contratto a tempo determinato

Contratto a tempo determinato: ormai una prassi nel mondo del lavoro

Da decenni, ormai, il mondo del lavoro va complicandosi. Non si arricchisce solo di nuove professionalità, ma anche di nuove forme contrattuali, che offrono ai lavoratori più o meno tutele e ai datori di lavoro più o meno garanzie. Ci siamo già occupati, in altri articoli, sia della differenza tra lavoro autonomo e lavoro subordinato sia del tirocinio o stage. Con l’articolo di oggi continuiamo a parlare di contratti di lavoro, prendendo in esame il contratto a tempo determinato o a termine, una delle forme contrattuali più utilizzate al giorno d’oggi.

Cosa si intende quando si parla di contratto a tempo determinato?

Innanzitutto, il contratto di lavoro a tempo determinato fa sorgere un rapporto di lavoro subordinato.

La caratteristica che contraddistingue il contratto di lavoro a termine è la sua durata predeterminata nel tempo. Infatti, nel contratto che si sottoscrive al momento dell’assunzione, deve essere sempre specificata non solo la data in cui il rapporto di lavoro ha inizio, ma anche quella in cui esso avrà fine. Salvo eccezioni, poi, il rapporto si estinguerà automaticamente alla scadenza indicata. Dunque, la distinzione principale tra contratto a tempo indeterminato e determinato sta proprio nell’esistenza o meno di un termine finale.

La precarietà dei rapporti di lavoro a termine

Già da quanto detto finora risulta evidente che il contratto di lavoro a tempo determinato dà minori garanzie al lavoratore. Il neoassunto, infatti, si trova in una condizione di precarietà: il rapporto di lavoro che si viene a costituire non è stabile nel tempo.

Per tale ragione, questa tipologia di contratto è stata per lungo tempo malvista dal Legislatore e il suo utilizzo era consentito soltanto in via del tutto eccezionale. Tuttavia, nel tempo è emersa, parallelamente all’esigenza di tutelare i lavoratori, anche quella di sostenere le imprese, fornendo loro strumenti che ne aumentassero la competitività. Negli anni, dunque, si è compreso che il lavoro a tempo determinato, il cosiddetto lavoro “flessibile”, è un elemento fisiologico del mercato del lavoro. Questo perché consente di ridurre il costo del lavoro che le imprese si trovano a dover sostenere. Questa consapevolezza acquisita si è tradotta, nell’ultimo ventennio, in una serie di interventi legislativi volti a regolamentare, e non più a limitare, l’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Ma come funziona il contratto a tempo determinato?

Secondo la legislazione vigente, il contratto di lavoro a termine deve essere stipulato per iscritto, salvo che abbia durata inferiore ai 12 giorni; in mancanza di un documento scritto, il contratto si intende stipulato a tempo indeterminato.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’art. 19, D. Lgs. n. 81/2015, come modificato dal D.L. 87/2018, tendenzialmente non può avere durata superiore a 12 mesi.

È possibile aumentare la durata massima del contratto sino a 24 mesi, ma soltanto in presenza di una delle seguenti condizioni o causali, che devono essere espressamente indicate:

  • esigenze aziendali temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ossia non rientranti in quella tipicamente svolta dall’azienda;
  • specifiche esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • determinate esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria, che dunque non possono essere affrontati con il personale in forze;
  • specifiche esigenze previste dai contratti collettivi.

Prosecuzione oltre il termine: proroga o rinnovo?

Quando il contratto giunge al termine stabilito, come già detto, esso scade automaticamente. Tuttavia, è consentito proseguire il rapporto di lavoro in essere per un ulteriore periodo di tempo, in due modi: con la proroga o con il rinnovo del contratto.

PROROGA

In caso di proroga il rapporto non si interrompe, ma continua senza soluzione di continuità per un periodo ulteriore di volta in volta stabilito.

Attenzione però: il termine non può essere prorogato all’infinito, ma soltanto fino ad un massimo di quattro volte. Inoltre, mentre nei primi dodici mesi del rapporto la proroga è libera, superati i dodici mesi nella comunicazione di proroga devono anche essere specificate le condizioni o causali di cui all’art. 19.

RINNOVO

Oltre a poter essere prorogato, il contratto a termine può anche essere rinnovato.

La differenza tra proroga e rinnovo consiste nel fatto che in questo secondo tra il primo contratto e il suo rinnovo decorre un certo lasso di tempo, mai inferiore a dieci giorni.

Anche per il rinnovo del contratto sono previsti alcuni limiti. Il contratto a termine, infatti, può essere rinnovato solo in presenza delle già richiamate causali e, comunque, per un periodo complessivo non superiore a 24 mesi.

Sei certo che il tuo contratto a tempo determinato sia corretto?

Il diritto del lavoro è una materia davvero complicata e ricca di sfaccettature, lo sappiamo! Per questo, sia che tu sia un lavoratore che teme che il suo contratto non sia corretto, sia che tu sia un datore di lavoro che vuole predisporre i contratti di lavoro nel modo migliore, è bene che tu ti rivolga ad un legale.

Se hai bisogno di assistenza da parte di un avvocato contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

tirocinio

Tirocinio: una porta aperta sul mondo del lavoro

Spesso, purtroppo, sentiamo parlare di incidenti sul lavoro nei quali sono coinvolti giovani tirocinanti. Allora l’opinione pubblica si indigna, gli studenti protestano e molti insistono per una riforma delle norme sul tirocinio o stage.

Ma quanto ne sappiamo davvero di questo istituto che, seppur controverso, costituisce un‘importante fase del percorso di ingresso nel mondo del lavoro? Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta!

Tirocinio e stage sono la stessa cosa? 

A questa domanda possiamo rispondere semplicemente di sì: stage e tirocinio sono in effetti la stessa cosa. Nessuno dei due, però, è un rapporto di lavoro!

Cosa si intende con il termine “tirocinio”?

Il tirocinio, poi, si divide a sua volta in tre categorie: curricolare, non curricolare e per studenti universitari. 

Parliamo di tirocini curricolari intendendo tirocini inclusi nel piano di studi scolastico o universitario, il cui scopo è affinare il processo formativo grazie a un’esperienza pratica. È questo il caso dell’alternanza scuola-lavoro, di cui tanto si sente parlare ultimamente.

Il tirocinio non curricolare, invece, è rivolto a neo diplomati o neo laureati. Questa tipologia di tirocinio, infatti, dovrebbe rendere più facili le scelte professionali di chi abbia completato un ciclo di studi. Allo stesso tempo, possono accedere a questa tipologia di stage anche coloro che appartengono a una fascia debole, come ad esempio i disoccupati, allo scopo di acquisire una specifica professionalità.

Infine, vi è il tirocinio per studenti universitari, destinato a persone che stanno portando avanti un percorso formativo universitario ed attivato dall’Università stessa. È inteso a favorire l’occupazione degli studenti, si appoggia a enti pubblici o privati e ha una durata di minimo tre mesi. 

Chi stabilisce le regole dei tirocini?

La disciplina dei tirocini è competenza delle Regioni o delle Province autonome, nel rispetto delle “Linee guida in materia di tirocini” stabilite dalla Conferenza Stato Regioni nel 2013, aggiornate poi nel 2017.

Le Linee Guida, però, si occupano soltanto della materia dei tirocini extracurriculari, per quanto riguarda l’inserimento lavorativo o l’orientamento. 

Queste Linee Guida stabiliscono le regole basilari dell’istituto del tirocinio. 

Innanzitutto la durata, che, tendenzialmente, va dai 2 ai 12 mesi. In questo periodo non viene computata, però, l’eventuale sospensione per maternità, per infortunio o per chiusura aziendale. 

Le Linee Guida prevedono poi che debbano esistere sia un soggetto promotore sia un soggetto ospitante. Il primo soggetto promuove e attiva il tirocinio, monitorando la realizzazione degli obiettivi formativi.

L’altro soggetto, l’ospitante, ospita, appunto, il tirocinante: si tratta infatti del soggetto presso il quale si svolge il tirocinio, che deve essere in regola con le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e che, oltre a dover assicurare la realizzazione del tirocinio, deve garantire un’adeguata informazione e formazione in materia di salute e sicurezza. Sempre l’ospitante deve farsi carico della sorveglianza sanitaria e mettere a disposizione del tirocinante attrezzature ed equipaggiamenti. 

In ogni caso, promotore e ospitante sono tenuti a stupulare una convenzione di tirocinio, nel quale vengono specificati, tra le altre cose, gli obblighi di entrambi i soggetti e la durata complessiva del tirocinio.

Alla convenzione deve sempre essere allegato il piano formativo individuale, o PFI, che contiene l’indicazione degli obiettivi formativi da raggiungere nel corso del periodo di tirocinio.

Lo svolgimento dell’attività da parte del tirocinante è sorvegliato da due tutor, uno presente presso il promotore e uno presso l‘ospitante. Particolarmente importante è il ruolo del tutor presso il soggetto ospitante: Egli, infatti, deve affiancare il tirocinante sul luogo di lavoro e deve avere competenze adeguate a garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti nel PFI.

Si tratta di un rapporto retribuito è retribuito?

Per chi svolge il tirocinio non è prevista alcuna retribuzione.

Tuttavia, nelle Linee Guida si prevede l’obbligo di corrispondere al tirocinante una indennità, tendenzialmente non inferiore ai 300 euro mensili. 

Quando non è possibile avviare un tirocinio? 

Il tirocinio ha natura formativa e, di conseguenza, non può essere utilizzato per far fronte a temporanee necessità aziendali. Dunque,ad esempio, non potrà essere utilizzato per sostituire altri lavoratori assenti per ferie, malattia o maternità.

Non è inoltre possibile avviare un periodo di tirocinio con un soggetto che abbia già lavorato per il soggetto ospitante nei due anni precedenti o che abbia già fatto altri tirocini presso lo stesso soggetto. Spesso, purtroppo, il tirocinio viene utilizzato in maniera scorretta,per mascherare un vero e proprio rapporto di lavoro.

Sei sicuro di essere parte di un rapporto di tirocinio regolare? Esserne sicuri è importante: contatta il nostro studio per saperne di più: tutela i tuoi diritti! 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

congedo parentale

Il congedo parentale: un periodo per entrambi i genitori

Solitamente, quando si parla di gravidanze, parti, nascite e figli, si tende a parlare esclusivamente dei diritti riconosciuti alla lavoratrice madre. Giustamente, infatti, la prima preoccupazione è quella di consentire alla lavoratrice madre di poter conciliare al meglio la propria attività lavorativa e il suo essere madre. Per questo, come noto, esiste il congedo di maternità ordinario, comunemente detto “maternità obbligatoria”, che copre il periodo da due mesi prima del parto a tre mesi dopo il parto. È altresì noto che a questo primo periodo se ne può aggiungere un secondo, ulteriore, comunemente detto “maternità facoltativa”. Questa definizione, in realtà, è errata: oggi, infatti, si parla più genericamente di “congedo parentale”, trattandosi di periodo di astensione facoltativa dal lavoro di cui possono usufruire sia la lavoratrice madre sia il lavoratore padre.

Cos’è il congedo parentale?

Come anticipato, il congedo parentale è un periodo di tempo, diverso dalla cosiddetta “maternità obbligatoria”, durante il quale le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, con un rapporto di lavoro in corso, possono astenersi dal lavoro per prendersi cura dei figli. In particolare, il congedo può essere fruito dai genitori in maniera continuativa o frazionata, entro i primi 12 anni di vita del bambino. Peraltro, tale diritto è riconosciuto anche ai genitori adottivi o affidatari, entro i primi 12 anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino.

Quanto dura il periodo congedo parentale?

Il diritto all’astensione dal lavoro è riconosciuto per periodi in parte diversi alla lavoratrice madre e al lavoratore padre. La lavoratrice madre, infatti, ha diritto al congedo per un periodo massimo di sei mesi. Anche al lavoratore padre viene riconosciuto un periodo di congedo della durata di sei mesi, che, tuttavia, può essere elevato a sette mesi nel caso in cui il padre usufruisca di un periodo di congedo di almeno tre mesi.

I periodi di congedo potranno essere usufruiti dai genitori anche contemporaneamente e il lavoratore padre avrà diritto di astenersi dal lavoro a partire dal giorno successivo al parto, anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre. Nel complesso, in ogni caso, il periodo di congedo usufruito da entrambi i genitori non potrà superare i dieci mesi, elevabili a undici nel caso in cui, come anticipato, il lavoratore padre si astenga dal lavoro per almeno tre mesi, continuativi o frazionati. Il genitore solo, padre o madre, o affidatario in via esclusiva del figlio, avrà invece diritto al congedo per un periodo massimo di undici mesi

Quanto si percepisce durante il congedo parentale?

Durante il periodo di astensione dal lavoro, i genitori lavoratori dipendenti hanno diritto a percepire un’indennità pari al 30% della retribuzione. Tale indennità, tuttavia, non è riconosciuta per l’intero periodo di congedo, ma per un periodo complessivo massimo di nove mesi. Ciò, in quanto tanto alla madre quanto al padre spetta un periodo indennizzato di tre mesi ciascuno, a cui se ne aggiunge uno ulteriore, di altri tre mesi, che può essere usufruito alternativamente da un genitore o dall’altro.

Per i periodi di congedo superiori ai nove mesi, invece, l’indennità pari al 30% della retribuzione non sarà riconosciuta in automatico, ma soltanto qualora il reddito del genitore richiedente non superi un determinato limite. Resta inteso che tale indennità, corrisposta dall’INPS, per i lavoratori dipendenti viene anticipata dl datore di lavoro.

Rientra tutto nel mondo dei diritti dei lavoratori

Il congedo parentale è soltanto uno dei modi in cui il nostro ordinamento tutela le lavoratrici madri e i lavoratori padri. Vuoi saperne di più? Rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Monica Bassan

periodo di preavviso

Periodo di preavviso: come si pone fine a un rapporto di lavoro

Se hai letto il nostro articolo relativo alla NASpI, ti starai probabilmente domandando in che modo, all’atto pratico, come un rapporto di lavoro viene interrotto. Ci occupiamo, quindi, con questo articolo, di un altro aspetto connesso alla cessazione del rapporto di lavoro: il periodo di preavviso.   

Cosa si intende con il termine “preavviso”? 

Per preavviso intendiamo quel periodo di tempo che decorre dalla comunicazione delle dimissioni o del licenziamento sino alla cessazione definitiva del rapporto. Il preavviso, dunque, deve essere rispettato sia quando è il lavoratore a porre fine al rapporto di lavoro, sia quando il datore di lavoro pone fine al rapporto. 

Durante questo periodo, il lavoratore deve continuare a svolgere regolarmente la sua attività lavorativa, mentre compito dell’azienda è quello di corrispondergli la retribuzione sino all’ultimo giorno. 

La durata del periodo di preavviso

La durata del periodo di preavviso da rispettare è fissata, in via generale, dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro o CCNL applicato o dagli usi. Il preavviso potrà essere di alcuni giorni o anche di due o tre mesi e potrà variare a seconda del livello di inquadramento, dell’anzianità di servizio del lavoratore o di una combinazione dei due elementi.

Il periodo di preavviso può essere prorogato?

Vi sono alcuni eventi, ossia la malattia, l’infortunio e la maternità, che interrompono il preavviso, la cui scadenza sarà quindi spostata in avanti.

I giorni di ferie non goduti possono essere usati durante il periodo di preavviso?

Tendenzialmente, nel corso del periodo di preavviso, non si potrebbe godere dei giorni di ferie, ma è sempre possibile che le Parti si accordino in maniera diversa: l’importante è che la scelta non venga imposta da una parte all’altra.

Quando non è dovuto il preavviso?

Il preavviso NON è dovuto in caso di: 

  • dimissioni per giusta causa;
  • accordi collettivi di esodo; 
  • lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino; 
  • padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità, per tutta la sua durata e fino ad un anno di età del bambino; 
  • licenziamento o le dimissioni causate dalla domanda o dal godimento da parte del lavoratore o della lavoratrice del congedo parentale e del congedo per malattia del bambino; 
  • matrimonio dalla data delle pubblicazioni fino a un anno; 
  • licenziamento o dimissioni durante o al termine del periodo di prova; risoluzione consensuale del rapporto. 

E se il lavoratore o il datore di lavoro non possono rispettare il periodo di preavviso?

In realtà, il periodo di preavviso può non essere rispettato, in totale o parzialmente. In questi casi, però, la parte che non rispetta il preavviso sarà tenuta a corrispondere una indennità per i giorni mancanti, salvo diverso accordo delle parti.

Nel caso in cui si voglia porre fine a un rapporto di lavoro, la procedura da seguire è sempre delicata e merita una particolare attenzione se si vuole minimizzare il rischio che l’altra parte si rivalga. Per questo è sempre un’ottima idea chiedere aiuto a un professionista.

Se hai bisogno di aiuto contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

prestazioni occasionali

Prestazioni occasionali sul lavoro: come gestirle secondo la legge

Nel mondo del lavoro, il contratto di collaborazione occasionale ora prestazioni occasionali viene spesso utilizzato tra le parti, datore di lavoro e lavoratore, per lavori saltuari e limitati nel tempo. E’ un rapporto che dovrebbe essere molto semplice e snello ma è stato spesso rimaneggiato dal nostro legislatore dopo alterne fortune, giuridiche, politiche e sociali.

Le prestazioni occasionali secondo la legge

La “prestazione occasionale” è stata da ultima disciplinata compiutamente nel 2017. Giuridicamente, l’interpretazione e l’applicazione del contratto non è facile e abbiamo avuto bisogno di numerose circolari del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS, nonché diversi interventi giurisprudenziali per definirne i contorni.

E’ bene specificare che questo rapporto di lavoro è tutti gli effetti un lavoro autonomo e, quindi, il prestatore di lavoro non è un dipendente: è colui che svolge a favore di un committente un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione. Si distingue dal lavoro autonomo abituale non per la natura della prestazione ma per il carattere episodico dello stesso. Infatti si parla di attività svolte nel corso di un anno civile, dal 1° gennaio al 31 dicembre di ciascun anno.

Cosa cambia con la nuova legge di bilancio

E ora la legge di bilancio 2023 ha introdotto importanti novità per quanto riguarda il Contratto di Prestazione occasionale e l’INPS si sta adeguando. Ma dal 1° gennaio 2023, cosa cambia in termini pratici?

Innanzitutto, se ne è esteso grandemente l’utilizzo. Infatti è previsto l’aumento da 5.000,00 a ben 10.000,00 euro per anno civile del limite di compenso erogabile dall’utilizzatore nei confronti dei prestatori di lavoro. Inoltre, potranno adoperare questo contratto tutti gli utilizzatori che hanno fino a 10 (mentre prima era fino a 5) lavoratori subordinati a tempo indeterminato.

Infine, sono stati eliminati i limiti che imponevano alle imprese del turismo di occupare solo particolari categorie di lavoratori. Per le imprese agricole sono introdotte forme semplificate di utilizzo delle prestazioni di lavoro occasionale a tempo determinato. Il nuovo regime specifico prevede, tra l’altro, l’inoltro della Comunicazione Obbligatoria di assunzione al competente Centro per l’impiego.

Rimane invariata, invece, la disciplina generale sia fiscale che normativa.

Continua, infatti, a non essere necessaria l’apertura di una partita IVA e nemmeno l’iscrizione ad un albo professionale. È sufficiente che il collaboratore presenti all’utilizzatore una ricevuta per prestazione occasionale e il committente versi, per conto del collaboratore occasionale, una ritenuta d’acconto sul compenso pari al 20%.

Il prestatore ha diritto all’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, con iscrizione alla Gestione separata dell’INPS, nonché all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Inoltre, è previsto il diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali come per legge, nonché l’estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

La gestione dei rapporti di lavoro è una materia complessa e delicata

Eppure moltissime persone hanno bisogno di gestire situazioni simili nella loro quotidianità. Le conseguenze di una gestione errata, però, si ripercuotono in modo molto tangibile sull’economia personale e familiare di moltissimi lavoratori. Ecco perché affidarsi a un professionista è un investimento necessario. Se anche tu hai bisogno di aiuto nella gestione della tua attività lavorativa contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

recesso del socio

Il recesso del socio lavoratore nelle cooperative

In molti articoli usciti in precedenza, abbiamo analizzato le peculiarità dei rapporti di lavoro subordinato, soprattutto in relazione alla chiusura del rapporto. Il lavoro subordinato, però, non è l’unica soluzione per un rapporto continuativo: una organizzazione lavorativa diffusissima è, ad esempio, la cooperativa. In quel caso, però, non si parla di dipendenti ma di soci, che partecipano al capitale sociale e contribuiscono con il loro lavoro. Dunque, come si realizza il recesso del socio lavoratore nelle cooperative, qualora questi volesse intraprendere un’altra strada?

Recesso del socio: come si estingue il rapporto associativo in una cooperativa?

Il rapporto di lavoro del socio di cooperativa si può estingue in due modi:

  • il recesso del socio: il lavoratore decide di chiudere il rapporto con la cooperativa e in genere non deve fornire particolari motivazioni;
  • l’esclusione da parte della Cooperativa. Gli organi della Cooperativa decidono di espellere il socio lavoratore, in genere per gravi mancanze, secondo le regole proprie dello Statuto della Cooperativa e nel rispetto della legge.

Attenzione quando si parla di recesso non stiamo parlando di dimissioni del lavoratore!

Il recesso riguarda la posizione di socio mentre le dimissioni riguardano la posizione di lavoratore.

Ovviamente l’una può influire sull’altra, soprattutto quando è previsto dello Statuto che regola la vita dell’Associazione. Per le dimissioni si applicano le regole previste per tutti i lavoratori e nel rispetto delle specificità del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro di appartenenza.

Il recesso del socio, invece, è ammesso solo nelle ipotesi previste dalla legge o specificate nell’atto costitutivo. Occorre, quindi, un formale atto di recesso e non di dimissioni, nel rispetto delle disposizioni del regolamento interno. Importante per il lavoratore che diventa anche socio della Cooperativa per la quale lavora è conoscere, le regole dettate da questi atti interni alla Cooperativa; atti che il socio ha diritto di conoscere e di cui può chiedere copia.

E se abbiamo esclusione da socio e licenziamento? Chi è il Giudice competente a decidere?

Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative sono assoggettate alle norme previste per il rito del lavoro. Quindi competente è il Giudice unico in funzione di Giudice del Lavoro. In tali casi, il giudice del lavoro decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. In particolare, lo stesso giudice decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo.

In conclusione, qualora concorrano da un lato la risoluzione del rapporto associativo a seguito di delibera di esclusione e dall’altro la risoluzione del rapporto di lavoro per concorrente licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, opera la vis attractiva. e quindi entrambe le relative controversie fra il socio lavoratore e la società cooperativa rientrano nella competenza del Tribunale in funzione di giudice del lavoro.

Le nuove disposizioni a seguito della Riforma Cartabia del processo hanno effetto dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.

Recesso nei rapporti di lavoro: una questione delicata!

Il lavoro è sempre una questione delicata: ogni recesso, per non parlare dei licenziamenti o delle scadenze contrattuali, causano malcontenti se non da un lato, dall’altro. Per questo è sempre meglio affidarsi a un legale esperto che sappia consigliare al meglio le parti. Se ne hai bisogno rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti! 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Monica Bassan

fondo di garanzia

Fondo di garanzia INPS: cosa fare quando il datore di lavoro non paga lo stipendio?

Vi sono molteplici ragioni che possono portare un datore di lavoro, sia esso ditta individuale, società di persone o società di capitali, a non pagare le retribuzioni dovute ai propri dipendenti. In tali ipotesi, lo ricordiamo, il lavoratore può legittimamente rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa. Rimane, però, il problema della mancata corresponsione delle retribuzioni e, a seguito della cessazione del rapporto, del Trattamento di Fine Rapporto. Come fare, dunque, a recuperare queste somme? Esiste uno strumento a tutela del lavoratori come, ad esempio, un fondo di garanzia

Crediti con l’ex datore di lavoro: cosa conviene fare prima di cercare un fondo di garanzia?

Può darsi che il mancato versamento degli stipendi sia intenzionale, ossia dipenda da una decisione del datore di lavoro, che tuttavia avrebbe le risorse economiche per provvedere al pagamento del dovuto. Tuttavia, può anche accadere che il datore di lavoro non paghi le retribuzioni dovute ai propri dipendenti perché si trova in condizione di difficoltà economica, temporanea e risolvibile o, addirittura, tanto grave da poterlo portare al fallimento.

In ogni caso, quando il datore di lavoro non paga, la cosa migliore da fare è rivolgersi ad un avvocato, il quale si attiverà prontamente per assistervi nell’attività di recupero – anche forzoso – delle somme a Voi dovute.

E se non si riesce a recuperare nulla dal datore di lavoro?

Purtroppo può capitare che, persino con l’aiuto di un avvocato, non si riesca a recuperare le somme dal datore di lavoro. Questo, perché, ad esempio, il datore di lavoro, anche se economicamente benestante, non ha beni che possano essere facilmente aggrediti, cioè pignorati. Oppure, come già anticipato, può darsi che il datore di lavoro fosse in condizioni di dissesto finanziario e che, quindi, sia fallito. Ci si deve quindi rassegnare e rinunciare definitivamente alle retribuzioni e al TFR? Fortunatamente no, poiché in questi casi, molto più frequenti di quanto non si pensi, interviene l’INPS a tutela del lavoratore.   

Il Fondo di garanzia INPS

Esiste, infatti, un particolare strumento di tutela per il lavoratori del settore privato, compresi i lavoratori con la qualifica di apprendista, nonché i soci delle cooperative di lavoro: il Fondo di garanzia INPS. Il Fondo assicura ai lavoratori la corresponsione delle ultime tre mensilità di retribuzione, inclusi i ratei di tredicesima e quattordicesima, nonché del Trattamento di Fine Rapporto. Non vengono, invece, corrisposte dal Fondo le somme dovute a titolo di ferie e permessi non goduti e di indennità di mancato preavviso.

Dunque è possibile rivolgersi al Fondo anche in casi diversi dal fallimento o dalla liquidazione del datore di lavoro. Tuttavia, deve tenersi presente che il Fondo NON garantisce il pagamento automatico al lavoratore di tutto quanto non versato dal datore di lavoro, ma provvede a liquidare solo alcune somme specificamente indicate. Peraltro, al fine di ottenere dal Fondo il pagamento di quanto richiesto, è necessario allegare alla domanda una copiosa documentazione, che dimostri l’impossibilità di recuperare le retribuzioni non corrisposte direttamente dal datore di lavoro.

Come si accede al fondo di garanzia INPS?

La domanda può essere presentata soltanto tramite il portale dedicato, compilando ed inviando specifici moduli che variano a seconda dei casi e che devono essere debitamente compilati.

Il tuo attuale datore di lavoro non ti sta pagando oppure il precedente non ti ha versato le ultime retribuzioni e/o il TFR? 

Temi che il tuo datore di lavoro fallirà a breve oppure ti è già stato comunicato l’avvio della procedura di liquidazione? Non aspettare, contatta il nostro studio! Ti seguiremo passo passo nell’intera procedura di recupero del credito, fino alla liquidazione delle somme da parte del Fondo di garanzia INPS! Tutela i tuoi diritti!

come cambia la negoziazione assistita

Come cambia la negoziazione assistita in materia familiare alla luce della Riforma Cartabia.

La legge, lo sappiamo, è in costante evoluzione. Per questo restare aggiornati è fondamentale, e non sarebbe, questo, un canale divulgativo serio se non dessimo conto, seppur per somme righe, di come si evolvano argomenti di cui abbiamo già trattato. Il motore di un profondo cambiamento è stata la riforma Cartabia, vediamo quindi come cambia la negoziazione assistita in materia familiare.

Già si è avuto modo di parlare della Negoziazione assistita in materia di famiglia, introdotto nel nostro ordinamento con la legge 162/2014. La cosiddetta Riforma Cartabia, con finalità ancora una volta deflattive del carico giudiziario, ha introdotto importanti modifiche che in maniera sommaria si vanno ad enucleare.

Parificazione tra figli nati all’interno del matrimonio e i figli nati da coppie non sposate

E’ stata estesa la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita anche nelle ipotesi di affidamento e mantenimento dei figli di coppie non sposate. In passato, infatti, era possibile ricorre a questo tipo di procedura solo in caso di separazione, divorzio o modifica delle condizioni di separazione e divorzio, e quindi creando una ingiusta ed ingiustificata disparità per i figli nati al di fuori del matrimonio. Si riconosce, quindi, alla Riforma il merito di aver rimediato a tale discriminazione portando  alla piena parificazione i figli delle coppie sposate da quelle non sposate. . 

Riconosciuta la possibilità al figlio maggiorenne di instaurare il procedimento negoziale.

La riforma, tuttavia, fa di più, permettendo altresì al figlio maggiorenne ma non economicamente autosufficiente di instaurare il procedimento negoziale nei confronti dei genitori ai fini del mantenimento.

Come cambia la negoziazione assistita: assegno alimentare per le coppie di fatto e unioni civili

Altro passo avanti che si riconosce alla riforma è la circostanza che con la modifica apportata all’art. 6  della legge 162/2014 si ammette la negoziazione assistita anche per determinare gli alimenti della previsione di cui all’art. 433 c.c. .Se ne deve dedurre che potranno ricorrere alla negoziazione assistita ai fini della richiesta degli alimenti anche le coppie di fatto e chi è unito civilmente.

Una tantum

Una previsione che può essere salutata con favore, anche se crea ulteriori questioni in merito alla responsabilità affidata ai legali, è quella relativa alla possibilità che in sede divorzile sia possibile prevede la corresponsione di una somma in un’unica soluzione alla parte economicamente più debole, c.d.. una tantum. L’accettazione dell’una tantum da parte del percipiente permette di “liberare” la parte che la eroga da ulteriori incombenze. Il vulnus della previsione è la circostanza che i legali che seguono le parti devono valutare l’equità della somma erogata, svolgendo quindi, un ruolo che confligge con la caratteristica primaria c del legale che è quello di tutelare il proprio assistito.. Vista la responsabilità attribuita al legale in tale frangente si consiglia di redigere un atto scritto contenete le valutazioni dei legali in merito alla cifra erogata e giustificazione dell’equità della somma.

 Come cambia la negoziazione assistita nei trasferimenti immobiliari

La riforma, tuttavia, in maniera chiara attribuisce ai trasferimenti immobiliari che si svolgono in sede di negoziazione solo effetti obbligatori, in pratica sarà poi necessario un ulteriore passaggio dal notaio per poter rendere effettivo il trasferimento. Questa previsione collide con quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazione che ha stabilito la possibilità di andare direttamente a trascrivere l’atto di cessione di immobile o altro diritto reale avvenuta nel orso del procedimento di separazione o divorzio avanti al Giudice. Ne consegue che qualora le parti vogliano operare un trasferimento immobiliare all’interno della separazione o divorzio, ove vogliano risparmiare l’intervento del Notaio, sarà preferibile agire in via giudiziale.

Il Patrocinio a spese dello Stato nella negoziazione assistita

Altra occasione persa dalla Riforma è la possibilità di prevedere di accedere alla procedura di negoziazione mediante il patrocinio a spese dello Stato.  Poiché , infatti, la legge ha espressamente attribuito tale possibilità ai casi di mediazione e negoziazione assistita obbligatoria, non rientrando la negoziazione familiare nella materia obbligatoria, è escluso che chi vi accede possa farlo avvalendosi del patrocinio a Spese dello Stato. In tal modo chi ha diritto al beneficio dovrà e preferirà adire il Tribunale in tal tipo di controversie. 

Ulteriori oneri a carico dei legali.

Come si era ampiamente esposto nel primo excursus riguardante la negoziazione assistita in materia familiare , sono previsti a carico dei legali degli oneri che arrivano, in caso di inottemperanza del rispetto dei termini, per altro stringenti, ad una sanzione pecuniaria. A questi oneri la Riforma ne aggiunge altri, sempre con cadenza di tempi alquanto serrati che mettono il legale negoziatore in una situazione di grande responsabilità alla quale dovrà corrispondere un equo compenso.

Come cambia la negoziazione assistita in materia di famiglia: solo uno dei molti effetti della riforma Cartabia

Restare aggiornati su come cambi la legge non è facile: capita a volte di pensare di avere delle possibilità che, in realtà, non abbiamo più, o di non averne laddove la legge, oggi, ce le garantisce. Dunque qual è la soluzione? Semplice: affidati a un professionista. Se ne hai bisogno, il nostro studio è a tua disposizionetutela i tuoi diritti!

lavoro subordinato

Lavoro subordinato: la forma più diffusa in assoluto

I rapporti di lavoro possono distinguersi in rapporti di lavoro autonomo e di lavoro dipendente. Spesso però, è un altro nome che risuona, tanto da essere onnipresente non solo nella cronaca, ma anche nella vita quotidiana della maggior parte dei lavoratori italiani. Parliamo, ovviamente, del lavoro subordinato.

Si parla di lavoro autonomo quando il lavoratore gestisce da solo ogni aspetto della sua attività, dai rapporti con la committenza all’organizzazione del lavoro, dalla fatturazione alla gestione dei progetti. Ma quando, in effetti, possiamo attribuire a un rapporto i connotati di lavoro subordinato?

Lavoro subordinato: facciamo chiarezza

Contrariamente al lavoro autonomo, si parla di lavoro dipendente o, meglio, di lavoro subordinato, quando il lavoratore, in cambio di una retribuzione, si impegna a svolgere la propria attività alle dipendenze del datore di lavoro. Diversamente che nel lavoro autonomo, quindi, l’attività di lavoro è svolto alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto, il datore di lavoro, a cui compete l’organizzazione dell’attività, nonché il rischio economico che dall’attività stessa deriva.

Con il contratto di lavoro subordinato, insomma, si realizza uno scambio tra le parti. Da un lato il dipendente si impegna a mettere le proprie energie lavorative e la propria competenza a disposizione del datore di lavoro, nonché a dipendere da lui nell’esecuzione del lavoro e a sottostare alla sua direzione. Dall’altro lato, il datore di lavoro si obbliga a pagare al lavoratore la retribuzione che gli compete.

Quindi un rapporto subordinato è sottoposto a una serie di vincoli

In effetti, comunemente si dice che il lavoratore dipendente è sottoposto al  cosiddetto vincolo di subordinazione. Per capire se vi sia o meno tale vincolo e, dunque, stabilire se il lavoratore sia effettivamente un dipendente, bisogna verificare le modalità di svolgimento del rapporto stesso.

Se, infatti, il lavoratore è soggetto al potere direttivo, organizzativo, disciplinare e di controllo di un datore di lavoro, ed è inserito stabilmente all’interno dell’organizzazione dell’impresa, senza assumersi il cosiddetto rischio di impresa, allora il rapporto di lavoro sarà di tipo subordinato.

Al contrario, il lavoratore autonomo si obbliga a compiere un’opera o un servizio, verso corrispettivo e con lavoro prevalentemente proprio, ma “senza vincolo di subordinazione”. Per tale ragione, non si può dire che Egli abbia un datore di lavoro, ma soltanto clienti o committenti.

Il diritto del lavoro è sempre complicato, e nessuna controversia va affrontata in autonomia!

Il lavoro è un diritto e un dovere di ogni cittadino, e proprio perché è qualcosa di così importante, non è mai il caso di affrontare controversie o rapporti lavorativi senza l’appropriata assistenza. Sia che tu sia un datore di lavoro che tu sia un lavoratore, sia che tu voglia dirimere controversie che avviare un proficuo rapporto di lavoro, rivolgiti al nostro studio per avere assistenza. Tutela i tuoi diritti!

recesso anticipato

Recesso anticipato dal contratto di lavoro a termine

In tempi simili, trovare un lavoro è davvero complicato, e, anche nel momento in cui lo si trova, non è detto che le condizioni siano stabili. I contratti a tempo determinato sono all’ordine del giorno, e non offrendo condizioni ideali moltissime persone continuano la ricerca di un lavoro migliore pur lavorando già con contratto a termine. E nel caso lo si trovi? Esiste la possibilità di recesso anticipato da un contratto di lavoro a termine?

Un lavoratore può recedere anticipatamente da un contratto di lavoro a termine?

La disciplina dell’istituto del preavviso, regolata dall’articolo 2118 del codice civile, prevede espressamente la possibilità, di ciascuno dei contraenti, di recedere dal contratto di lavoro, dando il preavviso, nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità, soltanto per i contratti di lavoro a tempo indeterminato.

La clausola di recesso anticipato, del rapporto di lavoro, con contestuale preavviso scritto a mezzo lettera raccomandata, nei termini previsti dai propri Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro applicabile al settore lavorativo di appartenenza, può, pertanto, operare solo per i contratti a tempo indeterminato e non può essere applicata, pur se inserita volontariamente e consensualmente dalle parti, per i contratti a tempo determinato.

Questo discende dalla logica del contratto di lavoro a termine: un contratto di lavoro voluto dalle parti con una determinata scadenza significa che entrambi hanno interesse a che il lavoro continui almeno fino a quella data!

In caso di recesso anticipato dal contratto a termine si deve dare il preavviso?

Occorre ricordare che, alla fattispecie in esame, non si applicano le norme sul preavviso, poiché si ritiene che le parti siano a conoscenza, sin dall’inizio, della naturale scadenza originariamente pattuita.

Cosa succede se il lavoratore recede dal contratto prima della sua scadenza?

Nel caso di recesso anticipato dal contratto di lavoro a tempo determinato, senza giusta causa, è possibile che il datore di lavoro richieda i danni al prestatore di lavoro.

Secondo la giurisprudenza consolidata, la parte che recede – fuori dai casi che vedremo che sono legittimi – sarà obbligata a risarcire il danno, che di norma il giudice liquida in via equitativa, quantificabile nelle retribuzioni che intercorrono tra la data del recesso e la scadenza del termine inizialmente fissato, salvo che non si provi il maggior danno.

In caso di recesso anticipato del lavoratore, in effetti, il datore di lavoro perde sia la forza lavoro, ossia il lavoratore di cui aveva bisogno fino alla data concordata ma potrebbe avere ulteriori danni quali ad esempio un ritardo nelle commesse e nei lavori assunti per conto terzi, una interruzione in una catena di lavorazione, oppure avere dei costi per la ricerca di personale sostitutivo oppure non riuscire a trovare un idoneo sostituto (pensiamo al caso ad esempio dell’unico cuoco in una cucina di un ristorante…)

Le ipotesi di danno potrebbero essere molteplici. Pertanto, è necessario poter valutare la condotta del prestatore di lavoro, per capire se possa sussistere la possibilità di una richiesta da parte del datore di lavoro, di risarcimento danni, causati dallo stesso lavoratore all’azienda, in relazione al recesso anticipato dal contratto di lavoro.

Ci sono delle ipotesi legittime di chiusura anticipata del rapporto di lavoro a tempo determinato?

Ovviamente ci sono dei casi in cui il lavoratore può recedere anticipatamente dal contratto a tempo determinato. Il primo caso è quando ci sia una giusta causa, ossia una ragione grave che non consenta la prosecuzione neanche temporanea del rapporto di lavoro. La seconda ipotesi è quando ci sia una risoluzione per mutuo consenso, ossia quando entrambe le parte sono concordi nel chiudere prima il rapporto di lavoro. L’ultima ipotesi è quando per impossibilità sopravvenuta della prestazione non è possibile continuare il rapporto di lavoro

Un recesso anticipato non è un problema, se si è seguiti da un professionista

Nel diritto del lavoro è veramente facile fare qualche azione avventata, violare inconsapevolmente qualche clausola contrattuale o affrontare una situazione con ingenua leggerezza. Per evitare problemi la cosa migliore è sempre farsi seguire da un professionista: se ne hai bisogno rivolgiti al nostro studio, tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan