mobbing

Brevi cenni sul mobbing: come riconoscerlo e come difendersi

Il lavoro è una parte davvero importante della vita di tutti, sia in termini di tempo che di energia e di investimento emotivo. Per questo, quando le cose non vanno come dovrebbero, le conseguenze sulla vita stessa delle persone possono essere davvero pesanti. Il mobbing rappresenta senz’altro una delle situazioni più sgradevoli che un lavoratore possa subire, pertanto, è essenziale saperlo riconoscere e capire come difendersi.

Cos’è il mobbing?

Il termine “mobbing” deriva dall’inglese “to mob”, che significa “aggredire” e indica quel fenomeno consistente in una serie di condotte realizzate in maniera sistematica e prolungata nel tempo dal datore di lavoro o dai colleghi, nei confronti di un lavoratore, finalizzate ad isolarlo vessarlo ed umiliarlo, tali da lederne l’integrità psico-fisica, la professionalità e la dignità o da spingerlo a dare le dimissioni.

Si distinguono due tipologie di mobbing:

  • verticale, se la violenza e la prevaricazione provengono dal superiore (o inferiore) gerarchico;
  • orizzontale, se posto in essere tra soggetti di pari rango.

Come capire se si è vittima di mobbing?

Innanzitutto, le azioni riconducibili al mobbing sono: trasferimenti ingiustificati, rimproveri immotivati alla presenza dei colleghi, provvedimenti disciplinari ingiusti, isolamento, demansionamento, prolungato sovraccarico di lavoro, molestie, ecc, accompagnati da una serie di elementi:

  1. la sistematicità e la durata;
  2. l’intento persecutorio: la volontà di danneggiare la vittima, di allontanarla o di ostacolarne la crescita professionale;
  3. l’evento lesivo: il danno alla salute psico-fisica (ad esempio depressione);
  4. il nesso eziologico: il collegamento tra la condotta posta in essere ed il pregiudizio per il lavoratore.

Cosa fare se si ritiene di essere vittima di mobbing?

Sebbene il mobbing in quanto tale non sia previsto direttamente né dal Codice civile né da quello penale, vi sono tuttavia una serie di norme che tutelano i lavoratori: sarà innanzitutto possibile rivolgersi al Giudice civile per il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, per il ripristino della situazione precedente al mobbing o per la reintegra del posto di lavoro.

Dal punto di vista penalistico, invece, le condotte mobbizzanti possono costituire la base per altre fattispecie di reato contro la persona, come lesioni personali (art. 582 c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.), atti persecutori (art. 612 bis c.p.) e maltrattamenti (art. 572 c.p.).

In ogni caso, il lavoratore dovrà dimostrare (per mezzo di testimonianze, certificazioni mediche, registrazioni audio…), che le condotte subite non rientrano nell’esercizio dei normali poteri organizzativi e di controllo riconosciuti al datore di lavoro, né costituiscono meri episodi di conflitto all’interno dell’ambiente lavorativo, ma sono parte di una strategia persecutoria finalizzata ad isolare ed allontanare il soggetto che ne è bersaglio.

Far valere i propri diritti sul lavoro è complesso e impegnativo

Si tratta inoltre di un ambito estremamente delicato, che va gestito nel migliore dei modi. Se per molte questioni un sindacato è sufficiente, esistono situazioni in cui a fianco delle consuete tutele sindacali occorre accostare l’assistenza di un legale esperto del settore. Se hai bisogno di assistenza per questioni legate al tuo lavoro, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

sanzione disciplinare

Sanzione disciplinare: il provvedimento aziendale contro i comportamenti scorretti

È di tutti la consapevolezza di dover tenere, sul posto di lavoro, un comportamento e un atteggiamento consono all’ambiente, e di dover svolgere il proprio lavoro diligentemente, nell’interesse dell’azienda e nel rispetto delle regole. Se il lavoratore manca, da questo punto di vista, l’azienda può irrogare una sanzione disciplinare, ma il provvedimento ha una natura molto più complessa di quello che la maggior parte delle persone non credano.  

Innanzitutto: cosa sono le sanzioni disciplinari?

Ogni lavoratore è tenuto all’osservanza, nei confronti del datore di lavoro, degli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà di cui agli articoli 2104 e 2105 c.c., nonché delle norme disciplinari applicate sul luogo di lavoro.

La violazione dei suddetti obblighi, nonché la commissione di infrazioni disciplinari, può portare all’irrogazione, nei confronti del lavoratore, di un provvedimento disciplinare, la sanzione, appunto.

Ma è sempre possibile irrogare una sanzione disciplinare?

L’art. 7 della L. 300/1970 stabilisce alcune regole generali in materia di contestazioni e sanzioni disciplinari.

Innanzitutto, il datore di lavoro ha l’obbligo di rendere le norme disciplinari conoscibili a tutti i lavoratori, mediante affissione in luogo accessibile a tutti, o in altro modo che permetta a tutti i dipendenti di venirne agevolmente a conoscenza e, quindi, ad esempio, mediante pubblicazione sul sito web aziendale.

Inoltre, il provvedimento finale, può essere irrogato dal datore di lavoro soltanto al termine del procedimento disciplinare, che si compone di tre step:

  1. Contestazione disciplinare: il datore di lavoro ha l’onere di comunicare al lavoratore per iscritto i fatti oggetto dell’addebito; dunque, il datore di lavoro dovrà consegnare a mani o inviare a mezzo raccomandata al lavoratore una lettera nella quale dovrà descrivere in modo specifico e chiaro i fatti accaduti che potrebbero portare all’irrogazione della sanzione disciplinare. Tale comunicazione dovrà essere predisposta dal datore di lavoro tempestivamente, non appena avuta conoscenza del fatto verificatosi, e il contenuto della stessa non potrà essere poi modificato o rivisto dal datore di lavoro.
  1. Giustificazioni disciplinari: nella contestazione disciplinare dovrà essere altresì reso noto al lavoratore il c.d. termine a difesa, ossia dovrà essergli data comunicazione del fatto che entro un termine – solitamente di cinque giorni – dal ricevimento della contestazione, Egli potrà presentare giustificazioni scritte o potrà inviare richiesta per essere sentito personalmente, eventualmente con l’assistenza di un rappresentante sindacale.
  1. Sanzione disciplinare: una volta ricevute le giustificazioni del lavoratore o scaduto il termine per la presentazione delle stesse, il datore di lavoro potrà decidere se irrogare o meno un provvedimento disciplinare, nonché quale tipo di sanzione eventualmente comminare. Si precisa, per mero scrupolo, che spesso anche la sanzione deve essere irrogata entro un termine ben preciso.

Quali possono essere le sanzioni disciplinari?

Le sanzioni disciplinari possono essere di due tipi:

  • Conservative: rimprovero verbale; rimprovero scritto; multa, non superiore a 4 ore; sospensione dal servizio e dalla retribuzione per un massimo di 10 giorni;
  • Espulsive: licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa.

E se ricevo una sanzione disciplinare, cosa faccio?

Una volta ricevuta la sanzione disciplinare, il lavoratore ha ancora la possibilità di fare qualcosa: può impugnare il provvedimento irrogatogli.

Come? La cosa migliore, in questi casi, è sempre rivolgersi ad un professionista competente in materia di diritto del lavoro, piuttosto che affidarsi ai consigli di amici e parenti, al fine di procedere nel migliore dei modi e, soprattutto, di evitare la scadenza del termine per impugnare il provvedimento, di soli 20 giorni. Entro questo termine deve essere promossa la costituzione, tramite l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, di un collegio di conciliazione e arbitrato, che si pronuncerà sulla sanzione.

La gestione dei procedimenti disciplinari, apparentemente semplice, è in realtà molto delicate, non solo per il lavoratore, in ragione delle conseguenze pregiudizievoli in cui potrebbe incorrere, ma anche per il datore di lavoro, che potrebbe predisporre delle contestazioni o delle sanzioni disciplinari illegittime.

Ricevere o irrogare una sanzione disciplinare è una questione delicata

Per questo è sempre meglio avere il parere e l’assistenza di un avvocato. Se hai bisogno di assistenza non perdere tempo: contatta il nostro studio, tutela i tuoi diritti!

riposo dal lavoro

Riposo dal lavoro: quanto e come. Ecco cosa dice la legge

La cronaca ci fornisce sempre più spesso spunti di riflessione su come e quanto sia cambiato il mondo del lavoro, non tanto in termini di disciplina normativa, quanto di percezione. La crescente polemica sulla mancanza di personale, specie nei settori della ristorazione e dei servizi turistici, ha portato l’attenzione sull’importanza che tempo libero e riposo dal lavoro ha per i lavoratori, specie per quelli appartenenti alle generazioni più giovani.

In precedenza abbiamo parlato del tempo dedicato all’attività lavorativa e, quindi, dell’orario di lavoro. In questo articolo, invece, ci occupiamo nello specifico del tempo riservato alla sfera personale e al riposo del lavoratore e delle norme di legge che lo tutelano.

Lavoro straordinario, diritto al riposo e festività

Nell’articolo dedicato al contratto di lavoro part time o a tempo pieno, abbiamo accennato al lavoro straordinario.

Lavoro straordinario è quello prestato oltre le 40 ore settimanali, indipendentemente dalla durata dell’orario giornaliero.

Fermi restando i limiti posti dall’ordinamento per quanto concerne la durata massima della prestazione, viene demandato ai contratti collettivi nazionali di lavoro regolamentare le eventuali modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario.

Non è consentito lavoro straordinario ad iniziativa del lavoratore.

Normalmente il lavoro straordinario viene retribuito attraverso una maggiorazione della retribuzione ordinaria, prevista dalla contrattazione collettiva. Il lavoro straordinario può però essere anche retribuito a forfait, cioè quantificando un compenso onnicomprensivo non vincolato al numero di ore effettivamente lavorate oltre l’orario di lavoro.

Il lavoro straordinario non può eccedere un determinato limite.

In difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore, per un periodo che non superi le 250 ore annuali. È previsto altresì un limite settimanale dell’orario di lavoro, comprensivo delle ore di lavoro straordinario, quantificato in 48 ore.

La legge, infatti, tutela il diritto al riposo del lavoratore, che deve poter godere di un periodo dedicato a ristorare le proprie energie e recuperare le forze.

Per questo ai lavoratori deve essere garantito un periodo di riposo giornaliero di almeno 11 ore. Di conseguenza, se un lavoratore ha concluso il suo turno alle 24.00, non potrà per legge riprendere la sua attività prima delle 11.00 del mattino successivo.

Il riposo settimanale, è un diritto inderogabile del dipendente, che deve poter beneficiare di 24 ore di riposo ogni 6 giorni consecutivi di lavoro.

Il giorno di riposo può coincidere con la giornata di domenica, ma anche con altra giornata nel corso della settimana, detta giornata di riposo compensativo. Il diritto al riposo settimanale, in quanto inderogabile, non può essere negato dall’azienda. Il lavoratore non può rinunciarvi o monetizzarlo, convertendolo nel pagamento da parte del datore di una somma di denaro.

Ma perché è così importante il riposo dal lavoro?

L’importanza di dedicare il giusto tempo al riposo è stata riconosciuta dai Giudici, che hanno in molti casi riconosciuto ai lavoratori il diritto al risarcimento dei danni derivanti dal c.d. superlavoro. Si può parlare di danno da superlavoro quando l’eccessivo prolungamento della durata della prestazione, per richiesta o col semplice consenso, anche se implicito, del datore di lavoro, determina una lesione alla integrità psico-fisica del lavoratore.

L’esperienza di molti lavoratori si discosta dalle norme di legge.

Lo sappiamo, spesso e volentieri, queste regole vengono aggirate, se non ignorate. Se è capitato anche a te e ritieni di avere bisogno di assistenza per una violazione dei tuoi diritti sul posto di lavoro contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

cessione del quinto

Cessione del quinto: la prima opzione per avere liquidità

Con questo articolo tratteremo un argomento connesso solo in parte con il diritto del lavoro, ma su cui tutti si pongono molte domande: la cessione del quinto. Sicuramente una delle prime cose a cui si pensa, quando si ha bisogno di liquidità, è richiedere un finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, ma cosa questo significhi e in cosa consista non è chiaro a tutti. Risponderemo dunque, in questo articolo, ad alcune delle domande che più spesso ricorrono sull’argomento. 

La cessione del quinto dello stipendio o della pensione è una delle forme di prestito più diffuse al giorno d’oggi. Ciò soprattutto in ragione del fatto che per sottoscrivere questo tipo di contratti è spesso sufficiente essere titolari di un rapporto di lavoro dipendente, anche a termine, oppure di una pensione. Allo stesso tempo, poiché a garanzia del prestito vengono dati lo stipendio o la pensione, è anche una delle forme di finanziamento più proposte dalle società finanziarie.

Per quale ragione, dunque, abbiamo deciso di parlare della cessione del quinto?

Purtroppo, sempre più spesso, si rivolgono al nostro studio clienti che, allettati dal fatto di poter avere a disposizione consistenti somme di denaro nel giro di un brevissimo tempo, semplicemente vincolando il proprio stipendio, non si informano sulle conseguenze legate alla sottoscrizione di contratti di questo tipo. Abbiamo quindi deciso di rispondere ad alcune delle domande che più spesso ci vengono poste!

Cosa accade se vengo licenziato e/o mi dimetto?

Molti lavoratori pensano che, in caso di cessazione del rapporto, la società finanziaria non vanti più alcun diritto. In realtà, quando il rapporto di lavoro cessa, non viene meno l’obbligo di restituire la somma ricevuta in prestito. Al contrario, la società finanziaria avrà diritto a ricevere, dal datore di lavoro, quanto dovuto al lavoratore a titolo di TFR (Trattamento di Fine Rapporto) fino al saldo del finanziamento. Ovviamente, qualora il prestito sia stato quasi interamente saldato, una parte del TFR sarà versata alla società finanziaria, e la restante parte sarà versata al lavoratore. Qualora, però, il TFR non fosse sufficiente a saldare il debito, la società finanziaria Vi notificherà un sollecito di pagamento e Vi chiederà di provvedere al saldo di tutto quanto ancora dovuto.

Dunque, la società finanziaria non bloccherà le richieste di pagamento per il semplice fatto che siete divenuti disoccupati! Né sarà per voi possibile continuare a pagare la stessa somma mensile che pagavate in precedenza!

Al contrario, nel momento in cui un lavoratore rimane senza impiego, la finanziaria chiede il pagamento immediato dell’INTERA SOMMA RESIDUA e, in caso di mancato saldo del dovuto, potrebbe persino avviare un’azione giudiziaria nei Vostri confronti per ottenere quanto dovutole. Ma non disperate! In questi casi, spesso, rivolgendosi tempestivamente a un legale è possibile trovare una soluzione.

In ogni caso, quando si viene licenziati o ci si dimette, si è tenuti a dare comunicazione alla finanziaria di quanto accaduto.

Quindi la società finanziaria può prendersi tutto il TFR di un lavoratore per compensare la cessione del quinto?

In molti si rivolgono a noi lamentando il mancato pagamento del TFR da parte del datore di lavoro a seguito di licenziamento o dimissioni. Soltanto in un secondo momento scopriamo che, in realtà, il datore di lavoro ha provveduto al pagamento del TFR, ma questo è stato versato direttamente (e interamente) alla società finanziaria. È bene ricordare, infatti, che, spesso, quando si sottoscrive una cessione del quinto, ci si impegna a versare soltanto 1/5 dello stipendio, ma non anche un 1/5 del TFR! Quest’ultimo, infatti, in molti casi viene per intero vincolato a garanzia del finanziamento, senza che nulla possa essere contestato al datore di lavoro o alla finanziaria.

Quindi il datore di lavoro può versare il TFR alla finanziaria e non al lavoratore?

Nel momento in cui si sottoscrive una cessione del quinto dello stipendio, il contratto viene inviato anche al datore di lavoro. Questi è tenuto a versare mensilmente 1/5 dello stipendio alla società finanziaria, fino a diversa comunicazione. Allo stesso modo, il datore di lavoro è obbligato a versare alla finanziaria quanto dovuto a titolo di TFR e non potrà versarlo direttamente al lavoratore, salvo che non sia la società finanziaria a comunicarglielo.

Cessione del quinto: cosa succede se cambio lavoro?

Quando si cambia lavoro, si deve innanzitutto dare comunicazione di ciò alla società finanziaria. Quest’ultima avrà comunque diritto a ricevere il TFR dal precedente datore di lavoro e, quindi, non rinuncerà al TFR soltanto perché Voi continuerete a lavorare altrove, anziché essere disoccupati. Inoltre, qualora il TFR non sia sufficiente a coprire il debito, la finanziaria potrà continuare a pretendere il versamento di 1/5 dello stipendio da parte del nuovo datore di lavoro, fino a saldo integrale dell’importo dovuto.

Attenzione: se non si comunica il nuovo rapporto di lavoro, la finanziaria pretende il pagamento immediato dell’intera somma ancora dovuta, perché presume che Voi siate disoccupati!

Cosa succede se c’è un trasferimento d’azienda?

In caso di trasferimento d’azienda e quindi di passaggio da un datore di lavoro ad un altro per scelte aziendali, il dipendente non è tenuto ad effettuare nessuna comunicazione. Semplicemente, la società finanziaria richiederà il pagamento del quinto dello stipendio al nuovo datore di lavoro. Si precisa che, se al momento del trasferimento dell’azienda vi è anche la liquidazione del TFR, la finanziaria ha diritto al pagamento del TFR come nel caso precedente.

Cosa succede alla cessione del quinto se mi indebito e mi pignorano lo stipendio?

Purtroppo, molte volte, le somme richieste con il prestito non sono sufficienti per coprire i debiti e, quindi, i creditori procedono con il pignoramento del quinto dello stipendio. Il fatto che un lavoratore abbia sottoscritto un finanziamento con cessione del quinto dello stipendio, non impedisce ai creditori di procedere con il pignoramento di 1/5 dello stipendio. Pertanto, un lavoratore potrebbe trovarsi in busta paga la trattenuta sia del quinto dello stipendio dovuto alla finanziaria, sia del quinto dello stipendio dovuto al creditore che ha notificato il pignoramento.

Stai valutando o hai già sottoscritto contratti di questo tipo? Ti trovi in situazione di difficoltà? Non rischiare, rivolgiti al nostro studio per poter contare sull’assistenza di un legale: tutela i tuoi diritti.

part time

Part time o full time: l’orario di lavoro nei contratti

In un momento storico in cui le regole relative ai rapporti di lavoro si moltiplicano, si corre il rischio di non prestare adeguata attenzione ad alcuni aspetti fondamentali dei contratti di lavoro che si vanno a firmare. In alcuni casi si può persino rischiare di non soffermarsi sulle clausole – a dire il vero non sempre chiare – relative all’orario di lavoro, soprattutto quando si tratta di lavoro part time.

Non è mai una brutta idea, quindi, ritornare a dare uno sguardo a cosa dice la legge.

In un momento storico in cui le regole relative ai rapporti di lavoro si moltiplicano, si corre il rischio di non prestare adeguata attenzione ad alcuni aspetti fondamentali dei contratti di lavoro che si vanno a firmare. In alcuni casi si può persino rischiare di non soffermarsi sulle clausole – a dire il vero non sempre chiare – relative all’orario di lavoro!

Non è mai una brutta idea, quindi, ritornare a dare uno sguardo a cosa dice la legge.

Contratti di lavoro full time o part time: come si distinguono?

contratti di lavoro si distinguono, oltre che in base alla loro durata, a tempo indeterminato o determinato, in base all’orario: a tempo pieno o parziale.

Di regola, se il contratto non prevede esplicitamente qualcosa di diverso, l’orario di lavoro è pieno. Ciò significa che, di norma, il lavoratore dipendente è tenuto a prestare la sua attività per un numero di ore pari a 40 settimanali, distribuite su 5 o 6 giorni.

In alcuni casi, tuttavia, il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, o CCNL, applicato dal datore di lavoro può prevedere un numero di ore settimanali superiore o inferiore.

In ogni caso, l’orario di lavoro svolto oltre il limite settimanale stabilito dal CCNL applicato in azienda dovrà considerarsi straordinario e, quindi, dovrà essere retribuito in misura maggiore, sempre in conformità a quanto previsto dal CCNL.

Contratti di lavoro a tempo pieno o parziale: una netta distinzione.

Se il contratto a tempo pieno è la regola, il contratto a tempo parziale è l’eccezione. Ciò significa che un dipendente potrà lavorare per un orario ridotto rispetto a quello normale previsto dal CCNL soltanto se ciò è espressamente previsto nel contratto di lavoro.

Non solo! Nel contratto di lavoro a tempo parziale, infatti, devono essere stabilite sia la durata della prestazione, sia la collocazione temporale con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno.

Cosa sta a significare?

Che nel documento sottoscritto al momento dell’assunzione dovranno essere indicati in modo chiaro e specifico:

  • il numero di ore di lavoro previste per ogni settimana;
  • i giorni di lavoro, dal lunedì alla domenica;
  • il numero di ore da svolgere in ogni giorno della settimana;
  • quando le ore di lavoro devono essere svolte durante ogni giornata.

Per esempio, in caso di contratto di lavoro di 24 ore settimanali, potrà essere previsto che i giorni lavorativi vadano dal lunedì al sabato, che il lunedì, mercoledì e venerdì, il dipendente lavori dalle 9 alle 12 e che il martedì, giovedì e sabato, lavori dalle 14 alle 19.

Quanto previsto nel contratto vincola il lavoratore, ma anche il datore di lavoro, che non potrà variare di volta in volta l’orario in base alle esigenze variabili dell’azienda.

I contratti part time possono godere di una certa flessibilità

Ci sono però strumenti che consentono di aumentare la flessibilità di questo tipo di contratto: le clausole elastiche, flessibili o entrambe.

Le clausole elastiche consentono al datore di lavoro di variare in aumento la prestazione lavorativa e quindi di aumentare le ore di lavoro settimanali.

Le clausole flessibili consentono la variazione della collocazione temporale della prestazione stessa e quindi permettono al datore di lavoro di chiedere al dipendente di prestare attività in giorni ed ore diversi rispetto a quelli specificati nel contratto.

Tutte le variazioni devono però essere comunicate al lavoratore con almeno due giorni di preavviso.

Attività di lavoro oltre l’orario stabilito: è possibile?

In ogni caso, il lavoratore a tempo parziale può sempre svolgere attività di lavoro oltre l’orario pattuito.

È infatti consentito lo svolgimento di lavoro supplementare, ossia di attività di lavoro che va oltre il numero di ore previsto nel contratto, ma è comunque entro il limite dell’orario normale di 40 ore settimanali.

Tuttavia, è bene precisarlo, il lavoro supplementare non può essere svolto sistematicamente, ma deve rispondere ad esigenze straordinarie ed eccezionali del datore di lavoro. Se, infatti, lo svolgimento di lavoro supplementare diviene la regola, allora il dipendente potrà avanzare legittime pretese di rivedere il proprio orario di lavoro.

Consentito, anche nel contratto di lavoro part time, è pure lo svolgimento di lavoro straordinario, ossia quello svolto oltre le 40 ore settimanali.

In entrambi i casi, sia per il lavoro supplementare, sia per il lavoro straordinario, al dipendente spetta una retribuzione oraria maggiorata.

È quindi sempre bene prestare attenzione alla busta paga, per verificare che la retribuzione sia corretta!

Conversione da full time a part time e viceversa: si può fare?

Un passaggio da full time a part time è possibile, a patto che ci sia accordo delle parti e che questo sia testimoniato da un atto scritto. Questo significa che una simile variazione non può esser unilateralmente imposta dal datore di lavoro. Allo stesso modo, è ammessa variazione da part time a full time.

Un eventuale rifiuto del dipendente alla variazione, in un senso o nell’altro, non costituisce legittimo motivo di licenziamento.

In alcuni casi eccezionali è persino riconosciuto al lavoratore il diritto ad ottenere la riduzione, pur non sussistendo l’accordo con il datore di lavoro. Ciò accade, ad esempio, per le lavoratrici madri o i lavoratori affetti da patologie oncologiche o altre patologie gravi.

Il diritto del lavoro è una materia complessa, ma regola molti aspetti della nostra vita quotidiana, con conseguenze anche incisive sugli interessi immediati di chiunque. Le controversie sono all’ordine del giorno, per questo conviene sempre avere modo di consultare un legale. Se hai bisogno di assistenza per questioni lavorative contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

lavoratrice madre

Lavoratrice madre: quali tutele?

La festa della mamma sarà il prossimo 14 maggio. Non esiste dunque momento migliore di questo per approfondire, dopo esserci occupati in generale del congedo parentale, un argomento tanto importante: le tutele riconosciute alla lavoratrice madre.

Tutele per la lavoratrice madre: la base costituzionale

L’articolo 37 della Costituzione, al primo comma, stabilisce che

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”.

Ora, tale disposizione di legge potrebbe sembrare anacronistica, specie nella parte in cui fa riferimento alla “essenziale funzione familiare” della donna. Tuttavia, questa norma costituzionale ha una fondamentale importanza, in quanto prevede espressamente che alla madre lavoratrice e al bambino debba essere riservata una particolare tutela.

Congedo obbligatorio per la lavoratrice madre

L’art.16 D. Lgs. 151/2001 sancisce il divieto di adibire la donna al lavoro nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi alla data effettiva del parto.

La lavoratrice è tenuta ad informare tempestivamente il datore di lavoro ed entro quindici giorni deve produrre il certificato medico attestante il mese di gravidanza e la data presunta del parto, al fine di consentire al datore di lavoro di prendere gli opportuni provvedimenti: valutare la compatibilità delle mansioni svolte dalla lavoratrice e, in caso di necessità, adibire la stessa a una diversa mansione.

Due mesi prima della data presunta del parto la lavoratrice dovrà consegnare al datore di lavoro e all’INSP un certificato medico indicante la data presunta del parto. Successivamente, una volta nato il bambino, la lavoratrice dovrà presentare entro trenta giorni il certificato di nascita.

Flessibilità del congedo obbligatorio

È prevista la possibilità di usufruire della flessibilità del congedo, ossia la possibilità di astenersi dal lavoro a partire da un mese prima la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi, ferma restando la durata complessiva del congedo di cinque mesi.

La flessibilità del congedo deve essere richiesta dalla lavoratrice madre entro la fine del settimo mese di gravidanza, a condizione che non vi sia stato un provvedimento di interdizione anticipata. La richiesta deve essere corredata da apposita certificazione che attesti che la gravidanza è fisiologica, che le mansioni svolte e l’ambiente di lavoro non sono pregiudizievoli, né vi sono controindicazioni derivanti dalle modalità di raggiungimento del luogo di lavoro. In ogni caso, la richiesta può essere presentata soltanto se la lavoratrice non svolge lavori pericolosi, faticosi o insalubri.

Interdizione anticipata

Dall’inizio della gravidanza e fino a sette mesi di età del bambino è vietato adibire le lavoratrici al lavoro notturno, al trasporto e al sollevamento di pesi e, comunque, a lavori pericolosi, faticosi e insalubri.

Qualora la lavoratrice non possa essere adibita ad altre mansioni e, comunque, in presenza di condizioni di lavoro non adeguate, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro potrà disporre l’interdizione anticipata dal lavoro, prorogabile sino a sette mesi dopo il parto.

Diversamente, se il rischio deriva da complicanze della gravidanza, l’interdizione anticipata è disposta su indicazione del medico e fino all’inizio del periodo di congedo obbligatorio.

Riposi giornalieri per la lavoratrice madre

Nel corso del primo anno di vita del bambino alla lavoratrice madre vengono riconosciuti particolari riposi orari per all’allattamento, della durata di una o due ore al giorno a seconda della durata dell’orario contrattuale.

Licenziamento e dimissioni

Dall’inizio della gravidanza e fino ad un anno di vita del bambino vige non è possibile il licenziamento della lavoratrice madre; ciò implica che il licenziamento, se intimato, dovrà considerarsi nullo.

È invece sempre possibile per la lavoratrice madre rassegnare le dimissioni; tuttavia, se rassegnate nel periodo che va dall’inizio della gravidanza sino ai tre anni di età del bambino, esse dovranno essere convalidate da parte dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. È bene precisare che queste tutele si estendono anche al padre lavoratore.

Per la lavoratrice madre le tutele sono molte, ma occorre conoscerle!

Un articolo come questo non basta! Esistono figure professionali specializzate nel tutelare i dei lavoratori e le lavoratrici, fornendo loro assistenza. Se hai bisogno di aiuto per questioni lavorative, non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

contratto a tempo determinato

Contratto a tempo determinato: ormai una prassi nel mondo del lavoro

Da decenni, ormai, il mondo del lavoro va complicandosi. Non si arricchisce solo di nuove professionalità, ma anche di nuove forme contrattuali, che offrono ai lavoratori più o meno tutele e ai datori di lavoro più o meno garanzie. Ci siamo già occupati, in altri articoli, sia della differenza tra lavoro autonomo e lavoro subordinato sia del tirocinio o stage. Con l’articolo di oggi continuiamo a parlare di contratti di lavoro, prendendo in esame il contratto a tempo determinato o a termine, una delle forme contrattuali più utilizzate al giorno d’oggi.

Cosa si intende quando si parla di contratto a tempo determinato?

Innanzitutto, il contratto di lavoro a tempo determinato fa sorgere un rapporto di lavoro subordinato.

La caratteristica che contraddistingue il contratto di lavoro a termine è la sua durata predeterminata nel tempo. Infatti, nel contratto che si sottoscrive al momento dell’assunzione, deve essere sempre specificata non solo la data in cui il rapporto di lavoro ha inizio, ma anche quella in cui esso avrà fine. Salvo eccezioni, poi, il rapporto si estinguerà automaticamente alla scadenza indicata. Dunque, la distinzione principale tra contratto a tempo indeterminato e determinato sta proprio nell’esistenza o meno di un termine finale.

La precarietà dei rapporti di lavoro a termine

Già da quanto detto finora risulta evidente che il contratto di lavoro a tempo determinato dà minori garanzie al lavoratore. Il neoassunto, infatti, si trova in una condizione di precarietà: il rapporto di lavoro che si viene a costituire non è stabile nel tempo.

Per tale ragione, questa tipologia di contratto è stata per lungo tempo malvista dal Legislatore e il suo utilizzo era consentito soltanto in via del tutto eccezionale. Tuttavia, nel tempo è emersa, parallelamente all’esigenza di tutelare i lavoratori, anche quella di sostenere le imprese, fornendo loro strumenti che ne aumentassero la competitività. Negli anni, dunque, si è compreso che il lavoro a tempo determinato, il cosiddetto lavoro “flessibile”, è un elemento fisiologico del mercato del lavoro. Questo perché consente di ridurre il costo del lavoro che le imprese si trovano a dover sostenere. Questa consapevolezza acquisita si è tradotta, nell’ultimo ventennio, in una serie di interventi legislativi volti a regolamentare, e non più a limitare, l’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Ma come funziona il contratto a tempo determinato?

Secondo la legislazione vigente, il contratto di lavoro a termine deve essere stipulato per iscritto, salvo che abbia durata inferiore ai 12 giorni; in mancanza di un documento scritto, il contratto si intende stipulato a tempo indeterminato.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’art. 19, D. Lgs. n. 81/2015, come modificato dal D.L. 87/2018, tendenzialmente non può avere durata superiore a 12 mesi.

È possibile aumentare la durata massima del contratto sino a 24 mesi, ma soltanto in presenza di una delle seguenti condizioni o causali, che devono essere espressamente indicate:

  • esigenze aziendali temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ossia non rientranti in quella tipicamente svolta dall’azienda;
  • specifiche esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • determinate esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria, che dunque non possono essere affrontati con il personale in forze;
  • specifiche esigenze previste dai contratti collettivi.

Prosecuzione oltre il termine: proroga o rinnovo?

Quando il contratto giunge al termine stabilito, come già detto, esso scade automaticamente. Tuttavia, è consentito proseguire il rapporto di lavoro in essere per un ulteriore periodo di tempo, in due modi: con la proroga o con il rinnovo del contratto.

PROROGA

In caso di proroga il rapporto non si interrompe, ma continua senza soluzione di continuità per un periodo ulteriore di volta in volta stabilito.

Attenzione però: il termine non può essere prorogato all’infinito, ma soltanto fino ad un massimo di quattro volte. Inoltre, mentre nei primi dodici mesi del rapporto la proroga è libera, superati i dodici mesi nella comunicazione di proroga devono anche essere specificate le condizioni o causali di cui all’art. 19.

RINNOVO

Oltre a poter essere prorogato, il contratto a termine può anche essere rinnovato.

La differenza tra proroga e rinnovo consiste nel fatto che in questo secondo tra il primo contratto e il suo rinnovo decorre un certo lasso di tempo, mai inferiore a dieci giorni.

Anche per il rinnovo del contratto sono previsti alcuni limiti. Il contratto a termine, infatti, può essere rinnovato solo in presenza delle già richiamate causali e, comunque, per un periodo complessivo non superiore a 24 mesi.

Sei certo che il tuo contratto a tempo determinato sia corretto?

Il diritto del lavoro è una materia davvero complicata e ricca di sfaccettature, lo sappiamo! Per questo, sia che tu sia un lavoratore che teme che il suo contratto non sia corretto, sia che tu sia un datore di lavoro che vuole predisporre i contratti di lavoro nel modo migliore, è bene che tu ti rivolga ad un legale.

Se hai bisogno di assistenza da parte di un avvocato contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

tirocinio

Tirocinio: una porta aperta sul mondo del lavoro

Spesso, purtroppo, sentiamo parlare di incidenti sul lavoro nei quali sono coinvolti giovani tirocinanti. Allora l’opinione pubblica si indigna, gli studenti protestano e molti insistono per una riforma delle norme sul tirocinio o stage.

Ma quanto ne sappiamo davvero di questo istituto che, seppur controverso, costituisce un‘importante fase del percorso di ingresso nel mondo del lavoro? Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta!

Tirocinio e stage sono la stessa cosa? 

A questa domanda possiamo rispondere semplicemente di sì: stage e tirocinio sono in effetti la stessa cosa. Nessuno dei due, però, è un rapporto di lavoro!

Cosa si intende con il termine “tirocinio”?

Il tirocinio, poi, si divide a sua volta in tre categorie: curricolare, non curricolare e per studenti universitari. 

Parliamo di tirocini curricolari intendendo tirocini inclusi nel piano di studi scolastico o universitario, il cui scopo è affinare il processo formativo grazie a un’esperienza pratica. È questo il caso dell’alternanza scuola-lavoro, di cui tanto si sente parlare ultimamente.

Il tirocinio non curricolare, invece, è rivolto a neo diplomati o neo laureati. Questa tipologia di tirocinio, infatti, dovrebbe rendere più facili le scelte professionali di chi abbia completato un ciclo di studi. Allo stesso tempo, possono accedere a questa tipologia di stage anche coloro che appartengono a una fascia debole, come ad esempio i disoccupati, allo scopo di acquisire una specifica professionalità.

Infine, vi è il tirocinio per studenti universitari, destinato a persone che stanno portando avanti un percorso formativo universitario ed attivato dall’Università stessa. È inteso a favorire l’occupazione degli studenti, si appoggia a enti pubblici o privati e ha una durata di minimo tre mesi. 

Chi stabilisce le regole dei tirocini?

La disciplina dei tirocini è competenza delle Regioni o delle Province autonome, nel rispetto delle “Linee guida in materia di tirocini” stabilite dalla Conferenza Stato Regioni nel 2013, aggiornate poi nel 2017.

Le Linee Guida, però, si occupano soltanto della materia dei tirocini extracurriculari, per quanto riguarda l’inserimento lavorativo o l’orientamento. 

Queste Linee Guida stabiliscono le regole basilari dell’istituto del tirocinio. 

Innanzitutto la durata, che, tendenzialmente, va dai 2 ai 12 mesi. In questo periodo non viene computata, però, l’eventuale sospensione per maternità, per infortunio o per chiusura aziendale. 

Le Linee Guida prevedono poi che debbano esistere sia un soggetto promotore sia un soggetto ospitante. Il primo soggetto promuove e attiva il tirocinio, monitorando la realizzazione degli obiettivi formativi.

L’altro soggetto, l’ospitante, ospita, appunto, il tirocinante: si tratta infatti del soggetto presso il quale si svolge il tirocinio, che deve essere in regola con le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e che, oltre a dover assicurare la realizzazione del tirocinio, deve garantire un’adeguata informazione e formazione in materia di salute e sicurezza. Sempre l’ospitante deve farsi carico della sorveglianza sanitaria e mettere a disposizione del tirocinante attrezzature ed equipaggiamenti. 

In ogni caso, promotore e ospitante sono tenuti a stupulare una convenzione di tirocinio, nel quale vengono specificati, tra le altre cose, gli obblighi di entrambi i soggetti e la durata complessiva del tirocinio.

Alla convenzione deve sempre essere allegato il piano formativo individuale, o PFI, che contiene l’indicazione degli obiettivi formativi da raggiungere nel corso del periodo di tirocinio.

Lo svolgimento dell’attività da parte del tirocinante è sorvegliato da due tutor, uno presente presso il promotore e uno presso l‘ospitante. Particolarmente importante è il ruolo del tutor presso il soggetto ospitante: Egli, infatti, deve affiancare il tirocinante sul luogo di lavoro e deve avere competenze adeguate a garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti nel PFI.

Si tratta di un rapporto retribuito è retribuito?

Per chi svolge il tirocinio non è prevista alcuna retribuzione.

Tuttavia, nelle Linee Guida si prevede l’obbligo di corrispondere al tirocinante una indennità, tendenzialmente non inferiore ai 300 euro mensili. 

Quando non è possibile avviare un tirocinio? 

Il tirocinio ha natura formativa e, di conseguenza, non può essere utilizzato per far fronte a temporanee necessità aziendali. Dunque,ad esempio, non potrà essere utilizzato per sostituire altri lavoratori assenti per ferie, malattia o maternità.

Non è inoltre possibile avviare un periodo di tirocinio con un soggetto che abbia già lavorato per il soggetto ospitante nei due anni precedenti o che abbia già fatto altri tirocini presso lo stesso soggetto. Spesso, purtroppo, il tirocinio viene utilizzato in maniera scorretta,per mascherare un vero e proprio rapporto di lavoro.

Sei sicuro di essere parte di un rapporto di tirocinio regolare? Esserne sicuri è importante: contatta il nostro studio per saperne di più: tutela i tuoi diritti! 

congedo parentale

Il congedo parentale: un periodo per entrambi i genitori

Solitamente, quando si parla di gravidanze, parti, nascite e figli, si tende a parlare esclusivamente dei diritti riconosciuti alla lavoratrice madre. Giustamente, infatti, la prima preoccupazione è quella di consentire alla lavoratrice madre di poter conciliare al meglio la propria attività lavorativa e il suo essere madre. Per questo, come noto, esiste il congedo di maternità ordinario, comunemente detto “maternità obbligatoria”, che copre il periodo da due mesi prima del parto a tre mesi dopo il parto. È altresì noto che a questo primo periodo se ne può aggiungere un secondo, ulteriore, comunemente detto “maternità facoltativa”. Questa definizione, in realtà, è errata: oggi, infatti, si parla più genericamente di “congedo parentale”, trattandosi di periodo di astensione facoltativa dal lavoro di cui possono usufruire sia la lavoratrice madre sia il lavoratore padre.

Cos’è il congedo parentale?

Come anticipato, il congedo parentale è un periodo di tempo, diverso dalla cosiddetta “maternità obbligatoria”, durante il quale le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, con un rapporto di lavoro in corso, possono astenersi dal lavoro per prendersi cura dei figli. In particolare, il congedo può essere fruito dai genitori in maniera continuativa o frazionata, entro i primi 12 anni di vita del bambino. Peraltro, tale diritto è riconosciuto anche ai genitori adottivi o affidatari, entro i primi 12 anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino.

Quanto dura il periodo congedo parentale?

Il diritto all’astensione dal lavoro è riconosciuto per periodi in parte diversi alla lavoratrice madre e al lavoratore padre. La lavoratrice madre, infatti, ha diritto al congedo per un periodo massimo di sei mesi. Anche al lavoratore padre viene riconosciuto un periodo di congedo della durata di sei mesi, che, tuttavia, può essere elevato a sette mesi nel caso in cui il padre usufruisca di un periodo di congedo di almeno tre mesi.

I periodi di congedo potranno essere usufruiti dai genitori anche contemporaneamente e il lavoratore padre avrà diritto di astenersi dal lavoro a partire dal giorno successivo al parto, anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre. Nel complesso, in ogni caso, il periodo di congedo usufruito da entrambi i genitori non potrà superare i dieci mesi, elevabili a undici nel caso in cui, come anticipato, il lavoratore padre si astenga dal lavoro per almeno tre mesi, continuativi o frazionati. Il genitore solo, padre o madre, o affidatario in via esclusiva del figlio, avrà invece diritto al congedo per un periodo massimo di undici mesi

Quanto si percepisce durante il congedo parentale?

Durante il periodo di astensione dal lavoro, i genitori lavoratori dipendenti hanno diritto a percepire un’indennità pari al 30% della retribuzione. Tale indennità, tuttavia, non è riconosciuta per l’intero periodo di congedo, ma per un periodo complessivo massimo di nove mesi. Ciò, in quanto tanto alla madre quanto al padre spetta un periodo indennizzato di tre mesi ciascuno, a cui se ne aggiunge uno ulteriore, di altri tre mesi, che può essere usufruito alternativamente da un genitore o dall’altro.

Per i periodi di congedo superiori ai nove mesi, invece, l’indennità pari al 30% della retribuzione non sarà riconosciuta in automatico, ma soltanto qualora il reddito del genitore richiedente non superi un determinato limite. Resta inteso che tale indennità, corrisposta dall’INPS, per i lavoratori dipendenti viene anticipata dl datore di lavoro.

Rientra tutto nel mondo dei diritti dei lavoratori

Il congedo parentale è soltanto uno dei modi in cui il nostro ordinamento tutela le lavoratrici madri e i lavoratori padri. Vuoi saperne di più? Rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

fondo di garanzia

Fondo di garanzia INPS: cosa fare quando il datore di lavoro non paga lo stipendio?

Vi sono molteplici ragioni che possono portare un datore di lavoro, sia esso ditta individuale, società di persone o società di capitali, a non pagare le retribuzioni dovute ai propri dipendenti. In tali ipotesi, lo ricordiamo, il lavoratore può legittimamente rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa. Rimane, però, il problema della mancata corresponsione delle retribuzioni e, a seguito della cessazione del rapporto, del Trattamento di Fine Rapporto. Come fare, dunque, a recuperare queste somme? Esiste uno strumento a tutela del lavoratori come, ad esempio, un fondo di garanzia

Crediti con l’ex datore di lavoro: cosa conviene fare prima di cercare un fondo di garanzia?

Può darsi che il mancato versamento degli stipendi sia intenzionale, ossia dipenda da una decisione del datore di lavoro, che tuttavia avrebbe le risorse economiche per provvedere al pagamento del dovuto. Tuttavia, può anche accadere che il datore di lavoro non paghi le retribuzioni dovute ai propri dipendenti perché si trova in condizione di difficoltà economica, temporanea e risolvibile o, addirittura, tanto grave da poterlo portare al fallimento.

In ogni caso, quando il datore di lavoro non paga, la cosa migliore da fare è rivolgersi ad un avvocato, il quale si attiverà prontamente per assistervi nell’attività di recupero – anche forzoso – delle somme a Voi dovute.

E se non si riesce a recuperare nulla dal datore di lavoro?

Purtroppo può capitare che, persino con l’aiuto di un avvocato, non si riesca a recuperare le somme dal datore di lavoro. Questo, perché, ad esempio, il datore di lavoro, anche se economicamente benestante, non ha beni che possano essere facilmente aggrediti, cioè pignorati. Oppure, come già anticipato, può darsi che il datore di lavoro fosse in condizioni di dissesto finanziario e che, quindi, sia fallito. Ci si deve quindi rassegnare e rinunciare definitivamente alle retribuzioni e al TFR? Fortunatamente no, poiché in questi casi, molto più frequenti di quanto non si pensi, interviene l’INPS a tutela del lavoratore.   

Il Fondo di garanzia INPS

Esiste, infatti, un particolare strumento di tutela per il lavoratori del settore privato, compresi i lavoratori con la qualifica di apprendista, nonché i soci delle cooperative di lavoro: il Fondo di garanzia INPS. Il Fondo assicura ai lavoratori la corresponsione delle ultime tre mensilità di retribuzione, inclusi i ratei di tredicesima e quattordicesima, nonché del Trattamento di Fine Rapporto. Non vengono, invece, corrisposte dal Fondo le somme dovute a titolo di ferie e permessi non goduti e di indennità di mancato preavviso.

Dunque è possibile rivolgersi al Fondo anche in casi diversi dal fallimento o dalla liquidazione del datore di lavoro. Tuttavia, deve tenersi presente che il Fondo NON garantisce il pagamento automatico al lavoratore di tutto quanto non versato dal datore di lavoro, ma provvede a liquidare solo alcune somme specificamente indicate. Peraltro, al fine di ottenere dal Fondo il pagamento di quanto richiesto, è necessario allegare alla domanda una copiosa documentazione, che dimostri l’impossibilità di recuperare le retribuzioni non corrisposte direttamente dal datore di lavoro.

Come si accede al fondo di garanzia INPS?

La domanda può essere presentata soltanto tramite il portale dedicato, compilando ed inviando specifici moduli che variano a seconda dei casi e che devono essere debitamente compilati.

Il tuo attuale datore di lavoro non ti sta pagando oppure il precedente non ti ha versato le ultime retribuzioni e/o il TFR? 

Temi che il tuo datore di lavoro fallirà a breve oppure ti è già stato comunicato l’avvio della procedura di liquidazione? Non aspettare, contatta il nostro studio! Ti seguiremo passo passo nell’intera procedura di recupero del credito, fino alla liquidazione delle somme da parte del Fondo di garanzia INPS! Tutela i tuoi diritti!