisognerà valutare, al fine di determinare quale tipo di danno, se il bene acquistato dal promittente deluso sia ancora utilizzabile, così come la nuova casa o gli arredi della stessa.

A quanto può ammontare il risarcimento, e possono richiederlo anche terze parti?

Accanto al limite qualitativo, che esclude quindi possa essere risarcito il lucro cessante, o il danno morale, la norma prevede, altresì, un limite quantitativo. Il danno è risarcito solo nel limite in cui le spese corrispondano alla condizione delle parti, ossia alla condizione economica dello sposo o della sposa. È buona norma quindi, quando si vuole intraprendere la strada del matrimonio, di contenere le spese entro le proprie possibilità ma soprattutto, entro le possibilità dell’altra parte. D’altro canto, non si sa mai!

E i terzi possono agire? Possono i genitori, per esempio, agire nei confronti di colui che ha rotto il fidanzamento se hanno sostenuto spese per il figlio o la figlia? La questione è dibattuta, tuttavia, trattandosi di un’obbligazione extracontrattuale, si deve ritenere che gli stessi siano legittimati ad agire.

Quella di una mancata promessa di matrimonio è una condizione estrema e traumatica, che nessuno di noi nella vita vorrebbe vivere. 

Purtroppo però la vita è imprevedibile, e talvolta ci getta in situazioni da cui dobbiamo uscire con la giusta preparazione e il giusto supporto! Per questo occorre sempre tenere a mente il professionista che possa aiutarci in qualsiasi situazione.

Contatta il nostro studio se ritieni di averne bisogno: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon

rettificare i dati anagrafici

Rettificare i dati anagrafici e di Stato Civile

La vita, si sa, riserva sorprese e strade diverse da quelle che ci saremmo aspettati. Il cambiamento è una costante delle nostre esistenze, ed è forse questo che rende la vita bella ed eccitante, sempre capace di sorprenderci. Ma anche noi cambiamo col cambiare delle cose, e dai cambiamenti più lievi a quelli più marcati, per tutelare i nostri diritti e mettere lo Stato nella migliore condizione di riconoscere le nostre peculiarità e le nostre esigenze, possiamo avere, in determinati momenti, necessita di rettificare i dati anagrafici che ci contraddistinguono. 

Parliamo di qualcosa di molto ufficiale e tecnico: non semplicemente un pro-forma, ma un passaggio fondamentale che ci consente di vedere riconosciute le nostre caratteristiche individuali. Qualcosa di cui, insomma, tenere conto, e che conviene sapere come fare. 

Rettificare i dati anagrafici: un passaggio istituzionale

Nel nostro ordinamento è previsto un peculiare strumento che permette la correzione o la rettifica degli atti dello Stato Civile.  

In questo sento, ai sensi dell’art. 95 del Decreto del Presidente della Repubblica datato 3 novembre 2000, n. 396, chiunque intenda promuove la rettifica di un atto dello stato civile è tenuto a proporre un ricorso presso la sezione della Volontaria Giurisdizione del Tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio civile presso il quale è stato registrato l’atto di cui si tratta. Viceversa, qualora si volessero apportare delle fattive modifiche al proprio nome e cognome, l’art. 89 del suddetto Decreto prevede un iter più gravoso la cui relativa domanda va inoltrata direttamente al Prefetto della provincia di residenza.  

Ma cosa intendiamo parlando di un “atto dello Stato Civile”? E quali sono gli “errori” per i quali può essere proposto il ricorso?  

I confini della materi, ovviamente, non sono così ben delineati, ma in sintesi possiamo definire gli atti dello stato civile come quegli atti pubblici riguardanti la vita di una persona. Ad esempio i certificati che attestano la nascita, la cittadinanza, il matrimonio o la morte. In quanto tali, questi devono essere registrati negli archivi dello stato civile presenti in ogni comune italiano. A tal proposito, l’art. 49 del D.P.R del 3 novembre 2000, n. 396 fornisce un novero pressoché completo dei provvedimenti che, annotati nell’atto di nascita, delineano lo stato civile di una persona e che sono pertanto passibili di eventuali correzioni o rettifiche. 

Quanto alla tipologia di errori per i quali può essere presentato ricorso si badi bene, dovesse trattarsi di un semplice errore materiale di scrittura, non servirà rivolgersi al Tribunale. Sarà invece sufficiente presentare un’istanza all’ufficio di stato civile che provvederà direttamente alla correzione. 

Rettificare i dati anagrafici, quando subentra il Tribunale

Ricevuto il ricorso e iscritto a ruolo il procedimento, il Tribunale può assumere tutte le informazioni che ritiene utili e può convocare, ove lo ritenga necessario, anche l’Ufficiale di Stato civile. Provvede poi a emanare un decreto motivato adottato in camera di consiglio, avverso il quale può essere proposto reclamo alla Corte d’Appello nel termine di dieci giorni. 

La procedura per rettificare i dati anagrafici, benché relativamente semplice, richiede certamente l’assistenza di un legale in grado di assistere l’interessato in tutte le sue fasi, soprattutto in quella d’ allegazione delle prove documentali finalizzate ad attestare la fondatezza della pretesa avanzata. 

Nulla è immediato, conviene sempre avere un professionista al nostro fianco!

Persino una cosa apparentemente semplice come rettificare i dati anagrafici è, come abbiamo visto, complessa quando poi le informazioni devono essere trasmesse nel modo più appropriato. Per questo poter usufruire dell’assistenza di un legale è sempre una garanzia: se hai esigenze di questo tipo, puoi rivolgerti al nostro studio! Tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con la dottoressa Silvia Pellicani

convivenza di fatto

Convivenza di fatto: una tutela per le coppie non sposate 

Ci sono persone che, pur vivendo insieme ed essendo una coppia consolidata e solida, decidono di non convolare a nozze. Si tratta di una scelta assolutamente legittima e rispettabile che può avere le più disparate motivazioni, e che lo stato riconosce e norma. Lo scopo è di tutelare il più possibile i diritti dei membri della coppia e inquadrare il loro stato in una fattispecie normativa: la disciplina della convivenza di fatto

In Italia, la normativa riguardante la convivenza di fatto viene finalmente alla luce con la stessa norma che regola le Unioni Civili.  Si tratta legge 76/2016, che disciplina anche il rapporto di convivenza. Differentemente da quella sulle unioni civili, riconosce una serie di diritti e di doveri alle persone di sesso diverso, maggiorenni, che coabitino stabilmente. Questi, in virtù del legame affettivo, si prestano reciproca assistenza morale e materiale. 

Convivenza di fatto: un iter burocratico davvero semplificato 

Per essere dichiarati conviventi, i componenti della coppia devono rendere una dichiarazione avanti all’Ufficiale di Stato Civile. Non è necessaria la presenza di testimoni, ed è sufficiente anche una semplice dichiarazione con raccomandata o via pec. 

Diritti e doveri della coppia di fatto. 

Dalla dichiarazione di convivenza sorgono una serie di diritti e doveri soprattutto avanti ai terzi che permettano il manifestarsi del legame affettivo ed impediscano al convivente di essere trattato, ai fini normativi, come uno “sconosciuto”. Si pensi solo alla difficoltà frapposte dalle leggi ad avere informazioni sullo stato di salute di un soggetto, possibilità riservata ai soli congiunti , tra cui, appunto, non veniva annoverato, il convivente. 

La convivenza di fatto conferisce, infatti, ai membri della coppia il diritto di visita, di assistenza ed accesso alle informazioni reciproche in caso di malattia e di ricovero, ma anche in caso di detenzione. In caso di morte di un membro della coppia, il convivente può continuare ad abitare nella casa di proprietà esclusiva del defunto per un periodo che varia dai 2 ai 5 anni. Oppure può succedergli nel contratto di locazione. 

Nel caso in cui il decesso sia causato da un fatto illecito altrui, come ad esempio un incidente stradale, viene riconosciuto al convivente della vittima il diritto al risarcimento del danno morale. Vengono regolamentati anche i diritti nell’attività di impresa di quel convivente che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente. 

I conviventi di fatto hanno la possibilità di sottoscrivere un contratto di convivenza che disciplini i loro rapporti patrimoniali. Il contratto di convivenza, che deve essere redatto in forma scritta per avere validità, può avere anche la forma di scrittura privata autenticata, oltre che di atto pubblico. Può essere autenticato anche da un avvocato. 

Come si scioglie una convivenza di fatto. 

Il contratto stipulato dai membri della coppia può essere sempre modificato o, più radicalmente, risolto. Il contratto può essere sciolto anche per decisione unilaterale, ossia per volontà di un solo membro della coppia, che dovrà notificare semplicemente la sua decisione all’altro membro. 

La convivenza di fatto, infine, contempla in caso di scioglimento il diritto del convivente più debole a ricevere dall’altro gli alimenti, non il mantenimento, qualora versi in una situazione di bisogno. Se le due parti, però, non si accordano sull’entità degli alimenti e sulla modalità con cui devono corrispondersi, si dovrà ricorrere a un Giudice che ne stabilirà i parametri tenendo conto del periodo di convivenza. 
 
Hai bisogno di assistenza per tutelarti o tutelare la tua coppia? Rivolgiti al nostro studio per avere assistenza: la prima consulenza è senza impegno! 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon 

ricorso contro una multa

Ricorso contro una multa: si può fare?

A chi non è mai capitato di prendere una multa? Purtroppo, nella vita, succede di commettere infrazioni al codice della strada, magari in condizioni in cui non era possibile evitare una sanzione, o, ancora, in tratti di strada in cui le regole non erano chiaramente indicate. Capita anche, meno spesso, di essere vittime di errori di valutazione. Ma, essendo sicuri di essere vittime di errori o di avere delle ottime giustificazioni, è possibile fare ricorso contro una multa?

Diciamo subito di sì: la legge ammette la possibilità di opporre un ricorso a una sanzione, ma solo in casi ben presici e con una procedura altrettanto precisa. Vediamo di cosa si tratta.

Ricorso contro una multa: di che tipo è, e come si fa?

Ci sono due alternative di ricorsi:

  1. Ricorso al prefetto: art. 203 c.d.s. Prevede il ricorso da presentare al Prefetto del luogo in cui è stata commessa la violazione entro 60 giorni dalla notifica del verbale. Può essere presentato alla Prefettura territorialmente competente o alla sezione di polizia stradale che ha accertato la violazione, personalmente dall’interessato o inoltrato a mezzo raccomandata. Con allegazione di fatti a propria discolpa;
  2. Ricorso al Giudice di Pace: art. 204 c.d.s.. Deve essere presentato al Giudice di Pace territorialmente competente per la violazione, dall’interessato o con l’assistenza di un legale.

Le due tipologie di ricorsi prevedono che non si sia già provveduto al pagamento della sanzione. Quindi se si è provveduto a saldare l’ammenda non è più possibile fare ricorso di alcun genere.

Come si presenta un ricorso contro una multa

Il ricorso può essere presentato dall’interessato, che si identifica in:

  1. Trasgressore (conducente del veicolo)
  2. Proprietario del veicolo: se diverso dal conducente o in caso di sanzione non contestata immediatamente (autovelox)
  3. Responsabile legale (nel caso di infrazione commessa da minorenne)

Esiti possibili del ricorso al Giudice di Pace;

  1. accoglimento della contestazione e annullamento della multa;
  2. riduzione dell’importo della sanzione;
  3. rigetto del ricorso per inammissibilità della contestazione;
  4. rigetto del ricorso e conferma della sanzione irrogata.

Esiti possibili del ricorso al Prefetto:

  1. accoglimento del ricorso e annullamento della sanzione;
  2. rigetto della contestazione e condanna al pagamento del doppio dell’importo originario.

Pagamento della sanzione (in caso di non proposizione di ricorso):

  1. può avvenire in misura scontata del 30% entro 5 giorni dall’accertamento della violazione se è ammesso il pagamento in misura ridotta in base alla violazione che è stata accertata;
  2. dopo i 60 giorni, in caso di mancato pagamento e di mancata presentazione di un ricorso, il verbale diventa titolo esecutivo e pertanto si riceverà una cartella esattoriale ove sarà indicata la somma da pagare. Anche dopo aver ricevuto la cartella esattoriale è possibile presentare un ricorso, ma questo esclusivamente nei casi di errori materiali della cartella o per vizi della notifica, mentre la violazione nel merito non sarà più contestabile

Conoscere la legge significa esercitare i propri diritti!

Può suonare forse un po’ retorico, eppure è vero: essere preparati, informarsi e soprattutto farsi rappresentare al meglio è fondamentale, nelle occorrenze e nei casi che la vita ci chiede di affrontare. Se pensi di aver bisogno di assistenza contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

raccomandata

Raccomandata o atto giudiziario: Si può evitare di ritirarli?

Quante volte capita di non voler ricevere una raccomandata perché si ha paura che si tratti di una multa, di una diffida o di un atto giudiziario e non ci si fa trovare in casa o si rifiuta di ricevere la busta? È davvero una decisione saggia? Vediamolo insieme

La raccomandata

La raccomandata a.r. o con ricevuta di ritorno viene utilizzata dal mittente per avere la certezza che la busta sia stata spedita e consegnata al destinatario. Il postino, infatti, dopo aver consegnato il plico al destinatario, invia al mittente la conferma dell’avvenuto ricevimento.

Mancato ritiro della raccomandata: cosa succede?

Nel caso in cui il postino si rechi all’indirizzo indicato sulla busta e vi non trovi nessuno, lascia un avviso nella cassetta postale del destinatario, con il quale lo informa della tentata consegna. La raccomandata, invece, non viene inserita in cassetta, ma viene depositata presso l’ufficio postale più vicino, dove rimane in giacenza per un mese. Qualora il destinatario non vada andare a ritirare la busta, dopo 30 giorni la busta viene restituita al mittente.

L’atto giudiziario

La cosiddetta busta verde contenente un atto giudiziario, può essere notificata in due modi: a mezzo del servizio postale oppure tramite un ufficiale giudiziario.

  • Notificato a mezzo posta

Nel primo caso, se il destinatario rifiuta di ricevere la busta, il postino indica la data di mancata consegna e restituisce l’avviso al mittente. In ogni caso, la notifica si intende perfezionata al momento del rifiuto dell’atto. Se, invece, il destinatario è assente, il postino deposita la busta presso l’ufficio postale e dà avviso dell’avvenuto deposito con un’altra raccomandata. La notifica si considera perfezionata una volta decorsi 10 giorni dalla comunicazione di avvenuto deposito dell’atto, sempre che esso non venga ritirato prima dei 10 giorni.

  • Notificato dall’Ufficiale Giudiziario

In alternativa, l’atto giudiziario può essere notificato a mani (cioè personalmente) dall’ufficiale giudiziario. Questi, se il destinatario non ritira il plico o è assente, deposita la busta presso la Casa comunale, affigge alla porta o alla cassetta delle lettere del destinatario un avviso di deposito e ne dà avviso a quest’ultimo con un’ulteriore raccomandata. Anche in questo caso vale la regola dei 10 giorni: la notifica si considera perfezionata una volta trascorsi 10 giorni dall’avviso di avvenuto deposito, anche se nessuno è mai andato a ritirare la busta.

Evitare di ritirare una raccomandata o un atto giudiziario, dunque, non è mai consigliabile. Non conoscendo il contenuto dell’atto, infatti, si perde la possibilità di difendersi adeguatamente e di rivolgersi in tempo utile ad un legale.

Non c’è da scherzare, dunque, con una raccomandata o con un atto giudiziario!

E una volta ricevuta, si potrebbe aver bisogno di assistenza legale: rivolgiti al nostro studio per essere rappresentato nel migliore dei modi, tutela i tuoi diritti!