convivenza di fatto

Convivenza di fatto: una tutela per le coppie non sposate 

Ci sono persone che, pur vivendo insieme ed essendo una coppia consolidata e solida, decidono di non convolare a nozze. Si tratta di una scelta assolutamente legittima e rispettabile che può avere le più disparate motivazioni, e che lo stato riconosce e norma. Lo scopo è di tutelare il più possibile i diritti dei membri della coppia e inquadrare il loro stato in una fattispecie normativa: la disciplina della convivenza di fatto

In Italia, la normativa riguardante la convivenza di fatto viene finalmente alla luce con la stessa norma che regola le Unioni Civili.  Si tratta legge 76/2016, che disciplina anche il rapporto di convivenza. Differentemente da quella sulle unioni civili, riconosce una serie di diritti e di doveri alle persone di sesso diverso, maggiorenni, che coabitino stabilmente. Questi, in virtù del legame affettivo, si prestano reciproca assistenza morale e materiale. 

Convivenza di fatto: un iter burocratico davvero semplificato 

Per essere dichiarati conviventi, i componenti della coppia devono rendere una dichiarazione avanti all’Ufficiale di Stato Civile. Non è necessaria la presenza di testimoni, ed è sufficiente anche una semplice dichiarazione con raccomandata o via pec. 

Diritti e doveri della coppia di fatto. 

Dalla dichiarazione di convivenza sorgono una serie di diritti e doveri soprattutto avanti ai terzi che permettano il manifestarsi del legame affettivo ed impediscano al convivente di essere trattato, ai fini normativi, come uno “sconosciuto”. Si pensi solo alla difficoltà frapposte dalle leggi ad avere informazioni sullo stato di salute di un soggetto, possibilità riservata ai soli congiunti , tra cui, appunto, non veniva annoverato, il convivente. 

La convivenza di fatto conferisce, infatti, ai membri della coppia il diritto di visita, di assistenza ed accesso alle informazioni reciproche in caso di malattia e di ricovero, ma anche in caso di detenzione. In caso di morte di un membro della coppia, il convivente può continuare ad abitare nella casa di proprietà esclusiva del defunto per un periodo che varia dai 2 ai 5 anni. Oppure può succedergli nel contratto di locazione. 

Nel caso in cui il decesso sia causato da un fatto illecito altrui, come ad esempio un incidente stradale, viene riconosciuto al convivente della vittima il diritto al risarcimento del danno morale. Vengono regolamentati anche i diritti nell’attività di impresa di quel convivente che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente. 

I conviventi di fatto hanno la possibilità di sottoscrivere un contratto di convivenza che disciplini i loro rapporti patrimoniali. Il contratto di convivenza, che deve essere redatto in forma scritta per avere validità, può avere anche la forma di scrittura privata autenticata, oltre che di atto pubblico. Può essere autenticato anche da un avvocato. 

Come si scioglie una convivenza di fatto. 

Il contratto stipulato dai membri della coppia può essere sempre modificato o, più radicalmente, risolto. Il contratto può essere sciolto anche per decisione unilaterale, ossia per volontà di un solo membro della coppia, che dovrà notificare semplicemente la sua decisione all’altro membro. 

La convivenza di fatto, infine, contempla in caso di scioglimento il diritto del convivente più debole a ricevere dall’altro gli alimenti, non il mantenimento, qualora versi in una situazione di bisogno. Se le due parti, però, non si accordano sull’entità degli alimenti e sulla modalità con cui devono corrispondersi, si dovrà ricorrere a un Giudice che ne stabilirà i parametri tenendo conto del periodo di convivenza. 
 
Hai bisogno di assistenza per tutelarti o tutelare la tua coppia? Rivolgiti al nostro studio per avere assistenza: la prima consulenza è senza impegno! 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon 

ricorso contro una multa

Ricorso contro una multa: si può fare?

A chi non è mai capitato di prendere una multa? Purtroppo, nella vita, succede di commettere infrazioni al codice della strada, magari in condizioni in cui non era possibile evitare una sanzione, o, ancora, in tratti di strada in cui le regole non erano chiaramente indicate. Capita anche, meno spesso, di essere vittime di errori di valutazione. Ma, essendo sicuri di essere vittime di errori o di avere delle ottime giustificazioni, è possibile fare ricorso contro una multa?

Diciamo subito di sì: la legge ammette la possibilità di opporre un ricorso a una sanzione, ma solo in casi ben presici e con una procedura altrettanto precisa. Vediamo di cosa si tratta.

Ricorso contro una multa: di che tipo è, e come si fa?

Ci sono due alternative di ricorsi:

  1. Ricorso al prefetto: art. 203 c.d.s. Prevede il ricorso da presentare al Prefetto del luogo in cui è stata commessa la violazione entro 60 giorni dalla notifica del verbale. Può essere presentato alla Prefettura territorialmente competente o alla sezione di polizia stradale che ha accertato la violazione, personalmente dall’interessato o inoltrato a mezzo raccomandata. Con allegazione di fatti a propria discolpa;
  2. Ricorso al Giudice di Pace: art. 204 c.d.s.. Deve essere presentato al Giudice di Pace territorialmente competente per la violazione, dall’interessato o con l’assistenza di un legale.

Le due tipologie di ricorsi prevedono che non si sia già provveduto al pagamento della sanzione. Quindi se si è provveduto a saldare l’ammenda non è più possibile fare ricorso di alcun genere.

Come si presenta un ricorso contro una multa

Il ricorso può essere presentato dall’interessato, che si identifica in:

  1. Trasgressore (conducente del veicolo)
  2. Proprietario del veicolo: se diverso dal conducente o in caso di sanzione non contestata immediatamente (autovelox)
  3. Responsabile legale (nel caso di infrazione commessa da minorenne)

Esiti possibili del ricorso al Giudice di Pace;

  1. accoglimento della contestazione e annullamento della multa;
  2. riduzione dell’importo della sanzione;
  3. rigetto del ricorso per inammissibilità della contestazione;
  4. rigetto del ricorso e conferma della sanzione irrogata.

Esiti possibili del ricorso al Prefetto:

  1. accoglimento del ricorso e annullamento della sanzione;
  2. rigetto della contestazione e condanna al pagamento del doppio dell’importo originario.

Pagamento della sanzione (in caso di non proposizione di ricorso):

  1. può avvenire in misura scontata del 30% entro 5 giorni dall’accertamento della violazione se è ammesso il pagamento in misura ridotta in base alla violazione che è stata accertata;
  2. dopo i 60 giorni, in caso di mancato pagamento e di mancata presentazione di un ricorso, il verbale diventa titolo esecutivo e pertanto si riceverà una cartella esattoriale ove sarà indicata la somma da pagare. Anche dopo aver ricevuto la cartella esattoriale è possibile presentare un ricorso, ma questo esclusivamente nei casi di errori materiali della cartella o per vizi della notifica, mentre la violazione nel merito non sarà più contestabile

Conoscere la legge significa esercitare i propri diritti!

Può suonare forse un po’ retorico, eppure è vero: essere preparati, informarsi e soprattutto farsi rappresentare al meglio è fondamentale, nelle occorrenze e nei casi che la vita ci chiede di affrontare. Se pensi di aver bisogno di assistenza contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

raccomandata

Raccomandata o atto giudiziario: Si può evitare di ritirarli?

Quante volte capita di non voler ricevere una raccomandata perché si ha paura che si tratti di una multa, di una diffida o di un atto giudiziario e non ci si fa trovare in casa o si rifiuta di ricevere la busta? È davvero una decisione saggia? Vediamolo insieme

La raccomandata

La raccomandata a.r. o con ricevuta di ritorno viene utilizzata dal mittente per avere la certezza che la busta sia stata spedita e consegnata al destinatario. Il postino, infatti, dopo aver consegnato il plico al destinatario, invia al mittente la conferma dell’avvenuto ricevimento.

Mancato ritiro della raccomandata: cosa succede?

Nel caso in cui il postino si rechi all’indirizzo indicato sulla busta e vi non trovi nessuno, lascia un avviso nella cassetta postale del destinatario, con il quale lo informa della tentata consegna. La raccomandata, invece, non viene inserita in cassetta, ma viene depositata presso l’ufficio postale più vicino, dove rimane in giacenza per un mese. Qualora il destinatario non vada andare a ritirare la busta, dopo 30 giorni la busta viene restituita al mittente.

L’atto giudiziario

La cosiddetta busta verde contenente un atto giudiziario, può essere notificata in due modi: a mezzo del servizio postale oppure tramite un ufficiale giudiziario.

  • Notificato a mezzo posta

Nel primo caso, se il destinatario rifiuta di ricevere la busta, il postino indica la data di mancata consegna e restituisce l’avviso al mittente. In ogni caso, la notifica si intende perfezionata al momento del rifiuto dell’atto. Se, invece, il destinatario è assente, il postino deposita la busta presso l’ufficio postale e dà avviso dell’avvenuto deposito con un’altra raccomandata. La notifica si considera perfezionata una volta decorsi 10 giorni dalla comunicazione di avvenuto deposito dell’atto, sempre che esso non venga ritirato prima dei 10 giorni.

  • Notificato dall’Ufficiale Giudiziario

In alternativa, l’atto giudiziario può essere notificato a mani (cioè personalmente) dall’ufficiale giudiziario. Questi, se il destinatario non ritira il plico o è assente, deposita la busta presso la Casa comunale, affigge alla porta o alla cassetta delle lettere del destinatario un avviso di deposito e ne dà avviso a quest’ultimo con un’ulteriore raccomandata. Anche in questo caso vale la regola dei 10 giorni: la notifica si considera perfezionata una volta trascorsi 10 giorni dall’avviso di avvenuto deposito, anche se nessuno è mai andato a ritirare la busta.

Evitare di ritirare una raccomandata o un atto giudiziario, dunque, non è mai consigliabile. Non conoscendo il contenuto dell’atto, infatti, si perde la possibilità di difendersi adeguatamente e di rivolgersi in tempo utile ad un legale.

Non c’è da scherzare, dunque, con una raccomandata o con un atto giudiziario!

E una volta ricevuta, si potrebbe aver bisogno di assistenza legale: rivolgiti al nostro studio per essere rappresentato nel migliore dei modi, tutela i tuoi diritti!

giustizia sportiva

Giustizia sportiva: fra diritto di critica e diffamazione

L’animosità, lo sanno tutti, fa parte dello sport. La competizione infiamma gli animi, e al di là dell’opposizione sul piano fisico, spesso nello sport sono le parole a volare più alte e a colpire più forte. Ma quando, secondo la legge, si travalica la critica e si sconfina nella diffamazione? Quando occorre rivolgersi alla giustizia sportiva?

Recentemente, il Tribunale Nazionale della Federazione Italiana Giuoco Calcio ha riportato l’attenzione su una linea di confine sottile: quando una dichiarazione pubblica da parte di un esponente di una istituzione sportiva, sia essa una Federazione, un Comitato o qualsiasi altro ente, può configurare diffamazione.  

Giustizia sportiva: cosa dice la legge 

L’articolo 23 del Codice di Giustizia sportiva recita: 

“Ai soggetti dell’ordinamento federale è fatto divieto di esprimere pubblicamente giudizi o rilievi lesivi della reputazione di persone, società od organisimi operanti nell’ambito del CONI, della FIGC della UEFA o della FIFA.  La dichiarazione è considerata pubblica quando è resa in pubblico, ovvero quando per i destinatari, il mezzo o le modalità della comunicazione è destinata ad essere conosciuta o può essere conosciuta da più persone”.  

A questo va accostato il reato di diffamazione così come viene definito dal Codice Penale, che ne definisce la fattispecie. Questa si configura quando la persona non solo ha la consapevolezza di esprimere una frase lesiva della reputazione di persone determinate e individuate, ma anche la volontà che tale affermazione denigratoria venga a conoscenza di altri. Quindi, non solo l’oggetto della diffamazione deve essere scientemente preciso e identificabile, ma vi è anche l’intenzione di mettere a parte terzi soggetti delle affermazioni denigratorie.  

Ma quando, invece, si parla solo di critica? 

Per “critica” intendiamo l’espressione di un’opinione che non può pretendersi obiettiva, essendo per sua natura fondata su un’interpretazione soggettiva di fatti e comportamenti.  

Secondo la giustizia sportiva, si tratta di una “esimente”, ossia una causa di esclusione dalla responsabilità penale. Per riconoscere l’esimente del diritto di critica, però, è indispensabile verificare l’esistenza di una solida base di collegamento fra affermazioni valutative offensive e fatti veri.  

Come dice l’articolo 21 della Costituzione, “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.  

Il Caso 

La vicenda oggetto della decisione 9/21 del Tribunale Nazionale della FIGC riguardava una dichiarazione pubblicata sul sito web di una Società Sportiva di Gioco Calcio, poi riportata su alcune testate giornalistiche online, nella quale si muovevano critiche nei confronti del delegato della Lega Pro e del rappresentante della Procura Federale incaricati del controllo di una gara, attaccando per estensione la credibilità delle stesse istituzioni coinvolte.  

Il Tribunale Federale Nazionale, investito della questione, ravvisava che le dichiarazioni “possono certamente essere qualificate come dichiarazioni pubbliche in quanto destinate ad essere conosciute da più persone per il mezzo e la modalità di comunicazione (pubblicazione su sito internet della società e su testate giornalistiche online)”.  Riguardo la fattispecie diffamazione, Tribunale Federale riconosce l’esimente del diritto di critica, poiché “Le espressioni utilizzate, infatti, non costituiscono un gratuito attacco al Commissario di campo ed al delegato della Procura federale, perpetrato con finalità meramente denigratorie, ma realizzano piuttosto una critica, sia pure aspra, all’operato di tali soggetti”.  

Anche la giustizia sportiva è materia delicata, che richiede l’intervento di professionisti

La legge è un delicato gioco di equilibri e di fonti, la cui priorità ha un ordine ben preciso, per questo affidarsi a un professionista è fondamentale: contatta il nostro studio per avere assistenza diretta, tutela i tuoi diritti! 

Articolo scritto in collaborazione con la dottoressa Giulia Schiavon

unioni civili

Unioni civili: anatomia di un diritto

Il tema dei diritti civili non perde mai il suo ruolo di spicco nel dibattito pubblico nazionale. Da ultimo l’attenzione è stata focalizzata sul Ddl Zan, la legge sull’omotransfobia bocciata al senato, ma il rumore per quest’ultimo dibattito rischia di farci perdere di vista una battaglia di pari entità, combattuta qualche anno fa e, a detta di molti, vinta: quella per le unioni civili

Da anni si sentiva la necessità di dare una veste legale alla situazione in cui si trovano  molte persone che, per una ragione o per l’altra, non potevano o non volevano sposarsi ma ravvisavano la necessità di reciproca assistenza, cura e delega. Specialmente, il problema veniva sollevato nell’ambito della comunità LGBTQI+, che riscontrava una mancanza di tutela di coppia pressoché totale. 

Con la legge 76 del 20 maggio 2016 viene finalmente regolato, dopo un lungo dibattito, l’istituto delle unioni civili, riservato alle persone dello stesso sesso, unificandolo con la disciplina della convivenza di fatto che riguardava invece sia le coppie omosessuali che quelle eterosessuali. 

La normativa riconosce alle persone dello stesso sesso la possibilità di costituire una unione civile

I cittadini possono unirsi facendo discendere dall’unione civile gli stessi diritti e gli stessi doveri che hanno due coniugi eterosessuali all’interno del matrimonio. L’istituto è dunque equivalente al matrimonio: il diverso nome corrisponde a una precisa scelta di tipo politico, ma tuttavia non toglie nulla all’unione civile rispetto al differente ma egualitario istituto del matrimonio. 

Tuttavia, qualche differenza c’è. 

Le differenze più lampanti sono legate alla costituzione del rapporto e allo scioglimento dello stesso. 
 
Riguardo alla costituzione, laddove il matrimonio è celebrato da un Ufficiale dello Stato Civile o da un ministro di culto, l’unione civile si costituisce mediante una dichiarazione davanti all’Ufficiale dello Stato Civile, che provvede poi alla registrazione nell’archivio dello stato civile, in modo del tutto simile a quel che avviene per il matrimonio. 

Per quanto riguarda lo scioglimento, invece, nell’istituto del matrimonio esso avviene con la morte di un coniuge, oppure mediante separazione e successivo divorzio. Per quanto riguarda l’Unione Civile, invece, il rapporto si scioglie tre mesi dopo aver comunicato il venir meno della relazione affettiva accompagnata dalla convivenza all’Ufficiale di Stato Civile. 

I diritti e i doveri fondamentali, però, rimangono uguali nei due diversi istituti. Secondo i commi 11 e 12 della legge 76, infatti, i due componenti l’Unione Civile hanno l’obbligo della reciproca assistenza morale e materiale, e hanno pari dignità nella coppia. 

Le unioni civili nel regime patrimoniale

Invece, il regime patrimoniale, normato dal comma 13, in mancanza di una diversa convenzione è quello della comunione dei beni. Anche in questo caso, quindi, si riscontra una perfetta equivalenza con la disciplina del Matrimonio. 

Anche nel caso di morte di uno dei componenti la coppia, le indennità dovranno essere corrisposte all’alro soggetto dell’unione civile, come da comma 17. L’equivalenza tra i due istituti non viene meno, e anzi si coglie in pieno, nella normativa di richiamo come il comma 19, che rimanda ad altre norme di diversa natura, come pure per le norme successorie (comma 21 art.1), che comporta una piena parificazione tra la figura del coniuge e quella del partner nell’unione civile. 

Una differenza però c’è, a ben guardare, e a detta di molti è sconcertante. L’istituto dell’Unione Civile al contrario del Matrimonio non prevede l’obbligo della fedeltà, che ovviamente non è solo da intendersi in termini di fedeltà sessuale. La differenza potrebbe essere ascrivibile alla percezione anacronistica dell’obbligo, la cui violazione non pare più avere rilevanza come in passato, e tuttavia rappresenta comunque una forma di diseguglianza tra i due istituti che non può passare sotto silenzio, poiché, forse inconsapevolmente, rende il matrimonio un istituto di serie A riservando all’unione civile la serie cadetta.

Unioni civili: un esempio di quanto c’è da scoprire riguardo alla legge!

Questo articolo ti è stato utile? Scopri tutti i nostri approfondimenti, ma se hai bisogno di assistenza diretta non esitare a contattatre il nostro studio.

Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon.  

biotestamento

Biotestamento: cosa tutela la legge italiana

Nonostante la raccolta firme sul REFERENDUM PER L’EUTANASIA LEGALE abbia fatto molto riflettere,  molti sono i nodi da sciogliere sul fine vita, nella normativa italiana. Quali sono i limiti imposti ai cittadini riguardo al loro trattamento di fine vita e fino a che punto si possono spingere, da un lato, lo Stato, e dall’altra, la coscienza individuale, nel soddisfare i desideri delle persone riguardo ai loro ultimi attimi di vita? 

Cominciamo col dire che in Italia, attualmente, le possibilità individuali attribuite ai singoli cittadini riguardo al loro fine vita sono normate dalla Legge sul Testamento Biologico

Ma cos’è la Legge sul Testamento Biologico? 

Il legislatore, con la legge 219/2017, “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”.è voluto intervenire su due fronti.

Da un lato, la legge promuove e rende più trasparente la relazione di cura e fiducia fra medico e paziente, disciplinando le modalità con cui si può esprimere il cosiddetto “Consenso informato”. In ogni momento, infatti, la persona può rivedere le sue decisioni, in particolare per quanto riguarda la rinuncia o il rifiuto di tutti gli accertamenti diagnostici o trattamenti sanitari, fra cui anche quelli che mantengono in vita il paziente. 

Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente, offrendogli però il supporto necessario e descrivendo le possibili conseguenze delle decisioni che il paziente, in quel momento, sta prendendo. In ogni caso, va garantita una adeguata terapia del dolore per alleviare le sofferenze del paziente. 

 Il secondo fronte è quello delle cosiddette DAT, ossia le Disposizioni Anticipate di Trattamento.

Si tratta di quello che è più conosciuto come “Biotestamento”.

Il Biotestamento è previsto dall’articolo 4 della legge 219/2017. L’articolo sancisce la possibilità, da parte del paziente, di esprimere la propria volontà in materia di trattamenti sanitari, in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi. Le DAT sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento e la loro redazione pò avvenire in diversi modi. 

L’intero corpus delle DAT sono raccolte in una Banca Dati Nazionale specifica, dove sono raccolti tutti i testamenti biologici che vengono poi consegnati a notai, Comuni o strutture sanitarie competenti. 

Due fronti, dunque: da un lato la capacità di decidere in merito al proprio trattamento sanitario quanto il paziente sia cosciente al momento della somministrazione dalle o delle terapie in oggetto. Dall’altro una tutela di tipo testamentario riguardo al proprio trattamento sanitario qualora il paziente non fosse in grado di confermare o rifiutare una terapia al momento della somministrazione.

Vuoi redigere il tuo testamento biologico? Un avvocato può aiutarti a farlo! 

Contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti! 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

mandato a professionisti ed enti

Il mandato a professionisti ed enti

In un precedente articolo ci siamo già occupati dei concetti di rappresentanza e di procura, ma abbiamo ritenuto opportuno approfondire ulteriormente la materia, occupandoci di un altro istituto fondamentale: il mandato a professionisti ed enti

Innanzitutto, cos’è il mandato? 

Comincia tutto con il “mandato”. Quando ci si affida ad un professionista o ad un ente, sia pubblico che privato, per la gestione di affari giuridicamente rilevanti, l’interessato deve conferire mandato.  

Con mandato intendiamo un contratto consensuale, ad efficacia obbligatoria, con cui una parte, il mandatario, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra, il mandante

Il mandato differisce dalla rappresentanza e dalla procura per la natura del suo oggetto: l’incarico, infatti, riguarda la gestione in un’attività giuridica altrui

Il mandato si presume oneroso.

Ciò significa che, se le parti nulla stabiliscono nel contratto, si presume che il mandatario svolga il proprio incarico dietro compenso. Tuttavia, nulla esclude che le parti possano stabilire la gratuità del contratto di mandato e che, quindi, il mandatario non riceva alcun compenso per la propria attività.

Il contratto di mandato si annovera fra i cosiddetti contratti “bilaterali imperfetti”.  Infatti, la prestazione del mandatario non trova la propria causa nel compenso, bensì nella fiducia riposta in lui dal mandante: il cosiddetto legittimo affidamento.   

Ai sensi dell’art. 1176 c.c., che disciplina la valutazione della diligenza nell’adempimento di un’obbligazione, il mandato deve essere eseguito con la diligenza del buon padre di famiglia , ossia con la diligenza dell’uomo medio.

Qualora, invece, si rilasci mandato nei confronti di un professionista, viene in rilievo il comma 2 dell’art. 1176 c.c.  

In questo caso, infatti, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata dal professionista incaricato, prendendo in considerazione la diligenza del professionista medio. Quindi, quando si conferisce mandato ad un professionista, sia esso un avvocato, un sindacato, o un altro ente, pubblico o privato, affinchè agisca nell’interesse del mandante per l’attività oggetto del mandato stesso, si può presumere che il professionista agirà con una diligenza qualificata.  In particolare, all’operatore professionale si richiede una diligenza in linea con le sue specifiche competenze. Per questo, la diligenza diventa criterio fondamentale per la valutazione della eventuale responsabilità del professionista.  

In particolare, se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, si può parlare di responsabilità professionale, secondo quanto disposto dagli artt. 1176, co 2 e 2236 del codice civile, nei soli casi di dolo o colpa grave.  

Infine, si deve sottolineare come l’obbligazione che nasce con il conferimento del mandato professionale sia di mezzi e non di risultato

Cosa significa “obbligazione di mezzi” e “obbligazione di risultato”? 

La differenza fra obbligazioni di mezzi e di risultato è fondamentale quando si parla di responsabilità del professionista. Le obbligazioni di mezzi sono quelle in cui il professionista è tenuto a svolgere un’attività determinata, senza assicurare che da ciò derivi un qualsivoglia esito.  

Nelle obbligazioni di risultato il professionista è invece obbligato a ottenere un certo risultato dall’attività svolta.  

Pertanto, l’oggetto della responsabilità del professionista consiste nel come si svolge l’attività prevista dal mandato, ben potendo non ottenere il risultato auspicato, ma agendo con ogni accortezza necessaria. La responsabilità del professionista è, quindi, una responsabilità contrattuale, poiché ha la sua origine nel contratto di mandato.  

Qualora il professionista non operi con la dovuta diligenza nell’esecuzione del mandato, il mandante può chiedere il risarcimento dell’eventuale danno arrecato dall’operato del professionista. Per evitare il risarcimento del danno, il professionista deve provare che la causa dell’errore era esterna alla sua sfera di controllo e di non aver potuto far niente per evitarlo. Questo nonostante l’applicazione della diligenza professionale.  

Per citare il parere ormai ampiamente consolidato della Suprema Corte,  

“Il professionista “medio”, ossia la figura ideale che costituisce il parametro di valutazione della condotta che si assume colposa, non corrisponde ad un professionista “mediocre”, ma ad un professionista “bravo”, ovvero sufficientemente preparato, zelante e solerte”. 

Per concludere, il professionista è tenuto, nel proprio ambito, ad operare con diligenza professionale e tale diligenza deve essere utilizzata ogniqualvolta gli venga conferito un mandato. Questo non è circoscritto al semplice atto per il quale è conferito, ma esteso a tutti gli atti che si riconnettono al primo, in quanto necessari per la corretta esecuzione del mandato stesso. Questo significa che, a partire dall’atto che necessita del mandato per essere risolto, il professionista dovrà tenere conto di tutti gli altri atti precedenti, se necessari a portare a buon fine l’azione.  

  

Dare mandato per la propria assistenza legale è più utile di quanto possa sembrare. Può capitare, infatti, di trovarsi nella condizione di aver bisogno di un professionista che dialoghi con istituzioni e controparti al nostro posto. Uno di questi casi si verifica quando veniamo colpiti da un decreto ingiuntivo:scopri come funziona

Hai bisogno di assistenza legale? Contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti! 

asta giudiziaria

Asta giudiziaria: una procedura aperta a tutti

Spesso e volentieri sentiamo di persone che hanno concluso affari d’oro approfittando di un’asta giudiziaria, tanto che la possibilità di acquistare un bene costoso come un immobile attraverso un’asta giudiziaria tenta un po’ tutti! Le aste giudiziarie, però, richiedono molta attenzione e l’acquisto di immobili attraverso di esse è impegnativo per una famiglia, quindi è bene saperne il più possibile!

Andiamo con ordine: cos’è un’asta giudiziaria?

Un’asta è una vendita pubblica di beni al miglior offerente. Il caso che ci interessa vede i beni presi in carico dall’autorità giudiziaria e venduti nell’ambito di un procedimento esecutivo, come ad esempio il pignoramento di un immobile o una procedura concorsuale come un fallimento.

Piccola curiosità: l’etimologia del nome “Asta” deriva dal latino “Hasta”, letteralmente “Lancia”, perché in età romana si piantava una lancia dove la vendita aveva luogo. 

Come posso partecipare a un’asta giudiziaria, e come posso gestirla al meglio?

Prima di tutto devi venirne a conoscenza! Ci sono vari modi per informarsi, come:

  • consultare siti internt specializzati in materia, come quello del tribunale nel cui circondario sono ubicati gli immobili.
  • prendere visione delle pubblicazione negli spazi destinati all’affissione, talvolta degli stessi immobili messi in asta. Spesso gli organi preposti, però, non prevedono questo tipo di pubblicazioni. 
  • Individuare le pubblicità delle vendite sui quotidiani. 
  • Prendere visione degli avvisi di vendita direttamente presso la Cancelleria del Tribunale

Presso la Cancelleria è depositata anche una relazione di stima relativa all’immobile, realizzata dal Consulente Tecnico d’Ufficio: è sempre bene farsene dare una copia per sottoporla a un tecnico di fiducia che valuti la convenienza dell’acquisto.

È essenziale conoscere a fondo le caratteristiche del bene, come lo stato di conservazione, se è occupato dal debitore o meno, ed è sempre una buona idea fare un sopralluogo dell’edificio

L’asta è aperta a tutti, eccezion fatta per il debitore, anche se i suoi parenti, moglie o figli, possono partecipare. La partecipazione è ammessa sia direttamente che per procura, tramite un avvocato. 

Attenzione, però: se si si decide di far partecipare qualcun altro all’asta al proprio posto, costui dovrà chiarire presso la Cancelleria del Tribunale entro tre giorni dall‘incanto il nome della persona per cui si deposita l’offerta. Il mandato dovrà essere depositato, altrimenti l’aggiudicazione diventerà definitiva a nome del procuratore.

Le aste possono essere di due tipi: senza incanto o con incanto.

La vendita senza incanto è un’asta che si svolge a porte chiuse, senza la presenza fisica degli offerenti, tramite la presentazione di offerte.

A livello pratico prevede prima di tutto il deposito in Cancelleria (o solitamente presso il Custode Delegato dal Giudice alla vendita) di uno scritto in forma libera in cui è necessario indicare:

  • i propri dati anagrafici
  • l’immobile che si intende acquistare
  • l’indicazione del prezzo di acquisto che si propone, il modo in cui si intende pagare e la data in cui si intende saldare (entro 120giorni) e dell’ordinanza di vendita.

L’offerta, corredata delle marche richieste, deve essere completata da un assegno circolare a titolo di cauzione (o altra modalità stabilita dal bando di vendita).

Tutto deve essere inserito in una busta chiusa e depositato alla Cancelleria delle Esecuzioni Immobiliari del Tribunale (o presso il Custode Delegato alla vendita) nel cui circondario si trova l’immobile. Il cancelliere, ricevendo la busta, appone alcune annotazioni all’esterno in modo da identificare di quale procedura si tratta. 

Le buste pervenute devono essere conservate dalla cancelleria, e aperte, quindi, dal Giudice (o dal Custode Delegato) all’udienza fissata per l’esame delle offerte. Se ci sono più offerenti, il Giudice dell’esecuzione invita gli offerenti a una gara sull’offerta più alta. 

Inoltre, quando il Giudice dell’esecuzione dà luogo alla vendita, stabilisce con decreto tutte le modalità per il versamento del prezzo e il termine entro il quale deve essere effettuato il saldo. A volte viene concesso un pagamento rateale. Si può acquistare un bene all’asta anche attraverso un mutuo e con le c.d. „agevolazioni prima casa“ ove ricorrano i requisiti.

Infine, avvenuto il versamento, il Giudice emette un altro decreto per il trasferimento del bene espropriato al nuovo acquirente, e ingiunge al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto. Questo costituisce titolo esecutivo per il rilascio. 

La vendita con incanto, invece, prevede la partecipazione diretta alla gara.

Non si presenterà, quindi una busta chiusa. Nel provvedimento con il quale il Giudice dell’esecuzione ordina l’incanto, si stabiliscono:

  • prezzo base dell’incanto
  • giorno e ora dell’incanto e le forme di pubblicità
  • la misura minima dell’aumento delle offerte
  • la cauzione da versare, che verrà poi restituita a chi non vincerà la gara.

La gara in sé si svolge molto velocemente: le offerte, per essere valide, devono superare il prezzo base o l’offerta precedente nella misura minima indicata. Tra un’offerta e l’altra non deve trascorrere più di uno/due minuti (il tempo è stabilito prima dell’apertura dell’asta), altrimenti l’ultima offerta fatta diviene definitiva. 

Una volta conclusa l’asta, il vincitore viene definito “aggiudicatario provvisorio”. Questo perché vengono ancora concessi dieci giorni di tempo per avanzare ulteriori offerte, che però devono superare di un quinto il prezzo raggiunto nell’incanto. 

Trascorsi, infine, dieci giorni dall’aggiudicazione senza ulteriori offerte, l’aggiudicatario diventa definitivo… e può tirare un sospiro di sollievo!

Solo il Tribunale si occupa della vendita all’asta?

No: recentemente, è stata introdotta nel nostro ordinamento la possibilità per il giudice di delegare le operazioni di vendita dei beni mobili registrati e dei beni immobili . Inizialmente, questa possibilità è stata attribuita solo ai notai, ma successivamente è stata estesa anche ad avvocati e commercialisti iscritti ad appositi elenchi.

Ovviamente, la partecipazione del professionista al processo esecutivo rimane soggetta alla direzione del Giudice, al quale spetta la definizione dell’ambito delle funzioni delegate e la risoluzione delle controversie che possano sorgere. 

La procedura di partecipazione a un’asta giudiziaria è comunque qualcosa di laborioso e difficile!

Affidarsi a un professionista può essere la soluzione ideale! Scopri come funzionano gli istituti di Rappresentanza e Procura!

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Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan.

rappresentanza e procura

Rappresentanza e procura: uno sguardo alla legge

Spesso, per portare a termine operazioni o affari per cui non possediamo la preparazione tecnica adeguata, abbiamo bisogno del supporto di un esperto. 

È in questo caso che subentra il concetto di “Rappresentanza”, ossia il concetto giuridico che prevede che un soggetto agisca per conto e nell’interesse di un altro

La terminologia, fra il concetto di rappresentanza, procura o mandato, rischia spesso di generare confusione. Cerchiamo allora di comprendere in cosa consista la materia e dotarci sia di un glossario che di una comprensione di base di come questi meccanismi giuridici funzionino. 

Rappresentanza

Innanzitutto, definiamo il concetto stesso di “rappresentanza”: sussiste nel momento in cui un soggetto ha il potere di compiere uno o più atti giuridici nell’interesse di un altro soggetto. Si parla quindi di Rappresentante nel caso di colui che compie l’atto, e di Rappresentato nel caso di colui nel nome del quale l’atto viene compiuto

Il potere che il Rappresentato attribuisce al Rappresentante è detto “Rappresentanza volontaria.”

Procura o Delega

L’atto giuridico con cui il rappresentato attribuisce al rappresentante il potere di rappresentanza per il compimento del negozio giuridico è detto Procura o impropriamente Delega. La Procura è un atto unilaterale attraverso il quale il rappresentato dichiara che sussiste un rapporto di rappresentanza verso terzi soggetti. In soldoni, si tratta di una dichiarazione con la quale il rappresentato dichiara che per un determinato affare il rappresentante agirà a suo nome nei rapporti con terze parti.

Mandato

Il Mandato è , diversamente dalla procura, un vero e proprio contratto fra due parti, in cui un soggetto (o mandatario) si obbliga a compiere uno o più atti giuridici in nome di un secondo soggetto (o mandante). 

Il mandato può essere con o senza rappresentanza: quando il mandato è con rappresentanza, il mandatario dichiara di agire in nome e per conto del mandante nel compimento del negozio giuridico. Questo significa che gli effetti del negozio concluso ricadono direttamente in capo al mandante. Nel caso di mandato senza rappresentanza, invece, è necessario che il mandante dia l’autorizzazione personalmente alla conclusione del negozio.

Falsus procurator

La legge contempla anche la figura del Falso Procuratore, ossia un caso di rappresentanza senza potere. Nel caso del Falsus procurator, il rappresentante agisce del tutto privo della procura. Può verificarsi anche caso in cui il rappresentante, pur avendo la procura del rappresentato, agisca eccedento i limiti della procura stessa e quindi esorbitando i suoi poteri.

Questo caso si può presentare quando un terzo soggetto conclude un contratto con un rappresentante che non ha poteri per farlo. 

In questo caso, il contratto è inefficace: non si producono gli effetti in capo a nessuna delle parti.

Inoltre, il Falso Procuratore è tenuto a risarcire gli eventuali danni che il terzo contraente possa subire dopo aver stipulato il contratto, confidando nel suo buon esito, purché questi ignorasse la mancata procura. 

La legge prevede infatti che il terzo contraente abbia l’onere di controllare la legittimazione della controparte e richiedene prova. Nel caso in cui, infatti, ci si presentasse davanti un soggetto che asserisca di agire per procura rispetto a un altro soggetto, noi saremo tenuti a controllare e richiedere la prova che questo sia vero per poter essere pienamente tutelati. 

La Ratifica

Può darsi il caso in cui un contratto concluso da un falso procuratore rientri nell’interesse del falsamente rappresentato. In questo caso, questi avrà interesse ad accettare l’operato del falso procuratore.

Per fare ciò dovrà porre in essere una ratifica: un atto in cui il falso rappresentato dichiara di accettare l’atto del falso procuratore ed appropriarsi dei suoi effetti. Pertanto, si sana l’eccesso o il difetto di potere del falso procuratore, e si accetta il contratto già stipulato senza la necessità di realizzarne un altro. 

La ratifica produce i suoi effetti dal momento in cui il terzo soggetto (il contraente del contratto) ne viene a conoscenza. La ratifica può essere espressa sia verbalmente che per iscritto e anche tacitamente per fatti concludenti, ossia quando il falsamente rappresentato non fa nulla per rifiutare il contratto stipulato.

E dal punto di vista formale?

Che forma deve avere una procura?

Il codice civile dispone che la procura debba avere la stessa forma richiesta per il negozio principale

Quindi, nel caso in cui il contratto da concludersi richiede una forma scritta per essere valido, sarà necessaria una procura in forma scritta. In tutti gli altri casi è sufficiente che, davanti ai terzi, sia chiaro e non equivocabile che il rappresentante sta agendo nel nome del rappresentato. 

Il fatto di agire in nome del rappresentato prende il nome di “Contemplatio Domini”.

Vuoi approfondire il concetto di rappresentanza legale?

Leggi il nostro articolo sul difensore d’ufficio!

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Articolo scritto in collaborazione con la dottoressa Giulia Piccolo

blocco dei licenziamenti

Blocco dei licenziamenti: i lavoratori possono stare tranquilli?

La morsa dell’emergenza scatenata dal Covid-19 non accenna ad allentarsi. Per la terza volta dall’inizio della pandemia si prospetta un nuovo lockdown e la crisi riduce sempre più la capacità delle aziende di mantenere i livelli occupazionali. Fortunatamente, però, le contromisure messe il campo dal governo tutelano i lavoratori, con il blocco dei licenziamenti per la durata dello stato di emergenza.

Ma il blocco dei licenziamenti è una tutela oppure no?

Facciamo bene ad avere fiducia nelle misure prese dal governo in materia di tutela del lavoro, oppure si tratta di una manovra che ha più una valenza simbolica che effettiva?

Beh, no: il blocco dei licenziamenti non è di sicuro solo simbolica. Le misure messe in campo dal governo sono più che adeguate, ma non sono universalmente applicabili. In poche parole, in questo periodo, non tutti i lavoratori sono al riparo dal licenziamento.

Come ogni norma, anche il blocco dei licenziamenti ha le sue fattispecie di applicazione, situazioni specifiche in cui la norma si applica e altre in cui invece non si applica. In pratica, alcuni licenziamenti sono vietati ma altri no.

Ma, a livello normativo, in cosa consiste il blocco dei licenziamenti?

Una delle prime risposte all’emergenza Covid-19 è stato il Decreto Legge 17 marzo 2020, che tutti conoscono come “Decreto Curaitalia”. Il DL prevedeva il blocco dei licenziamenti per cinque mesi, e si applicava a partire dal 23 febbraio 2020.

Il permanere dell’emergenza, poi, ha obbligato a prorogare più volte la norma, finché la Legge di Bilancio n.178/2020 ha differito il divieto dei licenziamenti fino al 31 marzo del 2021. Con ogni probabilità, anche questo termine verrà ulteriormente prorogato visto il perdurare della pandemia.

Il nome del provvedimento e l’immagine che i mass media hanno restituito ci portano spesso a credere che la cessazione dei rapporti lavorativi sia sempre vietata. In realtà non è così: la situazione è molto più complessa.

Il blocco dei licenziamenti funziona solo nei casi per giustificato motivo.

I licenziamenti per Giustificato motivo OGGETTIVO sono quelli legati all’attività produttiva, al funzionamento o alla riorganizzazione dell’azienda. In parole povere, un’azienda non può più licenziare un dipendente se cala la sua produzione o se, a seguito di una riorganizzazione interna, la posizione ricoperta dal lavoratore non è più richiesta.

In questo caso, il datore di lavoro potrà ricorrere alla Cassa Integrazione in Deroga, messa a disposizione dal Governo, a più riprese, proprio per rispondere alla crisi.

Il Blocco dei Licenziamenti, invece, non si applica a tutte le altre forme di licenziamento previste dal nostro ordinamento, quello per Giustificato motivo Soggettivo(ossia come conseguenza dell’inadempienza del lavoratore) e per Giusta Causa (quello immediato per un comportamento molto grave del lavoratore che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro; come ad esempio un furto in azienda o l‘abbandono del servizio o violenza).

In soldoni, un’azienda non potrà licenziarvi se, a causa di un calo delle commesse determinato dalla crisi, il vostro lavoro non è più richiesto, ma potrà ancora farlo ricorrendo ad altri tipi di licenziamento; ad esempio se vi assenterete più giorni dal lavoro senza una giustificazione o se vi renderete responsabili di un furto in azienda o di altre grave insubordinazione.

Quindi, a meno di un comportamento scorretto, il blocco dei licenziamenti mette al sicuro il posto di lavoro?

Purtroppo no. In alcuni casi il licenziamento è consentito anche per questioni di tipo economico. Vediamo quando:

-Per cessazione di attività

Quando l’azienda cessa l’attività o venga liquidata, e la cessazione sia permanente ed effettiva, i lavoratori vengono licenziati.

-Nel caso dei dirigenti

Quando sussiste una giustificazione, i dirigenti possono essere licenziati: non usufruiscono dunque del blocco dei licenziamenti.

-Per quanto riguarda gli operatori domestici

Colf, badanti e collaboratori domestici in generale possono sempre essere licenziati, purché venga dato loro il preavviso nei tempi stabiliti, quando previsto

-Durante il periodo di prova

La prima parte di un rapporto lavorativo, previsto dal contratto, in cui entrambe le parti possono recedere senza alcun tipo di vincolo.

-Per scadenza del termine

La scadenza di un periodo di apprendistato o di un contratto a termine non può essere considerata come licenziamento. Quindi anche in questo caso il Blocco dei Licenziamenti non si applica.

-Per risoluzione consensuale.

Quando le parti trovano un accordo per porre fine al loro rapporto di lavoro.

Ti riconosci in uno dei casi che abbiamo appena descritto? 

Prendi contatto con i professionisti del nostro studio: la nostra prima consulenza è senza impegno.

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