part time

Part time o full time: l’orario di lavoro nei contratti

In un momento storico in cui le regole relative ai rapporti di lavoro si moltiplicano, si corre il rischio di non prestare adeguata attenzione ad alcuni aspetti fondamentali dei contratti di lavoro che si vanno a firmare. In alcuni casi si può persino rischiare di non soffermarsi sulle clausole – a dire il vero non sempre chiare – relative all’orario di lavoro, soprattutto quando si tratta di lavoro part time.

Non è mai una brutta idea, quindi, ritornare a dare uno sguardo a cosa dice la legge.

In un momento storico in cui le regole relative ai rapporti di lavoro si moltiplicano, si corre il rischio di non prestare adeguata attenzione ad alcuni aspetti fondamentali dei contratti di lavoro che si vanno a firmare. In alcuni casi si può persino rischiare di non soffermarsi sulle clausole – a dire il vero non sempre chiare – relative all’orario di lavoro!

Non è mai una brutta idea, quindi, ritornare a dare uno sguardo a cosa dice la legge.

Contratti di lavoro full time o part time: come si distinguono?

contratti di lavoro si distinguono, oltre che in base alla loro durata, a tempo indeterminato o determinato, in base all’orario: a tempo pieno o parziale.

Di regola, se il contratto non prevede esplicitamente qualcosa di diverso, l’orario di lavoro è pieno. Ciò significa che, di norma, il lavoratore dipendente è tenuto a prestare la sua attività per un numero di ore pari a 40 settimanali, distribuite su 5 o 6 giorni.

In alcuni casi, tuttavia, il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, o CCNL, applicato dal datore di lavoro può prevedere un numero di ore settimanali superiore o inferiore.

In ogni caso, l’orario di lavoro svolto oltre il limite settimanale stabilito dal CCNL applicato in azienda dovrà considerarsi straordinario e, quindi, dovrà essere retribuito in misura maggiore, sempre in conformità a quanto previsto dal CCNL.

Contratti di lavoro a tempo pieno o parziale: una netta distinzione.

Se il contratto a tempo pieno è la regola, il contratto a tempo parziale è l’eccezione. Ciò significa che un dipendente potrà lavorare per un orario ridotto rispetto a quello normale previsto dal CCNL soltanto se ciò è espressamente previsto nel contratto di lavoro.

Non solo! Nel contratto di lavoro a tempo parziale, infatti, devono essere stabilite sia la durata della prestazione, sia la collocazione temporale con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno.

Cosa sta a significare?

Che nel documento sottoscritto al momento dell’assunzione dovranno essere indicati in modo chiaro e specifico:

  • il numero di ore di lavoro previste per ogni settimana;
  • i giorni di lavoro, dal lunedì alla domenica;
  • il numero di ore da svolgere in ogni giorno della settimana;
  • quando le ore di lavoro devono essere svolte durante ogni giornata.

Per esempio, in caso di contratto di lavoro di 24 ore settimanali, potrà essere previsto che i giorni lavorativi vadano dal lunedì al sabato, che il lunedì, mercoledì e venerdì, il dipendente lavori dalle 9 alle 12 e che il martedì, giovedì e sabato, lavori dalle 14 alle 19.

Quanto previsto nel contratto vincola il lavoratore, ma anche il datore di lavoro, che non potrà variare di volta in volta l’orario in base alle esigenze variabili dell’azienda.

I contratti part time possono godere di una certa flessibilità

Ci sono però strumenti che consentono di aumentare la flessibilità di questo tipo di contratto: le clausole elastiche, flessibili o entrambe.

Le clausole elastiche consentono al datore di lavoro di variare in aumento la prestazione lavorativa e quindi di aumentare le ore di lavoro settimanali.

Le clausole flessibili consentono la variazione della collocazione temporale della prestazione stessa e quindi permettono al datore di lavoro di chiedere al dipendente di prestare attività in giorni ed ore diversi rispetto a quelli specificati nel contratto.

Tutte le variazioni devono però essere comunicate al lavoratore con almeno due giorni di preavviso.

Attività di lavoro oltre l’orario stabilito: è possibile?

In ogni caso, il lavoratore a tempo parziale può sempre svolgere attività di lavoro oltre l’orario pattuito.

È infatti consentito lo svolgimento di lavoro supplementare, ossia di attività di lavoro che va oltre il numero di ore previsto nel contratto, ma è comunque entro il limite dell’orario normale di 40 ore settimanali.

Tuttavia, è bene precisarlo, il lavoro supplementare non può essere svolto sistematicamente, ma deve rispondere ad esigenze straordinarie ed eccezionali del datore di lavoro. Se, infatti, lo svolgimento di lavoro supplementare diviene la regola, allora il dipendente potrà avanzare legittime pretese di rivedere il proprio orario di lavoro.

Consentito, anche nel contratto di lavoro part time, è pure lo svolgimento di lavoro straordinario, ossia quello svolto oltre le 40 ore settimanali.

In entrambi i casi, sia per il lavoro supplementare, sia per il lavoro straordinario, al dipendente spetta una retribuzione oraria maggiorata.

È quindi sempre bene prestare attenzione alla busta paga, per verificare che la retribuzione sia corretta!

Conversione da full time a part time e viceversa: si può fare?

Un passaggio da full time a part time è possibile, a patto che ci sia accordo delle parti e che questo sia testimoniato da un atto scritto. Questo significa che una simile variazione non può esser unilateralmente imposta dal datore di lavoro. Allo stesso modo, è ammessa variazione da part time a full time.

Un eventuale rifiuto del dipendente alla variazione, in un senso o nell’altro, non costituisce legittimo motivo di licenziamento.

In alcuni casi eccezionali è persino riconosciuto al lavoratore il diritto ad ottenere la riduzione, pur non sussistendo l’accordo con il datore di lavoro. Ciò accade, ad esempio, per le lavoratrici madri o i lavoratori affetti da patologie oncologiche o altre patologie gravi.

Il diritto del lavoro è una materia complessa, ma regola molti aspetti della nostra vita quotidiana, con conseguenze anche incisive sugli interessi immediati di chiunque. Le controversie sono all’ordine del giorno, per questo conviene sempre avere modo di consultare un legale. Se hai bisogno di assistenza per questioni lavorative contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

lavoratrice madre

Lavoratrice madre: quali tutele?

La festa della mamma sarà il prossimo 14 maggio. Non esiste dunque momento migliore di questo per approfondire, dopo esserci occupati in generale del congedo parentale, un argomento tanto importante: le tutele riconosciute alla lavoratrice madre.

Tutele per la lavoratrice madre: la base costituzionale

L’articolo 37 della Costituzione, al primo comma, stabilisce che

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”.

Ora, tale disposizione di legge potrebbe sembrare anacronistica, specie nella parte in cui fa riferimento alla “essenziale funzione familiare” della donna. Tuttavia, questa norma costituzionale ha una fondamentale importanza, in quanto prevede espressamente che alla madre lavoratrice e al bambino debba essere riservata una particolare tutela.

Congedo obbligatorio per la lavoratrice madre

L’art.16 D. Lgs. 151/2001 sancisce il divieto di adibire la donna al lavoro nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi alla data effettiva del parto.

La lavoratrice è tenuta ad informare tempestivamente il datore di lavoro ed entro quindici giorni deve produrre il certificato medico attestante il mese di gravidanza e la data presunta del parto, al fine di consentire al datore di lavoro di prendere gli opportuni provvedimenti: valutare la compatibilità delle mansioni svolte dalla lavoratrice e, in caso di necessità, adibire la stessa a una diversa mansione.

Due mesi prima della data presunta del parto la lavoratrice dovrà consegnare al datore di lavoro e all’INSP un certificato medico indicante la data presunta del parto. Successivamente, una volta nato il bambino, la lavoratrice dovrà presentare entro trenta giorni il certificato di nascita.

Flessibilità del congedo obbligatorio

È prevista la possibilità di usufruire della flessibilità del congedo, ossia la possibilità di astenersi dal lavoro a partire da un mese prima la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi, ferma restando la durata complessiva del congedo di cinque mesi.

La flessibilità del congedo deve essere richiesta dalla lavoratrice madre entro la fine del settimo mese di gravidanza, a condizione che non vi sia stato un provvedimento di interdizione anticipata. La richiesta deve essere corredata da apposita certificazione che attesti che la gravidanza è fisiologica, che le mansioni svolte e l’ambiente di lavoro non sono pregiudizievoli, né vi sono controindicazioni derivanti dalle modalità di raggiungimento del luogo di lavoro. In ogni caso, la richiesta può essere presentata soltanto se la lavoratrice non svolge lavori pericolosi, faticosi o insalubri.

Interdizione anticipata

Dall’inizio della gravidanza e fino a sette mesi di età del bambino è vietato adibire le lavoratrici al lavoro notturno, al trasporto e al sollevamento di pesi e, comunque, a lavori pericolosi, faticosi e insalubri.

Qualora la lavoratrice non possa essere adibita ad altre mansioni e, comunque, in presenza di condizioni di lavoro non adeguate, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro potrà disporre l’interdizione anticipata dal lavoro, prorogabile sino a sette mesi dopo il parto.

Diversamente, se il rischio deriva da complicanze della gravidanza, l’interdizione anticipata è disposta su indicazione del medico e fino all’inizio del periodo di congedo obbligatorio.

Riposi giornalieri per la lavoratrice madre

Nel corso del primo anno di vita del bambino alla lavoratrice madre vengono riconosciuti particolari riposi orari per all’allattamento, della durata di una o due ore al giorno a seconda della durata dell’orario contrattuale.

Licenziamento e dimissioni

Dall’inizio della gravidanza e fino ad un anno di vita del bambino vige non è possibile il licenziamento della lavoratrice madre; ciò implica che il licenziamento, se intimato, dovrà considerarsi nullo.

È invece sempre possibile per la lavoratrice madre rassegnare le dimissioni; tuttavia, se rassegnate nel periodo che va dall’inizio della gravidanza sino ai tre anni di età del bambino, esse dovranno essere convalidate da parte dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. È bene precisare che queste tutele si estendono anche al padre lavoratore.

Per la lavoratrice madre le tutele sono molte, ma occorre conoscerle!

Un articolo come questo non basta! Esistono figure professionali specializzate nel tutelare i dei lavoratori e le lavoratrici, fornendo loro assistenza. Se hai bisogno di aiuto per questioni lavorative, non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

contratto a tempo determinato

Contratto a tempo determinato: ormai una prassi nel mondo del lavoro

Da decenni, ormai, il mondo del lavoro va complicandosi. Non si arricchisce solo di nuove professionalità, ma anche di nuove forme contrattuali, che offrono ai lavoratori più o meno tutele e ai datori di lavoro più o meno garanzie. Ci siamo già occupati, in altri articoli, sia della differenza tra lavoro autonomo e lavoro subordinato sia del tirocinio o stage. Con l’articolo di oggi continuiamo a parlare di contratti di lavoro, prendendo in esame il contratto a tempo determinato o a termine, una delle forme contrattuali più utilizzate al giorno d’oggi.

Cosa si intende quando si parla di contratto a tempo determinato?

Innanzitutto, il contratto di lavoro a tempo determinato fa sorgere un rapporto di lavoro subordinato.

La caratteristica che contraddistingue il contratto di lavoro a termine è la sua durata predeterminata nel tempo. Infatti, nel contratto che si sottoscrive al momento dell’assunzione, deve essere sempre specificata non solo la data in cui il rapporto di lavoro ha inizio, ma anche quella in cui esso avrà fine. Salvo eccezioni, poi, il rapporto si estinguerà automaticamente alla scadenza indicata. Dunque, la distinzione principale tra contratto a tempo indeterminato e determinato sta proprio nell’esistenza o meno di un termine finale.

La precarietà dei rapporti di lavoro a termine

Già da quanto detto finora risulta evidente che il contratto di lavoro a tempo determinato dà minori garanzie al lavoratore. Il neoassunto, infatti, si trova in una condizione di precarietà: il rapporto di lavoro che si viene a costituire non è stabile nel tempo.

Per tale ragione, questa tipologia di contratto è stata per lungo tempo malvista dal Legislatore e il suo utilizzo era consentito soltanto in via del tutto eccezionale. Tuttavia, nel tempo è emersa, parallelamente all’esigenza di tutelare i lavoratori, anche quella di sostenere le imprese, fornendo loro strumenti che ne aumentassero la competitività. Negli anni, dunque, si è compreso che il lavoro a tempo determinato, il cosiddetto lavoro “flessibile”, è un elemento fisiologico del mercato del lavoro. Questo perché consente di ridurre il costo del lavoro che le imprese si trovano a dover sostenere. Questa consapevolezza acquisita si è tradotta, nell’ultimo ventennio, in una serie di interventi legislativi volti a regolamentare, e non più a limitare, l’utilizzo dei contratti di lavoro a tempo determinato.

Ma come funziona il contratto a tempo determinato?

Secondo la legislazione vigente, il contratto di lavoro a termine deve essere stipulato per iscritto, salvo che abbia durata inferiore ai 12 giorni; in mancanza di un documento scritto, il contratto si intende stipulato a tempo indeterminato.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’art. 19, D. Lgs. n. 81/2015, come modificato dal D.L. 87/2018, tendenzialmente non può avere durata superiore a 12 mesi.

È possibile aumentare la durata massima del contratto sino a 24 mesi, ma soltanto in presenza di una delle seguenti condizioni o causali, che devono essere espressamente indicate:

  • esigenze aziendali temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ossia non rientranti in quella tipicamente svolta dall’azienda;
  • specifiche esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
  • determinate esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria, che dunque non possono essere affrontati con il personale in forze;
  • specifiche esigenze previste dai contratti collettivi.

Prosecuzione oltre il termine: proroga o rinnovo?

Quando il contratto giunge al termine stabilito, come già detto, esso scade automaticamente. Tuttavia, è consentito proseguire il rapporto di lavoro in essere per un ulteriore periodo di tempo, in due modi: con la proroga o con il rinnovo del contratto.

PROROGA

In caso di proroga il rapporto non si interrompe, ma continua senza soluzione di continuità per un periodo ulteriore di volta in volta stabilito.

Attenzione però: il termine non può essere prorogato all’infinito, ma soltanto fino ad un massimo di quattro volte. Inoltre, mentre nei primi dodici mesi del rapporto la proroga è libera, superati i dodici mesi nella comunicazione di proroga devono anche essere specificate le condizioni o causali di cui all’art. 19.

RINNOVO

Oltre a poter essere prorogato, il contratto a termine può anche essere rinnovato.

La differenza tra proroga e rinnovo consiste nel fatto che in questo secondo tra il primo contratto e il suo rinnovo decorre un certo lasso di tempo, mai inferiore a dieci giorni.

Anche per il rinnovo del contratto sono previsti alcuni limiti. Il contratto a termine, infatti, può essere rinnovato solo in presenza delle già richiamate causali e, comunque, per un periodo complessivo non superiore a 24 mesi.

Sei certo che il tuo contratto a tempo determinato sia corretto?

Il diritto del lavoro è una materia davvero complicata e ricca di sfaccettature, lo sappiamo! Per questo, sia che tu sia un lavoratore che teme che il suo contratto non sia corretto, sia che tu sia un datore di lavoro che vuole predisporre i contratti di lavoro nel modo migliore, è bene che tu ti rivolga ad un legale.

Se hai bisogno di assistenza da parte di un avvocato contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

tirocinio

Tirocinio: una porta aperta sul mondo del lavoro

Spesso, purtroppo, sentiamo parlare di incidenti sul lavoro nei quali sono coinvolti giovani tirocinanti. Allora l’opinione pubblica si indigna, gli studenti protestano e molti insistono per una riforma delle norme sul tirocinio o stage.

Ma quanto ne sappiamo davvero di questo istituto che, seppur controverso, costituisce un‘importante fase del percorso di ingresso nel mondo del lavoro? Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta!

Tirocinio e stage sono la stessa cosa? 

A questa domanda possiamo rispondere semplicemente di sì: stage e tirocinio sono in effetti la stessa cosa. Nessuno dei due, però, è un rapporto di lavoro!

Cosa si intende con il termine “tirocinio”?

Il tirocinio, poi, si divide a sua volta in tre categorie: curricolare, non curricolare e per studenti universitari. 

Parliamo di tirocini curricolari intendendo tirocini inclusi nel piano di studi scolastico o universitario, il cui scopo è affinare il processo formativo grazie a un’esperienza pratica. È questo il caso dell’alternanza scuola-lavoro, di cui tanto si sente parlare ultimamente.

Il tirocinio non curricolare, invece, è rivolto a neo diplomati o neo laureati. Questa tipologia di tirocinio, infatti, dovrebbe rendere più facili le scelte professionali di chi abbia completato un ciclo di studi. Allo stesso tempo, possono accedere a questa tipologia di stage anche coloro che appartengono a una fascia debole, come ad esempio i disoccupati, allo scopo di acquisire una specifica professionalità.

Infine, vi è il tirocinio per studenti universitari, destinato a persone che stanno portando avanti un percorso formativo universitario ed attivato dall’Università stessa. È inteso a favorire l’occupazione degli studenti, si appoggia a enti pubblici o privati e ha una durata di minimo tre mesi. 

Chi stabilisce le regole dei tirocini?

La disciplina dei tirocini è competenza delle Regioni o delle Province autonome, nel rispetto delle “Linee guida in materia di tirocini” stabilite dalla Conferenza Stato Regioni nel 2013, aggiornate poi nel 2017.

Le Linee Guida, però, si occupano soltanto della materia dei tirocini extracurriculari, per quanto riguarda l’inserimento lavorativo o l’orientamento. 

Queste Linee Guida stabiliscono le regole basilari dell’istituto del tirocinio. 

Innanzitutto la durata, che, tendenzialmente, va dai 2 ai 12 mesi. In questo periodo non viene computata, però, l’eventuale sospensione per maternità, per infortunio o per chiusura aziendale. 

Le Linee Guida prevedono poi che debbano esistere sia un soggetto promotore sia un soggetto ospitante. Il primo soggetto promuove e attiva il tirocinio, monitorando la realizzazione degli obiettivi formativi.

L’altro soggetto, l’ospitante, ospita, appunto, il tirocinante: si tratta infatti del soggetto presso il quale si svolge il tirocinio, che deve essere in regola con le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e che, oltre a dover assicurare la realizzazione del tirocinio, deve garantire un’adeguata informazione e formazione in materia di salute e sicurezza. Sempre l’ospitante deve farsi carico della sorveglianza sanitaria e mettere a disposizione del tirocinante attrezzature ed equipaggiamenti. 

In ogni caso, promotore e ospitante sono tenuti a stupulare una convenzione di tirocinio, nel quale vengono specificati, tra le altre cose, gli obblighi di entrambi i soggetti e la durata complessiva del tirocinio.

Alla convenzione deve sempre essere allegato il piano formativo individuale, o PFI, che contiene l’indicazione degli obiettivi formativi da raggiungere nel corso del periodo di tirocinio.

Lo svolgimento dell’attività da parte del tirocinante è sorvegliato da due tutor, uno presente presso il promotore e uno presso l‘ospitante. Particolarmente importante è il ruolo del tutor presso il soggetto ospitante: Egli, infatti, deve affiancare il tirocinante sul luogo di lavoro e deve avere competenze adeguate a garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti nel PFI.

Si tratta di un rapporto retribuito è retribuito?

Per chi svolge il tirocinio non è prevista alcuna retribuzione.

Tuttavia, nelle Linee Guida si prevede l’obbligo di corrispondere al tirocinante una indennità, tendenzialmente non inferiore ai 300 euro mensili. 

Quando non è possibile avviare un tirocinio? 

Il tirocinio ha natura formativa e, di conseguenza, non può essere utilizzato per far fronte a temporanee necessità aziendali. Dunque,ad esempio, non potrà essere utilizzato per sostituire altri lavoratori assenti per ferie, malattia o maternità.

Non è inoltre possibile avviare un periodo di tirocinio con un soggetto che abbia già lavorato per il soggetto ospitante nei due anni precedenti o che abbia già fatto altri tirocini presso lo stesso soggetto. Spesso, purtroppo, il tirocinio viene utilizzato in maniera scorretta,per mascherare un vero e proprio rapporto di lavoro.

Sei sicuro di essere parte di un rapporto di tirocinio regolare? Esserne sicuri è importante: contatta il nostro studio per saperne di più: tutela i tuoi diritti! 

congedo parentale

Il congedo parentale: un periodo per entrambi i genitori

Solitamente, quando si parla di gravidanze, parti, nascite e figli, si tende a parlare esclusivamente dei diritti riconosciuti alla lavoratrice madre. Giustamente, infatti, la prima preoccupazione è quella di consentire alla lavoratrice madre di poter conciliare al meglio la propria attività lavorativa e il suo essere madre. Per questo, come noto, esiste il congedo di maternità ordinario, comunemente detto “maternità obbligatoria”, che copre il periodo da due mesi prima del parto a tre mesi dopo il parto. È altresì noto che a questo primo periodo se ne può aggiungere un secondo, ulteriore, comunemente detto “maternità facoltativa”. Questa definizione, in realtà, è errata: oggi, infatti, si parla più genericamente di “congedo parentale”, trattandosi di periodo di astensione facoltativa dal lavoro di cui possono usufruire sia la lavoratrice madre sia il lavoratore padre.

Cos’è il congedo parentale?

Come anticipato, il congedo parentale è un periodo di tempo, diverso dalla cosiddetta “maternità obbligatoria”, durante il quale le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, con un rapporto di lavoro in corso, possono astenersi dal lavoro per prendersi cura dei figli. In particolare, il congedo può essere fruito dai genitori in maniera continuativa o frazionata, entro i primi 12 anni di vita del bambino. Peraltro, tale diritto è riconosciuto anche ai genitori adottivi o affidatari, entro i primi 12 anni dall’ingresso del minore nella famiglia, indipendentemente dall’età del bambino.

Quanto dura il periodo congedo parentale?

Il diritto all’astensione dal lavoro è riconosciuto per periodi in parte diversi alla lavoratrice madre e al lavoratore padre. La lavoratrice madre, infatti, ha diritto al congedo per un periodo massimo di sei mesi. Anche al lavoratore padre viene riconosciuto un periodo di congedo della durata di sei mesi, che, tuttavia, può essere elevato a sette mesi nel caso in cui il padre usufruisca di un periodo di congedo di almeno tre mesi.

I periodi di congedo potranno essere usufruiti dai genitori anche contemporaneamente e il lavoratore padre avrà diritto di astenersi dal lavoro a partire dal giorno successivo al parto, anche durante il periodo di astensione obbligatoria della madre. Nel complesso, in ogni caso, il periodo di congedo usufruito da entrambi i genitori non potrà superare i dieci mesi, elevabili a undici nel caso in cui, come anticipato, il lavoratore padre si astenga dal lavoro per almeno tre mesi, continuativi o frazionati. Il genitore solo, padre o madre, o affidatario in via esclusiva del figlio, avrà invece diritto al congedo per un periodo massimo di undici mesi

Quanto si percepisce durante il congedo parentale?

Durante il periodo di astensione dal lavoro, i genitori lavoratori dipendenti hanno diritto a percepire un’indennità pari al 30% della retribuzione. Tale indennità, tuttavia, non è riconosciuta per l’intero periodo di congedo, ma per un periodo complessivo massimo di nove mesi. Ciò, in quanto tanto alla madre quanto al padre spetta un periodo indennizzato di tre mesi ciascuno, a cui se ne aggiunge uno ulteriore, di altri tre mesi, che può essere usufruito alternativamente da un genitore o dall’altro.

Per i periodi di congedo superiori ai nove mesi, invece, l’indennità pari al 30% della retribuzione non sarà riconosciuta in automatico, ma soltanto qualora il reddito del genitore richiedente non superi un determinato limite. Resta inteso che tale indennità, corrisposta dall’INPS, per i lavoratori dipendenti viene anticipata dl datore di lavoro.

Rientra tutto nel mondo dei diritti dei lavoratori

Il congedo parentale è soltanto uno dei modi in cui il nostro ordinamento tutela le lavoratrici madri e i lavoratori padri. Vuoi saperne di più? Rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

fondo di garanzia

Fondo di garanzia INPS: cosa fare quando il datore di lavoro non paga lo stipendio?

Vi sono molteplici ragioni che possono portare un datore di lavoro, sia esso ditta individuale, società di persone o società di capitali, a non pagare le retribuzioni dovute ai propri dipendenti. In tali ipotesi, lo ricordiamo, il lavoratore può legittimamente rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa. Rimane, però, il problema della mancata corresponsione delle retribuzioni e, a seguito della cessazione del rapporto, del Trattamento di Fine Rapporto. Come fare, dunque, a recuperare queste somme? Esiste uno strumento a tutela del lavoratori come, ad esempio, un fondo di garanzia

Crediti con l’ex datore di lavoro: cosa conviene fare prima di cercare un fondo di garanzia?

Può darsi che il mancato versamento degli stipendi sia intenzionale, ossia dipenda da una decisione del datore di lavoro, che tuttavia avrebbe le risorse economiche per provvedere al pagamento del dovuto. Tuttavia, può anche accadere che il datore di lavoro non paghi le retribuzioni dovute ai propri dipendenti perché si trova in condizione di difficoltà economica, temporanea e risolvibile o, addirittura, tanto grave da poterlo portare al fallimento.

In ogni caso, quando il datore di lavoro non paga, la cosa migliore da fare è rivolgersi ad un avvocato, il quale si attiverà prontamente per assistervi nell’attività di recupero – anche forzoso – delle somme a Voi dovute.

E se non si riesce a recuperare nulla dal datore di lavoro?

Purtroppo può capitare che, persino con l’aiuto di un avvocato, non si riesca a recuperare le somme dal datore di lavoro. Questo, perché, ad esempio, il datore di lavoro, anche se economicamente benestante, non ha beni che possano essere facilmente aggrediti, cioè pignorati. Oppure, come già anticipato, può darsi che il datore di lavoro fosse in condizioni di dissesto finanziario e che, quindi, sia fallito. Ci si deve quindi rassegnare e rinunciare definitivamente alle retribuzioni e al TFR? Fortunatamente no, poiché in questi casi, molto più frequenti di quanto non si pensi, interviene l’INPS a tutela del lavoratore.   

Il Fondo di garanzia INPS

Esiste, infatti, un particolare strumento di tutela per il lavoratori del settore privato, compresi i lavoratori con la qualifica di apprendista, nonché i soci delle cooperative di lavoro: il Fondo di garanzia INPS. Il Fondo assicura ai lavoratori la corresponsione delle ultime tre mensilità di retribuzione, inclusi i ratei di tredicesima e quattordicesima, nonché del Trattamento di Fine Rapporto. Non vengono, invece, corrisposte dal Fondo le somme dovute a titolo di ferie e permessi non goduti e di indennità di mancato preavviso.

Dunque è possibile rivolgersi al Fondo anche in casi diversi dal fallimento o dalla liquidazione del datore di lavoro. Tuttavia, deve tenersi presente che il Fondo NON garantisce il pagamento automatico al lavoratore di tutto quanto non versato dal datore di lavoro, ma provvede a liquidare solo alcune somme specificamente indicate. Peraltro, al fine di ottenere dal Fondo il pagamento di quanto richiesto, è necessario allegare alla domanda una copiosa documentazione, che dimostri l’impossibilità di recuperare le retribuzioni non corrisposte direttamente dal datore di lavoro.

Come si accede al fondo di garanzia INPS?

La domanda può essere presentata soltanto tramite il portale dedicato, compilando ed inviando specifici moduli che variano a seconda dei casi e che devono essere debitamente compilati.

Il tuo attuale datore di lavoro non ti sta pagando oppure il precedente non ti ha versato le ultime retribuzioni e/o il TFR? 

Temi che il tuo datore di lavoro fallirà a breve oppure ti è già stato comunicato l’avvio della procedura di liquidazione? Non aspettare, contatta il nostro studio! Ti seguiremo passo passo nell’intera procedura di recupero del credito, fino alla liquidazione delle somme da parte del Fondo di garanzia INPS! Tutela i tuoi diritti!

lavoro subordinato

Lavoro subordinato: la forma più diffusa in assoluto

I rapporti di lavoro possono distinguersi in rapporti di lavoro autonomo e di lavoro dipendente. Spesso però, è un altro nome che risuona, tanto da essere onnipresente non solo nella cronaca, ma anche nella vita quotidiana della maggior parte dei lavoratori italiani. Parliamo, ovviamente, del lavoro subordinato.

Si parla di lavoro autonomo quando il lavoratore gestisce da solo ogni aspetto della sua attività, dai rapporti con la committenza all’organizzazione del lavoro, dalla fatturazione alla gestione dei progetti. Ma quando, in effetti, possiamo attribuire a un rapporto i connotati di lavoro subordinato?

Lavoro subordinato: facciamo chiarezza

Contrariamente al lavoro autonomo, si parla di lavoro dipendente o, meglio, di lavoro subordinato, quando il lavoratore, in cambio di una retribuzione, si impegna a svolgere la propria attività alle dipendenze del datore di lavoro. Diversamente che nel lavoro autonomo, quindi, l’attività di lavoro è svolto alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto, il datore di lavoro, a cui compete l’organizzazione dell’attività, nonché il rischio economico che dall’attività stessa deriva.

Con il contratto di lavoro subordinato, insomma, si realizza uno scambio tra le parti. Da un lato il dipendente si impegna a mettere le proprie energie lavorative e la propria competenza a disposizione del datore di lavoro, nonché a dipendere da lui nell’esecuzione del lavoro e a sottostare alla sua direzione. Dall’altro lato, il datore di lavoro si obbliga a pagare al lavoratore la retribuzione che gli compete.

Quindi un rapporto subordinato è sottoposto a una serie di vincoli

In effetti, comunemente si dice che il lavoratore dipendente è sottoposto al  cosiddetto vincolo di subordinazione. Per capire se vi sia o meno tale vincolo e, dunque, stabilire se il lavoratore sia effettivamente un dipendente, bisogna verificare le modalità di svolgimento del rapporto stesso.

Se, infatti, il lavoratore è soggetto al potere direttivo, organizzativo, disciplinare e di controllo di un datore di lavoro, ed è inserito stabilmente all’interno dell’organizzazione dell’impresa, senza assumersi il cosiddetto rischio di impresa, allora il rapporto di lavoro sarà di tipo subordinato.

Al contrario, il lavoratore autonomo si obbliga a compiere un’opera o un servizio, verso corrispettivo e con lavoro prevalentemente proprio, ma “senza vincolo di subordinazione”. Per tale ragione, non si può dire che Egli abbia un datore di lavoro, ma soltanto clienti o committenti.

Il diritto del lavoro è sempre complicato, e nessuna controversia va affrontata in autonomia!

Il lavoro è un diritto e un dovere di ogni cittadino, e proprio perché è qualcosa di così importante, non è mai il caso di affrontare controversie o rapporti lavorativi senza l’appropriata assistenza. Sia che tu sia un datore di lavoro che tu sia un lavoratore, sia che tu voglia dirimere controversie che avviare un proficuo rapporto di lavoro, rivolgiti al nostro studio per avere assistenza. Tutela i tuoi diritti!

prestazioni occasionali

Prestazioni occasionali sul lavoro: come gestirle secondo la legge

Nel mondo del lavoro, il contratto di collaborazione occasionale ora prestazioni occasionali viene spesso utilizzato tra le parti, datore di lavoro e lavoratore, per lavori saltuari e limitati nel tempo. E’ un rapporto che dovrebbe essere molto semplice e snello ma è stato spesso rimaneggiato dal nostro legislatore dopo alterne fortune, giuridiche, politiche e sociali.

Le prestazioni occasionali secondo la legge

La “prestazione occasionale” è stata da ultima disciplinata compiutamente nel 2017. Giuridicamente, l’interpretazione e l’applicazione del contratto non è facile e abbiamo avuto bisogno di numerose circolari del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS, nonché diversi interventi giurisprudenziali per definirne i contorni.

E’ bene specificare che questo rapporto di lavoro è tutti gli effetti un lavoro autonomo e, quindi, il prestatore di lavoro non è un dipendente: è colui che svolge a favore di un committente un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione. Si distingue dal lavoro autonomo abituale non per la natura della prestazione ma per il carattere episodico dello stesso. Infatti si parla di attività svolte nel corso di un anno civile, dal 1° gennaio al 31 dicembre di ciascun anno.

Cosa cambia con la nuova legge di bilancio

E ora la legge di bilancio 2023 ha introdotto importanti novità per quanto riguarda il Contratto di Prestazione occasionale e l’INPS si sta adeguando. Ma dal 1° gennaio 2023, cosa cambia in termini pratici?

Innanzitutto, se ne è esteso grandemente l’utilizzo. Infatti è previsto l’aumento da 5.000,00 a ben 10.000,00 euro per anno civile del limite di compenso erogabile dall’utilizzatore nei confronti dei prestatori di lavoro. Inoltre, potranno adoperare questo contratto tutti gli utilizzatori che hanno fino a 10 (mentre prima era fino a 5) lavoratori subordinati a tempo indeterminato.

Infine, sono stati eliminati i limiti che imponevano alle imprese del turismo di occupare solo particolari categorie di lavoratori. Per le imprese agricole sono introdotte forme semplificate di utilizzo delle prestazioni di lavoro occasionale a tempo determinato. Il nuovo regime specifico prevede, tra l’altro, l’inoltro della Comunicazione Obbligatoria di assunzione al competente Centro per l’impiego.

Rimane invariata, invece, la disciplina generale sia fiscale che normativa.

Continua, infatti, a non essere necessaria l’apertura di una partita IVA e nemmeno l’iscrizione ad un albo professionale. È sufficiente che il collaboratore presenti all’utilizzatore una ricevuta per prestazione occasionale e il committente versi, per conto del collaboratore occasionale, una ritenuta d’acconto sul compenso pari al 20%.

Il prestatore ha diritto all’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, con iscrizione alla Gestione separata dell’INPS, nonché all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Inoltre, è previsto il diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali come per legge, nonché l’estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

La gestione dei rapporti di lavoro è una materia complessa e delicata

Eppure moltissime persone hanno bisogno di gestire situazioni simili nella loro quotidianità. Le conseguenze di una gestione errata, però, si ripercuotono in modo molto tangibile sull’economia personale e familiare di moltissimi lavoratori. Ecco perché affidarsi a un professionista è un investimento necessario. Se anche tu hai bisogno di aiuto nella gestione della tua attività lavorativa contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

periodo di preavviso

Periodo di preavviso: come si pone fine a un rapporto di lavoro

Se hai letto il nostro articolo relativo alla NASpI, ti starai probabilmente domandando in che modo, all’atto pratico, come un rapporto di lavoro viene interrotto. Ci occupiamo, quindi, con questo articolo, di un altro aspetto connesso alla cessazione del rapporto di lavoro: il periodo di preavviso.   

Cosa si intende con il termine “preavviso”? 

Per preavviso intendiamo quel periodo di tempo che decorre dalla comunicazione delle dimissioni o del licenziamento sino alla cessazione definitiva del rapporto. Il preavviso, dunque, deve essere rispettato sia quando è il lavoratore a porre fine al rapporto di lavoro, sia quando il datore di lavoro pone fine al rapporto. 

Durante questo periodo, il lavoratore deve continuare a svolgere regolarmente la sua attività lavorativa, mentre compito dell’azienda è quello di corrispondergli la retribuzione sino all’ultimo giorno. 

La durata del periodo di preavviso

La durata del periodo di preavviso da rispettare è fissata, in via generale, dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro o CCNL applicato o dagli usi. Il preavviso potrà essere di alcuni giorni o anche di due o tre mesi e potrà variare a seconda del livello di inquadramento, dell’anzianità di servizio del lavoratore o di una combinazione dei due elementi.

Il periodo di preavviso può essere prorogato?

Vi sono alcuni eventi, ossia la malattia, l’infortunio e la maternità, che interrompono il preavviso, la cui scadenza sarà quindi spostata in avanti.

I giorni di ferie non goduti possono essere usati durante il periodo di preavviso?

Tendenzialmente, nel corso del periodo di preavviso, non si potrebbe godere dei giorni di ferie, ma è sempre possibile che le Parti si accordino in maniera diversa: l’importante è che la scelta non venga imposta da una parte all’altra.

Quando non è dovuto il preavviso?

Il preavviso NON è dovuto in caso di: 

  • dimissioni per giusta causa;
  • accordi collettivi di esodo; 
  • lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino; 
  • padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità, per tutta la sua durata e fino ad un anno di età del bambino; 
  • licenziamento o le dimissioni causate dalla domanda o dal godimento da parte del lavoratore o della lavoratrice del congedo parentale e del congedo per malattia del bambino; 
  • matrimonio dalla data delle pubblicazioni fino a un anno; 
  • licenziamento o dimissioni durante o al termine del periodo di prova; risoluzione consensuale del rapporto. 

E se il lavoratore o il datore di lavoro non possono rispettare il periodo di preavviso?

In realtà, il periodo di preavviso può non essere rispettato, in totale o parzialmente. In questi casi, però, la parte che non rispetta il preavviso sarà tenuta a corrispondere una indennità per i giorni mancanti, salvo diverso accordo delle parti.

Nel caso in cui si voglia porre fine a un rapporto di lavoro, la procedura da seguire è sempre delicata e merita una particolare attenzione se si vuole minimizzare il rischio che l’altra parte si rivalga. Per questo è sempre un’ottima idea chiedere aiuto a un professionista.

Se hai bisogno di aiuto contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

badante

Badante: come gestire l’orario di lavoro per i collaboratori domestici

Al giorno d’oggi la figura del collaboratore domestico, più comunemente detto badante, è presente nella maggior parte delle famiglie. Molti, infatti, non avendo modo di prestare la dovuta assistenza ai propri cari, si vedono costretti ad assumere un badante che si occupi della loro cura. Tuttavia, è bene ricordare che il badante non potrà prestare assistenza 7 giorni su 7 e h24 poiché anche lui o lei, come tutti i lavoratori, ha diritto a godere di periodi di riposo giornalieri e settimanali.

Sapere come gestirli e cosa rientri o meno fra i diritti del lavoratore o della lavoratrice diventa fondamentale non solo per capire come gestire il proprio menage familiare, ma anche per evitare di incorrere in spiacevoli fraintendimenti e discussioni. Analizziamo, quindi, cosa dice la legge.

Cosa prevede il CCNL Collaboratori Familiari?

Anche per i collaboratori familiari, così come per altre categorie, esiste un Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro, e il suo contenuto specifica chiaramente cadenza ed entità dei turni di riposo dei collaboratori familiari. Nello specifico, vi si legge:

  1. Riposi giornalieri

Durante i giorni feriali, il collaboratore domestico non può lavorare h24, nemmeno se convivente ed ha comunque diritto a un periodo di riposo.

Collaboratore domestico convivente

L’art. 14 C.C.N.L. stabilisce che Il lavoratore convivente ha diritto ad un riposo di almeno 11 ore consecutive nell’arco della stessa giornata. Inoltre, se il suo orario giornaliero non è interamente collocato tra le ore 6.00 e le ore 14.00, oppure tra le ore 14.00 e le ore 22.00, il collaboratore domestico ha diritto ad un ulteriore periodo di riposo non inferiore alle 2 ore giornaliere, normalmente collocato nelle ore pomeridiane.

Collaboratore domestico non convivente

Il lavoratore non convivente che presti attività per un orario giornaliero pari o superiore alle 6 ore continuative, ha diritto a ricevere dal datore di lavoro il pasto o, in alternativa, un’indennità pari al suo valore convenzionale. In ogni caso, il tempo necessario a consumare il pasto, in quanto trascorso senza effettuare prestazioni lavorative, non dovrà essere retribuito.

  1. Riposi settimanali

Oltre al riposo giornaliero, i collaboratori domestici, sia conviventi, sia non conviventi, hanno diritto a godere del riposo settimanale.

Collaboratore domestico convivente

L’art. 13 C.C.N.L. stabilisce che il riposo settimanale, per i lavoratori conviventi, è di 36 ore e deve essere goduto per 24 ore la domenica, mentre le residue 12 ore possono essere godute in qualsiasi altro giorno della settimana, concordato tra le parti.

Inoltre, nel giorno in cui il badante ha diritto di godere delle 12 ore di riposo, Egli deve prestare la propria attività per un numero di ore non superiore alla metà di quelle normalmente lavorate in un solo giorno.

Collaboratore domestico non convivente

Il riposo settimanale, per i lavoratori non conviventi, è di 24 ore e deve essere goduto la domenica. Se, tuttavia, al lavoratore è richiesto di prestare attività domenicale, Egli ha diritto a un uguale numero di ore di riposo non retribuito nel corso della giornata immediatamente seguente e al pagamento di un 60% in più della retribuzione per le ore di lavoro svolte alla domenica.

Quindi, la durata normale dell’orario di lavoro settimanale consiste in:

  1. 10 ore giornaliere, non consecutive, per un totale di 54 ore settimanali, per i lavoratori conviventi;
  2. 8 ore giornaliere, non consecutive, per un totale di 40 ore settimanali, distribuite su 5 giorni oppure su 6 giorni, per i lavoratori non conviventi.

E se la badante, durante il periodo di riposo, resta a casa?

Anche se il collaboratore domestico convivente, durante il periodo di riposo, non lascia l’abitazione, non gli può essere richiesto di prestare alcuna attività lavorativa, poiché tale periodo è destinato all’effettivo recupero delle energie psicofisiche. Allo stesso modo, non può richiedersi al collaboratore convivente che presti attività di lavoro durante il giorno, di svolgere anche l’assistenza notturna.

Come organizzarsi per i periodi di riposo della badante?

Il datore di lavoro che abbia in servizio uno o più lavoratori a tempo pieno addetti all’assistenza di persone non autosufficienti potrà assumere in servizio uno o più lavoratori, conviventi o meno, che svolgano attività soltanto nelle ore e nei giorni di riposo, giornaliere e settimanali, dei lavoratori titolari dell’assistenza.

Ci si può accordare diversamente con la badante?

Certo, è sempre possibile, ma ci si espone non solo al rischio di dimissioni del collaboratore domestico, ma anche a quello di rivendicazioni economiche da parte del collaboratore che abbia prestato attività di lavoro oltre all’orario previsto.

Quando assumiamo un Collaboratore Familiare stiamo a tutti gli effetti creando un posto di lavoro.

Gestirlo propriamente, dunque, non è solo una responsabilità ma un interesse per tutte le parti: affidarsi a un legale per una consulenza, quindi, è sempre una buona idea! Se ne hai bisogno contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!