contestazione disciplinare

Contestazione disciplinare: ecco cosa fare!

Può succedere, sul lavoro, di ricevere una contestazione disciplinare. Si tratta di una comunicazione seria, che non va presa sottogamba. Vediamo dunque come conviene comportarsi quando si riceve una contestazione disciplinare

Come mi devo comportare quando ricevo una contestazione disciplinare?

Quando un lavoratore ha tenuto dei comportamenti scorretti sul luogo di lavoro, violando i suoi doveri, il datore di lavoro può adottare un provvedimento disciplinare nei suoi confronti. Tuttavia, per poter adottare il provvedimento finale e perché questo sia valido, il datore deve seguire una determinata procedura, chiamata “procedimento disciplinare”. Il primo passaggio di questa procedura è la contestazione disciplinare.

Cos’è una contestazione disciplinare?

La contestazione disciplinare è una comunicazione scritta, solitamente una lettera, con cui il datore di lavoro contesta al lavoratore un comportamento scorretto che costituisce violazione dei suoi doveri contrattuali.

La contestazione disciplinare deve sempre essere fatta per iscritto. Tuttavia, la legge non stabilisce la modalità di consegna della contestazione: potrà essere consegnata al lavoratore sul luogo di lavoro oppure potrà essere spedita a mezzo raccomandata. In ogni caso, il rifiuto di ricevere la contestazione non pone al riparo dalle conseguenze negative che possono derivarne.

Un avvertimento o un richiamo scritti sono contestazioni disciplinari?

No, dal contenuto della contestazione deve emergere chiaramente la volontà del datore di lavoro di riprendere il lavoratore per un comportamento scorretto che costituisce violazione dei doveri contrattuali. Inoltre, nella contestazione devono essere indicati in modo specifico i fatti accaduti, non potendosi il datore limitare ad un generico rimprovero.

Ecco cosa può fare un lavoratore quando riceve una contestazione

Nella lettera con cui comunica l’addebito, il datore di lavoro deve anche informare il lavoratore del fatto che egli ha 5 giorni di tempo per potersi giustificare, ossia difendere dalla contestazione. Le giustificazioni possono essere rese per iscritto, senza alcun vincolo di forma, oppure oralmente; in questo secondo caso, entro i 5 giorni il lavoratore dovrà fare richiesta al datore di lavoro per essere sentito. In ogni caso, quando si riceve una contestazione o una comunicazione che sembri tale, è sempre bene rivolgersi a un legale o a un sindacato: vi consiglieranno se rispondere per iscritto od oralmente e vi assisteranno, sia nella redazione delle giustificazioni scritte, sia nell’eventuale colloquio con il datore di lavoro.

Rispondere nel modo scorretto, partecipare da soli al colloquio o, peggio, decidere non replicare alla contestazione, sono comportamenti possono portare all’irrogazione di una sanzione disciplinare che, in alcuni casi, può persino coincidere con il licenziamento.

I rapporti gerarchici sul posto di lavoro sono spesso complessi

Non è facile gestire situazioni di confronto, se non addirittura di scontro, quando si può rischiare di perdere il posto di lavoro; per questo, la cosa migliore da fare è rivolgersi a professionisti che forniscano assistenza in materia di diritto del lavoro.

È il caso del nostro Studio, a cui puoi rivolgerti qualora avessi problemi sul posto di lavoro: contatta i nostri avvocati, tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

stress lavorativo

Lo stress lavorativo è malattia professionale?

Ci sentiamo dire di continuo che un grande nemico della modernità è lo stress. Che causa malattie cardiovascolari, scompensi metabolici, squilibri nel sonno e molto altro. Dovremmo dunque evitarlo come la peste… eppure c’è una situazione particolare della vita di chiunque in cui lo stress è quasi inevitabile, una situazione a cui nessuno (o quasi) può sottrarsi: il lavoro. Dunque la domanda sorge spontanea: lo stress lavorativo può essere considerata malattia professionale?

La risposta è complessa e articolata, vediamo nel dettaglio come funziona la legge.

Prima dello stress lavorativo: cos’è una malattia professionale?

Nel nostro ordinamento si definisce malattia professionale (art. 3 – e, per il settore agricolo, dell’art. 211- del D.P.R. n. 1124/1965), la patologia che sia stata contratta dal lavoratore nell’esercizio e a causa della lavorazione cui è adibito

Per garantire, quindi, la copertura assicurativa è necessario che ci sia un rapporto causale diretto tra il suo lavoro (e i rischi di quel lavoro) e la malattia lamentata dal lavoratore. Nei casi di malattia professionale, salvo disposizioni speciali, si applicano le norme che riguardano gli infortuni sul lavoro e la competenza è dell’INAIL.

Si possono leggere le Linee di indirizzo in merito alle malattie di origine professionale dettate dall’INAIL con delibera 24 gennaio 2017, n. 1

Sistema originario di tutela assicurativa: il cosiddetto sistema tabellare

La normativa originaria (del 1965) prevedeva un sistema assicurativo per le malattie professionali cosiddetto tabellare: il lavoratore otteneva l’indennizzo della malattia professionale contratta ed era esonerato dall’onere di dimostrare l’origine professionale della malattia, che veniva presunta ex lege.

Ma non per tutte le malattie … l’assicurazione INAIL, infatti, copriva solo alcune malattie professionali a condizione che:

– le malattie rientrassero in quelle elencate in apposite tabelle per l’industria e per l’agricoltura

– tali malattie fossero state contratte nell’esercizio e a causa delle lavorazioni specificatamente indicate nelle tabelle

– per le sole lavorazioni che rientrassero tra quelle per le quali sussiste l’obbligo di assicurazione contro gli infortuni 

Successivamente, a seguito di un intervento della Corte Costituzionale (sentenza 18 febbraio 1988, n. 179, si è introdotto il c.d. sistema misto.

Il sistema misto: cos’è?

L’art. 10 del D.Lgs. n. 38/2000 ha stabilito che devono essere considerate malattie professionali anche quelle non rientranti nelle tabelle se il lavoratore ne dimostra l’origine professionale. Inoltre, la norma prevede che venga istituita una commissione scientifica adibita alla revisione periodica delle tabelle.

Malattia professionale da cosiddetto stress lavorativo

Pronunciandosi in ordine alla possibilità di indennizzo della malattia professionale non tabellata di natura psichica dipendente dal c.d. “stress lavorativo”, la Corte di cassazione ha espressamente affermato che sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro.

Ovviamente tale tipo di malattia può derivare dal tipo di mansioni svolte, dall’organizzazione del lavoro o dalle modalità di svolgimento del lavoro stesso. Si parla appunto di tecnopatia intendendosi una malattia, una patologia che si sviluppa a causa della presenza di stimoli nocivi nell’ambiente di lavoro.

Ne deriva che ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa svolta risulta assicurata all’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tal caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata. Lo ha affermato chiaramente e senza ombra di dubbio la Corte di cassazione in una recente pronuncia del 5 marzo 2018 n. 5066.

Stress lavorativo: solo la punta dell’iceberg

Il diritto legato alla tutela del lavoratore è davvero complesso, perché i casi diversi e le situazioni che, in modi e con conseguenze diverse possono creare disagio e danno al lavoratore sono davvero moltissimi, e a ciascuno la legge reagisce in modo differente. Per questo è sempre il caso di farsi seguire da un legale qualificato e specializzato. Il nostro studio te lo mette a disposizione: contattaci se ne hai bisognotutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

riposo dal lavoro

Riposo dal lavoro: quanto e come. Ecco cosa dice la legge

La cronaca ci fornisce sempre più spesso spunti di riflessione su come e quanto sia cambiato il mondo del lavoro, non tanto in termini di disciplina normativa, quanto di percezione. La recente polemica sulla mancanza di personale, specie nei settori della ristorazione e dell’accoglienza turistica, ha portato l’attenzione sull’importanza che tempo libero e riposo dal lavoro ha per i lavoratori, specie per quelli appartenenti alle generazioni più giovani.

In precedenza abbiamo parlato del tempo dedicato all’attività lavorativa e, quindi, dell’orario di lavoro. In questo articolo, invece, ci occupiamo nello specifico del tempo riservato alla sfera personale e al riposo del lavoratore e alle norme di legge che lo tutelano.

Lavoro straordinario, diritto al riposo e festività

Nell’articolo dedicato al contratto di lavoro part time o a tempo pieno, abbiamo accennato al lavoro straordinario.

Lavoro straordinario è quello prestato oltre le 40 ore settimanali ovvero oltre la media dell’orario settimanale stabilito dai contratti collettivi nel periodo di riferimento dagli stessi indicato, indipendentemente dalla durata dell’orario giornaliero.

Fermi restando i limiti posti dall’ordinamento per quanto concerne la durata massima della prestazione, viene demandato ai CCNL regolamentare le eventuali modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario.

In difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore per un periodo che non superi le 250 ore annuali. È previsto altresì un limite settimanale dell’orario di lavoro, comprensivo delle ore di lavoro straordinario, che è quantificato in 48 ore.

Non è consentito lavoro straordinario ad iniziativa del lavoratore.

Normalmente il lavoro straordinario viene retribuito attraverso una maggiorazione della retribuzione ordinaria, prevista dalla contrattazione collettiva. Il lavoro straordinario può essere retribuito a forfait, cioè quantificando un compenso onnicomprensivo non vincolato al numero di ore effettivamente lavorate oltre l’orario di lavoro.

Il lavoro straordinario non può eccedere un determinato limite.

La legge, infatti, tutela il diritto al riposo del lavoratore, che deve poter godere di un periodo dedicato a ristorare le proprie energie e recuperare le forze.

Per questo ai lavoratori deve essere garantito un periodo di riposo giornaliero di almeno 11 ore. Di conseguenza, se un lavoratore ha concluso il suo turno alle 24.00, non potrà per legge riprendere la sua attività prima delle 11.00 del mattino successivo.

Il riposo settimanale, è un diritto inderogabile del dipendente, che deve poter beneficiare di 24 ore di riposo ogni 6 giorni consecutivi di lavoro.

Il giorno di riposo può coincidere con la giornata di domenica, ma anche con altra giornata nel corso della settimana, detta giornata di riposo compensativo. Il diritto al riposo settimanale, in quanto inderogabile, non può essere negato dall’azienda. Il lavoratore non può rinunciarvi o monetizzarlo, convertendolo nel pagamento da parte del datore di una somma di denaro.

Ma perché è così importante il riposo dal lavoro?

L’importanza di dedicare il giusto tempo al riposo è stata riconosciuta dai Giudici, che hanno in molti casi riconosciuto ai lavoratori il diritto al risarcimento dei danni derivanti dal c.d. superlavoro. Si può parlare di danno da superlavoro quando l’eccessivo prolungamento della durata della prestazione, per richiesta o col semplice consenso, anche se implicito, del datore di lavoro, determina una lesione alla integrità psico-fisica del lavoratore.

L’esperienza di molti lavoratori si discosta dalle norme di legge.

Lo sappiamo, spesso e volentieri, queste regole vengono aggirate, se non ignorate. Se è capitato anche a te e ritieni di avere bisogno di assistenza per una violazione dei tuoi diritti sul posto di lavoro contatta il nostro studio. La prima consulenza è senza impegno!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Monica Bassan

diritto alla disconnessione

Diritto alla disconnessione: ricaricarsi… staccando la spina!


Paradossale a dirsi ma immediato nella vita di chiunque, tutti abbiamo bisogno di un periodo di distacco dal mondo per ricaricarci e tornare al nostro lavoro con più efficacia. Fin qui nulla di strano, esperienze di vita comune, eppure negli ultimi tempi le nuove forme di lavoro da remoto hanno imposto una riflessione seria su un argomento caro a tutti i lavoratori: il diritto alla disconnessione.

Il diritto alla disconnessione: tutto comincia con lo smart working.

Lo smart working è una modalità di lavoro che, durante il periodo di lock down, quasi tutti si sono trovati costretti a sperimentare e che sembra essere destinata a divenire parte della nostra quotidianità. Alcuni Stati, lo ricordiamo, hanno già preso atto del cambiamento in corso e hanno già introdotto norme volte a regolamentare lo smart working e riportare in equilibrio il rapporto fra vita e lavoro.

Secondo i dati diffusi dal Parlamento europeo, con l’avvento della pandemia il c.d. smart working ha avuto un incremento, rispetto al periodo precedente, di almeno un 30%, determinando un importante cambiamento nelle vite dei lavoratori. Il lavorare da casa, infatti, ha portato ad essere sempre connessi e, quindi, a prestare attività per molte ore continuative: in media si è calcolato che un lavoratore in smart working sia effettivamente attivo per non meno di 48 ore settimanali.

Tutto ciò ha avuto, inevitabilmente, un impatto negativo sull’equilibrio fra esigenze lavorative e di vita quotidiana. Per questo, all’inizio dell’anno, lo stesso Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione Europea di approvare una legge che garantisca il c.d. diritto alla disconnessione, ossia il diritto del lavoratore a disconnettersi digitalmente dalla sua attività al termine dell’orario di lavoro, senza ciò abbia ripercussioni negative da parte del datore di lavoro.

Il “diritto alla disconnessione” è ormai divenuto un diritto fondamentale, equiparabile al diritto di godere del riposo infrasettimanale o delle ferie.

Tra i vari Stati europei che hanno regolamentato lo smart working, il Portogallo è stato il primo ad aver recepito, almeno in parte, le indicazioni provenienti dal Parlamento europeo. Infatti, pur non avendo riconosciuto un vero e proprio diritto alla disconnessione, ha espressamente vietato ai datori di lavoro di contattare i dipendenti fuori dall’orario di lavoro o di monitorarli mentre lavorano da casa, sostanzialmente tutelando la libertà di ogni lavoratore di dedicare un adeguato numero di ore alla propria vita privata. Oltre a questo, la legge prevede che ai lavoratori venga elargito un contributo economico per far fronte alle spese di connessione internet e di elettricità, anche se le disposizioni non saranno applicabili alle aziende con meno di dieci dipendenti.

È bene sottolineare, però, che tra gli obiettivi della nuova normativa non vi è soltanto quello di tutelare i lavoratori, ma anche quello di attrarre i nomadi digitali nel Paese, secondo quanto dichiarato dalla stessa ministra portoghese Ana Mendes Godinho.

E per quanto riguarda l’Italia?

In Italia esiste già una legge che regolamenta il lavoro agile, la L. n. 81/2017. Essa, però, non contempla alcun generale diritto alla disconnessione ed ha rimesso la regolamentazione ad un eventuale accordo tra le parti, il quale dovrà individuare “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”

La genericità di tali disposizioni fa sì che, molto spesso, la disconnessione rimanga inattuata nella pratica; per questo, nella nuova società post pandemia, si rende inevitabile un nuovo intervento del legislatore o, quanto meno, della contrattazione collettiva, al fine di garantire ai lavoratori agili un effettivo diritto alla disconnessione.

Il diritto del lavoro, qualcosa di davvero complesso

Per questo, quando si tratta di comprendere e far valere i propri diritti, è sempre consigliabile rivolgersi a un professionista. Contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Monica Bassan

indennità di disoccupazione

Indennità di disoccupazione (NASpI): un diritto da preservare 

Spesso i rapporti sul posto di lavoro non sono affatto di facile gestione. Può capitare che vi siano problemi nei rapporti interpersonali oppure, semplicemente, contrazioni di mercato. Questo può far sì che un lavoratore senta l’esigenza di porre fine al rapporto in essere e cercare un altro impiego. Purtroppo, non sempre datore di lavoro e dipendente riescono a raggiungere un accordo in merito alla conclusione del loro rapporto. Per questo, molti lavoratori, pur di svincolarsi da rapporti di lavoro divenuti ormai improseguibili, decidono di rassegnare le proprie dimissioni. Spesso senza sapere che, così facendo, perderanno la possibilità di accedere all’indennità di disoccupazione, ossia alla NASpI

Facciamo chiarezza sull’indennità di disoccupazione, la NASpI 

L’acronimo NASpI sta per Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, un’indennità di disoccupazione mensile riconosciuta dall’INPS a quei lavoratori che si trovino in condizioni di disoccupazione involontaria. La prestazione non viene erogata automaticamente dall’Istituto, ma soltanto su domanda dell’interessato, da presentarsi per via telematica. 

La NASpI, dunque, non spetta in tutti i casi di risoluzione del rapporto di lavoro. Spetta solo in quelli in cui il lavoratore ha perso involontariamente la propria occupazione. Ciò fa sì che, generalmente, l’indennità venga riconosciuta a chi è stato licenziato. Non è così per chi ha posto fine consensualmente al rapporto di lavoro o ha rassegnato le proprie dimissioni.

Fanno eccezione i seguenti casi: 

1- Dimissioni per giusta causa 

 Con tale terminologia si intendono le ipotesi in cui il lavoratore si vede costretto a rassegnare le dimissioni. Questo perché i comportamenti del datore di lavoro rendono impossibile proseguire il rapporto. Sul punto l’INPS ha chiarito che possono rassegnarsi dimissioni per giusta causa quando: 

  • Non sia stata pagata la retribuzione; 
  • Il lavoratore abbia subito molestie sessuali sul luogo di lavoro; 
  • Le mansioni lavorative siano state modificate in senso peggiorativo; 
  • Il lavoratore sia stato vittima del cosiddetto mobbing. Ossia abbia subito un crollo del proprio equilibrio psico-fisico a causa di comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici o dei colleghi; 
  • Vi siano state notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito della cessione dell’azienda ad altre persone (fisiche o giuridiche); 
  • Il lavoratore sia stato spostato da una sede a un’altra senza che sussistano le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” previste dall’articolo 2103 del codice civile; 
  • Ci sia stato un comportamento ingiurioso da parte del superiore gerarchico nei confronti del dipendente. 

2- Dimissioni intervenute durante il periodo tutelato di maternità 

A partire, quindi, da 300 giorni prima della data presunta del parto fino al compimento del primo anno di vita del bambino. 

3 - Risoluzione consensuale nell’ambito della procedura di conciliazione avanti l’Ispettorato Territoriale del Lavoro 

4- Risoluzione consensuale a seguito del rifiuto del lavoratore di trasferirsi presso un’altra sede della stessa azienda distante più di 50 km dalla sua residenza e/o mediamente raggiungibile con i mezzi pubblici in 80 minuti o più

In ogni caso, non potranno avere accesso alla prestazione i dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni. Come loro gli operai agricoli, a tempo determinato e a tempo indeterminato, oltre che i lavoratori titolari di assegno ordinario di invalidità, qualora non optino per la NASpI. Avranno, invece, diritto all’indennità gli apprendisti, i soci lavoratori di cooperative, il personale artistico con rapporto di lavoro subordinato. Anche i dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni. 

Vedere riconosciuti i propri diritti e poter usufruire degli ammortizzatori sociali, insomma, richiede un giusto grado di conoscenza della normativa vigente. Per questo è sempre consigliabile, prima di risolvere un rapporto lavorativo, rivolgersi a dei professionisti per un aiuto: se ne hai bisogno contatta il nostro studiotutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan.

tempo di viaggio

Tempo di viaggio e di lavoro

Spesso pensiamo che la contrattazione e la definizione delle condizioni lavorative riguardino solo il tempo che spendiamo materialmente sul posto di lavoro, o per lo meno il tempo che, da contratto, dovremmo spendere lavorando. Eppure non è così: la definizione delle condizioni lavorative può anche andare oltre quei confini, fino ad abbracciare il tempo di viaggio per andare al lavoro. Ecco come.

Ma se il posto di lavoro è lontano da casa, il tempo di viaggio per arrivare al lavoro può essere retribuito?

La legge è chiara: non si computa come orario di lavoro il tempo impiegato per recarsi sul posto di lavoro ed il relativo ritorno, salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi (D.Lgs. n. 66/2003).

Tuttavia, ci sono casi in cui il tempo di viaggio necessario per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’orario di lavoro ed è quindi computabile come prestazione lavorativa.

Quando?

Quando questo spostamento sia prestato in dipendenza del rapporto di lavoro e sia funzionale al rapporto stesso, in quanto indispensabile alla prestazione principale.

Secondo la Suprema Corte di Cassazione rientra in questa fattispecie l’ipotesi del lavoratore che sia obbligato a presentarsi presso la sede aziendale (per esempio per prendere il veicolo aziendale oppure per prendere del materiale o del vestiario) e sia poi di volta in volta inviato in diverse località per svolgere la sua prestazione lavorativa. E’ il caso tipico delle imprese edili o di manutenzione degli impianti.

Diverso è il caso della trasferta

Dice la giurisprudenza: 

“… salvo diverse previsioni contrattuali, il tempo impiegato giornalmente per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta non può considerarsi come impiegato nell’esplicazione dell’attività lavorativa vera e propria, non facendo parte dell’orario di lavoro effettivo, e non si somma quindi al normale orario di lavoro”. (Cassazione, sentenza n. 5701 del 22 marzo 2004)

l tempo impiegato dal lavoratore per raggiungere la sede di lavoro durante la trasferta, quindi, non è attività lavorativa ed il disagio che deriva al lavoratore è assorbito dall’indennità di trasferta. Lo ha precisato il Ministero del lavoro con l’interpello int. n. 15/2010.

In ogni caso, per quanto riguarda il trattamento delle ore di viaggio dei lavoratori inviati in trasferta, occorre verificare sempre la disciplina della contrattazione collettiva.

Il tempo di viaggio: solo uno dei molti dettagli!

Il diritto del lavoro è una materia davvero complessa, che però è tutto’altro che accademica! Infatti, ogni dettaglio di un contratto influenza direttamente uno degli spazi che viviamo più intensamente, quello del lavoro, impattando direttamente e tangibilmente sulla qualità della nostra vita. Per questo, quando ci troviamo a dover dirimere questioni sul posto di lavoro, è sempre meglio farsi rappresentare da un legale competente: contatta il nostro studio se ne hai bisogno, tutela i tuoi diritti!

mobbing

Brevi cenni sul mobbing: come riconoscerlo e come difendersi

Il lavoro è una parte davvero importante della vita di tutti, sia in termini di tempo che di energia e di investimento emotivo. Per questo, quando le cose non vanno come dovrebbero, le conseguenze sulla vita stessa delle persone possono essere davvero pesanti. Il mobbing rappresenta senz’altro una delle situazioni più sgradevoli che un lavoratore possa subire, pertanto, è essenziale saperlo riconoscere e capire come difendersi.

Cos’è il mobbing?

Il termine “mobbing” deriva dall’inglese “to mob”, che significa “aggredire” e indica quel fenomeno consistente in una serie di condotte realizzate in maniera sistematica e prolungata nel tempo dal datore di lavoro o dai colleghi, nei confronti di un lavoratore, finalizzate ad isolarlo vessarlo ed umiliarlo, tali da lederne l’integrità psico-fisica, la professionalità e la dignità o da spingerlo a dare le dimissioni.

Si distinguono due tipologie di mobbing:

  • verticale, se la violenza e la prevaricazione provengono dal superiore (o inferiore) gerarchico;
  • orizzontale, se posto in essere tra soggetti di pari rango.

Come capire se si è vittima di mobbing?

Innanzitutto, le azioni riconducibili al mobbing sono: trasferimenti ingiustificati, rimproveri immotivati alla presenza dei colleghi, provvedimenti disciplinari ingiusti, isolamento, demansionamento, prolungato sovraccarico di lavoro, molestie, ecc, accompagnati da una serie di elementi:

  1. la sistematicità e la durata;
  2. l’intento persecutorio: la volontà di danneggiare la vittima, di allontanarla o di ostacolarne la crescita professionale;
  3. l’evento lesivo: il danno alla salute psico-fisica (ad esempio depressione);
  4. il nesso eziologico: il collegamento tra la condotta posta in essere ed il pregiudizio per il lavoratore.

Cosa fare se si ritiene di essere vittima di mobbing?

Sebbene il mobbing in quanto tale non sia previsto direttamente né dal Codice civile né da quello penale, vi sono tuttavia una serie di norme che tutelano i lavoratori: sarà innanzitutto possibile rivolgersi al Giudice civile per il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, per il ripristino della situazione precedente al mobbing o per la reintegra del posto di lavoro.

Dal punto di vista penalistico, invece, le condotte mobbizzanti possono costituire la base per altre fattispecie di reato contro la persona, come lesioni personali (art. 582 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.), atti persecutori (art. 612 bis c.p.) e maltrattamenti (art. 572 c.p.).

In ogni caso, il lavoratore dovrà dimostrare (per mezzo di testimonianze, certificazioni mediche, registrazioni audio…), che le condotte subite non rientrano nell’esercizio dei normali poteri organizzativi e di controllo riconosciuti al datore di lavoro, né costituiscono meri episodi di conflitto all’interno dell’ambiente lavorativo, ma sono parte di una strategia persecutoria finalizzata ad isolare ed allontanare il soggetto che ne è bersaglio.

Far valere i propri diritti sul lavoro è complesso e impegnativo

Si tratta inoltre di un ambito estremamente delicato, che va gestito nel migliore dei modi. Se per molte questioni un sindacato è sufficiente, esistono situazioni in cui a fianco delle consuete tutele sindacali occorre accostare l’assistenza di un legale esperto del settore. Se hai bisogno di assistenza per questioni legate al tuo lavoro, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

sanzione disciplinare

Sanzione disciplinare: il provvedimento aziendale contro i comportamenti scorretti

È di tutti la consapevolezza di dover tenere, sul posto di lavoro, un comportamento e un atteggiamento consono all’ambiente, e di dover svolgere il proprio lavoro diligentemente, nell’interesse dell’azienda e nel rispetto delle regole. Se il lavoratore manca, da questo punto di vista, l’azienda può irrogare una sanzione disciplinare, ma il provvedimento ha una natura molto più complessa di quello che la maggior parte delle persone non credano.  

Innanzitutto: cosa sono le sanzioni disciplinari?

Ogni lavoratore è tenuto all’osservanza, nei confronti del datore di lavoro, degli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà di cui agli articoli 2104 e 2105 c.c., nonché delle norme disciplinari applicate sul luogo di lavoro.

La violazione dei suddetti obblighi, nonché la commissione di infrazioni disciplinari, può portare all’irrogazione, nei confronti del lavoratore, di un provvedimento disciplinare, la sanzione, appunto.

Ma è sempre possibile irrogare una sanzione disciplinare?

L’art. 7 della L. 300/1970 stabilisce alcune regole generali in materia di contestazioni e sanzioni disciplinari.

Innanzitutto, il datore di lavoro ha l’obbligo di rendere le norme disciplinari conoscibili a tutti i lavoratori, mediante affissione in luogo accessibile a tutti, o in altro modo che permetta a tutti i dipendenti di venirne agevolmente a conoscenza e, quindi, ad esempio, mediante pubblicazione sul sito web aziendale.

Inoltre, il provvedimento finale, può essere irrogato dal datore di lavoro soltanto al termine del procedimento disciplinare, che si compone di tre step:

  1. Contestazione disciplinare: il datore di lavoro ha l’onere di comunicare al lavoratore per iscritto i fatti oggetto dell’addebito; dunque, il datore di lavoro dovrà consegnare a mani o inviare a mezzo raccomandata al lavoratore una lettera nella quale dovrà descrivere in modo specifico e chiaro i fatti accaduti che potrebbero portare all’irrogazione della sanzione disciplinare. Tale comunicazione dovrà essere predisposta dal datore di lavoro tempestivamente, non appena avuta conoscenza del fatto verificatosi, e il contenuto della stessa non potrà essere poi modificato o rivisto dal datore di lavoro.
  1. Giustificazioni disciplinari: nella contestazione disciplinare dovrà essere altresì reso noto al lavoratore il c.d. termine a difesa, ossia dovrà essergli data comunicazione del fatto che entro un termine – solitamente di cinque giorni – dal ricevimento della contestazione, Egli potrà presentare giustificazioni scritte o potrà inviare richiesta per essere sentito personalmente, eventualmente con l’assistenza di un rappresentante sindacale.
  1. Sanzione disciplinare: una volta ricevute le giustificazioni del lavoratore o scaduto il termine per la presentazione delle stesse, il datore di lavoro potrà decidere se irrogare o meno un provvedimento disciplinare, nonché quale tipo di sanzione eventualmente comminare. Si precisa, per mero scrupolo, che spesso anche la sanzione deve essere irrogata entro un termine ben preciso.

Quali possono essere le sanzioni disciplinari?

Le sanzioni disciplinari possono essere di due tipi:

  • Conservative: rimprovero verbale; rimprovero scritto; multa, non superiore a 4 ore; sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un massimo di 10 giorni;
  • Espulsive: licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.

E se ricevo una sanzione disciplinare, cosa faccio?

Una volta ricevuta la sanzione disciplinare, il lavoratore ha ancora la possibilità di fare qualcosa: può impugnare il provvedimento irrogatogli.

Come? La cosa migliore, in questi casi, è sempre rivolgersi ad un professionista competente in materia di diritto del lavoro, piuttosto che affidarsi ai consigli di amici e parenti, al fine di procedere nel migliore dei modi e, soprattutto, di evitare la scadenza del termine per impugnare il provvedimento, di soli 20 giorni. Entro questo termine deve essere promossa la costituzione, tramite l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, di un collegio di conciliazione e arbitrato, che si pronuncerà sulla sanzione.

La gestione dei procedimenti disciplinari, apparentemente semplice, è in realtà molto delicate, non solo per il lavoratore, in ragione delle conseguenze pregiudizievoli in cui potrebbe incorrere, ma anche per il datore di lavoro, che potrebbe predisporre delle contestazioni o delle sanzioni disciplinari illegittime.

Ricevere o irrogare una sanzione disciplinare è una questione delicata

Per questo è sempre meglio avere il parere e l’assistenza di un avvocato. Se hai bisogno di assistenza non perdere tempo: contatta il nostro studio, tutela i tuoi diritti!

riposo dal lavoro

Riposo dal lavoro: quanto e come. Ecco cosa dice la legge

La cronaca ci fornisce sempre più spesso spunti di riflessione su come e quanto sia cambiato il mondo del lavoro, non tanto in termini di disciplina normativa, quanto di percezione. La crescente polemica sulla mancanza di personale, specie nei settori della ristorazione e dei servizi turistici, ha portato l’attenzione sull’importanza che tempo libero e riposo dal lavoro ha per i lavoratori, specie per quelli appartenenti alle generazioni più giovani.

In precedenza abbiamo parlato del tempo dedicato all’attività lavorativa e, quindi, dell’orario di lavoro. In questo articolo, invece, ci occupiamo nello specifico del tempo riservato alla sfera personale e al riposo del lavoratore e delle norme di legge che lo tutelano.

Lavoro straordinario, diritto al riposo e festività

Nell’articolo dedicato al contratto di lavoro part time o a tempo pieno, abbiamo accennato al lavoro straordinario.

Lavoro straordinario è quello prestato oltre le 40 ore settimanali, indipendentemente dalla durata dell’orario giornaliero.

Fermi restando i limiti posti dall’ordinamento per quanto concerne la durata massima della prestazione, viene demandato ai contratti collettivi nazionali di lavoro regolamentare le eventuali modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario.

Non è consentito lavoro straordinario ad iniziativa del lavoratore.

Normalmente il lavoro straordinario viene retribuito attraverso una maggiorazione della retribuzione ordinaria, prevista dalla contrattazione collettiva. Il lavoro straordinario può però essere anche retribuito a forfait, cioè quantificando un compenso onnicomprensivo non vincolato al numero di ore effettivamente lavorate oltre l’orario di lavoro.

Il lavoro straordinario non può eccedere un determinato limite.

In difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore, per un periodo che non superi le 250 ore annuali. È previsto altresì un limite settimanale dell’orario di lavoro, comprensivo delle ore di lavoro straordinario, quantificato in 48 ore.

La legge, infatti, tutela il diritto al riposo del lavoratore, che deve poter godere di un periodo dedicato a ristorare le proprie energie e recuperare le forze.

Per questo ai lavoratori deve essere garantito un periodo di riposo giornaliero di almeno 11 ore. Di conseguenza, se un lavoratore ha concluso il suo turno alle 24.00, non potrà per legge riprendere la sua attività prima delle 11.00 del mattino successivo.

Il riposo settimanale, è un diritto inderogabile del dipendente, che deve poter beneficiare di 24 ore di riposo ogni 6 giorni consecutivi di lavoro.

Il giorno di riposo può coincidere con la giornata di domenica, ma anche con altra giornata nel corso della settimana, detta giornata di riposo compensativo. Il diritto al riposo settimanale, in quanto inderogabile, non può essere negato dall’azienda. Il lavoratore non può rinunciarvi o monetizzarlo, convertendolo nel pagamento da parte del datore di una somma di denaro.

Ma perché è così importante il riposo dal lavoro?

L’importanza di dedicare il giusto tempo al riposo è stata riconosciuta dai Giudici, che hanno in molti casi riconosciuto ai lavoratori il diritto al risarcimento dei danni derivanti dal c.d. superlavoro. Si può parlare di danno da superlavoro quando l’eccessivo prolungamento della durata della prestazione, per richiesta o col semplice consenso, anche se implicito, del datore di lavoro, determina una lesione alla integrità psico-fisica del lavoratore.

L’esperienza di molti lavoratori si discosta dalle norme di legge.

Lo sappiamo, spesso e volentieri, queste regole vengono aggirate, se non ignorate. Se è capitato anche a te e ritieni di avere bisogno di assistenza per una violazione dei tuoi diritti sul posto di lavoro contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

cessione del quinto

Cessione del quinto: la prima opzione per avere liquidità

Con questo articolo tratteremo un argomento connesso solo in parte con il diritto del lavoro, ma su cui tutti si pongono molte domande: la cessione del quinto. Sicuramente una delle prime cose a cui si pensa, quando si ha bisogno di liquidità, è richiedere un finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, ma cosa questo significhi e in cosa consista non è chiaro a tutti. Risponderemo dunque, in questo articolo, ad alcune delle domande che più spesso ricorrono sull’argomento. 

La cessione del quinto dello stipendio o della pensione è una delle forme di prestito più diffuse al giorno d’oggi. Ciò soprattutto in ragione del fatto che per sottoscrivere questo tipo di contratti è spesso sufficiente essere titolari di un rapporto di lavoro dipendente, anche a termine, oppure di una pensione. Allo stesso tempo, poiché a garanzia del prestito vengono dati lo stipendio o la pensione, è anche una delle forme di finanziamento più proposte dalle società finanziarie.

Per quale ragione, dunque, abbiamo deciso di parlare della cessione del quinto?

Purtroppo, sempre più spesso, si rivolgono al nostro studio clienti che, allettati dal fatto di poter avere a disposizione consistenti somme di denaro nel giro di un brevissimo tempo, semplicemente vincolando il proprio stipendio, non si informano sulle conseguenze legate alla sottoscrizione di contratti di questo tipo. Abbiamo quindi deciso di rispondere ad alcune delle domande che più spesso ci vengono poste!

Cosa accade se vengo licenziato e/o mi dimetto?

Molti lavoratori pensano che, in caso di cessazione del rapporto, la società finanziaria non vanti più alcun diritto. In realtà, quando il rapporto di lavoro cessa, non viene meno l’obbligo di restituire la somma ricevuta in prestito. Al contrario, la società finanziaria avrà diritto a ricevere, dal datore di lavoro, quanto dovuto al lavoratore a titolo di TFR (Trattamento di Fine Rapporto) fino al saldo del finanziamento. Ovviamente, qualora il prestito sia stato quasi interamente saldato, una parte del TFR sarà versata alla società finanziaria, e la restante parte sarà versata al lavoratore. Qualora, però, il TFR non fosse sufficiente a saldare il debito, la società finanziaria Vi notificherà un sollecito di pagamento e Vi chiederà di provvedere al saldo di tutto quanto ancora dovuto.

Dunque, la società finanziaria non bloccherà le richieste di pagamento per il semplice fatto che siete divenuti disoccupati! Né sarà per voi possibile continuare a pagare la stessa somma mensile che pagavate in precedenza!

Al contrario, nel momento in cui un lavoratore rimane senza impiego, la finanziaria chiede il pagamento immediato dell’INTERA SOMMA RESIDUA e, in caso di mancato saldo del dovuto, potrebbe persino avviare un’azione giudiziaria nei Vostri confronti per ottenere quanto dovutole. Ma non disperate! In questi casi, spesso, rivolgendosi tempestivamente a un legale è possibile trovare una soluzione.

In ogni caso, quando si viene licenziati o ci si dimette, si è tenuti a dare comunicazione alla finanziaria di quanto accaduto.

Quindi la società finanziaria può prendersi tutto il TFR di un lavoratore per compensare la cessione del quinto?

In molti si rivolgono a noi lamentando il mancato pagamento del TFR da parte del datore di lavoro a seguito di licenziamento o dimissioni. Soltanto in un secondo momento scopriamo che, in realtà, il datore di lavoro ha provveduto al pagamento del TFR, ma questo è stato versato direttamente (e interamente) alla società finanziaria. È bene ricordare, infatti, che, spesso, quando si sottoscrive una cessione del quinto, ci si impegna a versare soltanto 1/5 dello stipendio, ma non anche un 1/5 del TFR! Quest’ultimo, infatti, in molti casi viene per intero vincolato a garanzia del finanziamento, senza che nulla possa essere contestato al datore di lavoro o alla finanziaria.

Quindi il datore di lavoro può versare il TFR alla finanziaria e non al lavoratore?

Nel momento in cui si sottoscrive una cessione del quinto dello stipendio, il contratto viene inviato anche al datore di lavoro. Questi è tenuto a versare mensilmente 1/5 dello stipendio alla società finanziaria, fino a diversa comunicazione. Allo stesso modo, il datore di lavoro è obbligato a versare alla finanziaria quanto dovuto a titolo di TFR e non potrà versarlo direttamente al lavoratore, salvo che non sia la società finanziaria a comunicarglielo.

Cessione del quinto: cosa succede se cambio lavoro?

Quando si cambia lavoro, si deve innanzitutto dare comunicazione di ciò alla società finanziaria. Quest’ultima avrà comunque diritto a ricevere il TFR dal precedente datore di lavoro e, quindi, non rinuncerà al TFR soltanto perché Voi continuerete a lavorare altrove, anziché essere disoccupati. Inoltre, qualora il TFR non sia sufficiente a coprire il debito, la finanziaria potrà continuare a pretendere il versamento di 1/5 dello stipendio da parte del nuovo datore di lavoro, fino a saldo integrale dell’importo dovuto.

Attenzione: se non si comunica il nuovo rapporto di lavoro, la finanziaria pretende il pagamento immediato dell’intera somma ancora dovuta, perché presume che Voi siate disoccupati!

Cosa succede se c’è un trasferimento d’azienda?

In caso di trasferimento d’azienda e quindi di passaggio da un datore di lavoro ad un altro per scelte aziendali, il dipendente non è tenuto ad effettuare nessuna comunicazione. Semplicemente, la società finanziaria richiederà il pagamento del quinto dello stipendio al nuovo datore di lavoro. Si precisa che, se al momento del trasferimento dell’azienda vi è anche la liquidazione del TFR, la finanziaria ha diritto al pagamento del TFR come nel caso precedente.

Cosa succede alla cessione del quinto se mi indebito e mi pignorano lo stipendio?

Purtroppo, molte volte, le somme richieste con il prestito non sono sufficienti per coprire i debiti e, quindi, i creditori procedono con il pignoramento del quinto dello stipendio. Il fatto che un lavoratore abbia sottoscritto un finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, non impedisce ai creditori di procedere con il pignoramento di 1/5 dello stipendio. Pertanto, un lavoratore potrebbe trovarsi in busta paga la trattenuta sia del quinto dello stipendio dovuto alla finanziaria, sia del quinto dello stipendio dovuto al creditore che ha notificato il pignoramento.

Stai valutando o hai già sottoscritto contratti di questo tipo? Ti trovi in situazione di difficoltà? Non rischiare, rivolgiti al nostro studio per poter contare sull’assistenza di un legale: tutela i tuoi diritti.