guida in stato d'ebbrezza

Guida in stato di ebbrezza: inquadramento e descrizione

 Con questo articolo cominciamo una piccola serie in più puntate per descrivere un problema in realtà, purtroppo, diffusissimo: la guida in stato di ebbrezza

Cercheremo di essere più completi possibile e di sviscerare l’argomento con precisione e distacco, fermo restando il consiglio umano, malgrado i parametri entro i quali la legge non interviene, di evitare a priori di bere alcolici se sappiamo che dobbiamo, poi, metterci alla guida. La normativa, però, resta complessa e articolata; abbiamo dunque sentito la necessità di trattarlain tre articoli che analizzino specificamente tre aspetti fondamentali che compongono il quadro. 

  • Inquadramento e descrizione 
  • Conseguenze: le sanzioni di tipo legale e amministrativo 
  • Casistica e aspetti amministrativi 

In questo articolo ci occuperemo delle basi: la fattispecie di illecito e come la norma lo recepisce. 

1 – Inquadramento e descrizione 

 La guida in stato di ebbrezza trova una sua collocazione normativa negli articoli 186 e 186Bis del Codice della Strada

 Per Guida in stato di ebbrezza intendiamo l’alterazione psicofisica dovuta all’assunzione di sostanze alcoliche. Esclusivamente alcoliche: non rientrano in queta fattispecie l’assunzione di medicinali o sostanze psicotrope, casi specifici trattati da altri articoli come il 187. 

 Prima di tutto il Codice identifica un “soggetto passivo”, ossia il conducente. La persona che guida o che ha guidato un veicolo fino a poco prima dell’accertamento. Resta completamente esclusa la posizione del semplice passeggero. 

 Il codice identifica delle soglie limite di tasso alcolemico, oltre le quali interviene in vario modo. 

 Innanzitutto, esiste una soglia minima al di sotto della quale non vengono prese in considerazione le conseguenze amministrative
 
Sotto gli 0,5 grammi di alcool per litro di sangue non si è in nessun modo punibili. Al di sopra di questa soglia minima, però scattano le prime sanzioni amministrative. Tali sanzioni, però, non sono penali

 Al di sopra degli 0,8 grammi di alcool per litro di sangue, la guida in stato di ebbrezza diventa però un illecito penalmente rilevante. Superata la soglia di 1,5 grammi per litro, infine, viene immediatamente ritirata la patente. 

Vi sono poi alcuni casi in cui la tolleranza limite viene esclusa. Parliamo di casi in cui il valore alcolemico rilevato deve essere pari a 0, e non esiste il concetto di “modica quantità”. È il caso di: 

  • Conducenti di età inferiore ai 21 anni
  • Conducenti neopatentati, ossia che abbiano conseguito la patente da meno di 3 anni. 
  • Conducenti professionali nel momento in cui svolgono la propria attività lavorativa. 
  • Conducenti di autobus, autoarticolati, autosnodati, veicoli destinati al trasporto di persone il cui numero di posti a sedere, escluso quello del conducente, è superiore a otto. Infine, conducenti di veicoli destinati al trasporto merci con massa complessiva a pieno carico superiore alle 43,5 tonnellate. 

Ma come si rileva il tasso alcolemico? 

 Le forze dell’ordine hanno una serie di strumenti per rilevare lo stato di ebbrezza di un conducente. Possono rilevarlo immediatamente, successivamente o sintomaticamente
 
Immediatamente, la rilevazione viene fatta dalla pattuglie sul luogo del controllo o dell’incidente. La rilevazione viene fatta grazie a un etilometro, nel quale il soggetto sottoposto all’accertamento è tenuto a espirare. Lo strumento è in grado di misurare la quantità di alcol presente nell’aria. 
 
La rilevazione va effettuata 2 volte, a distanza di 5 minuti l’una dall’altra. Gli etilometri devono possedere determinati requisiti che sono stabiliti in un disciplinare tecnico approvato dal Ministero dei Trasporti e della navigazione, assieme al Ministero della Sanità, devono essere tarati e omologati. 

Successivamente, la rilevazione viene fatta presso una struttura sanitaria, a mezzo di esami ematochimici. 

Questo articolo ti è stato utile? Non perderti il prossimo della serie che il nostro studio dedica alla guida in stato di ebbrezza, che approfondisce le sanzioni di tipo penale e amministrativo.  
 
Hai bisogno di assistenza legale? Contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!  

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

Phishing

Phishing: anatomia e cura delle truffe online

Il mondo del web è in evoluzione tanto costante quanto vorticosa: un mondo che cambia di continuo, che rinnova le sue offerte, e che vede crescere di giorno in giorno le minacce che veicola! Frodi, furto di dati sensibili e molto altro. Sono comportamenti ormai noti come phishing!

Phishing: capiamo di cosa si tratta

Il riferimento alla “pesca” utilizzato in questo frangente è quantomai calzante, in quanto il criminale non attende altro che la sua vittima cada nella rete che lui ha gettato.

Per questo motivo è necessario essere consapevoli e formati nell’ambito della navigazione online, evitando di lasciare i nostri codici di accesso, password personali e altri dati in siti non sicuri, per non cadere nella rete del… phishing!

Proteggersi dalle truffe online, dal phishing, è possibile

Ci sono delle semplici regole di comportamento da seguire, condivise dal Garante della Privacy.

Innanzitutto, per “Phishing” si intende una tecnica illecita utilizzata per appropriarsi di informazioni riservate relative a una persona o a un’azienda – username e password, codici di accesso, numeri di conto corrente, dati del bancomat – con l’intento di compiere azioni fraudolente.

Dove avvengono le truffe?

Di solito via e-mail, ma possono avvenire anche tramite sms, chat e social media. In genere il «ladro di identità» si presenta come un soggetto autorevole. Una banca, un gestore di carte di credito, un ente pubblico o altro. Invita poi a fornire dati personali per risolvere particolari problemi tecnici del conto bancario o con la carta di credito. Questo per accettare cambiamenti contrattuali, per gestire una cartella esattoriale e molto altro.

Un messaggio di phishing si riconosce perché solitamente si viene invitati a fornire direttamente i propri dati personali oppure, tramite un link, a compilare un form. I dati carpiti in questo modo possono essere utilizzati per fare acquisti a spese della vittima, prelevare denaro dal suo conto o addirittura compiere attività illecite utilizzando il suo nome e le sue credenziali.

Come comportarsi in caso di phishing: i passi fondamentali!

Ricorda alcune cose fondamentali.

  1. Banche, enti pubblici, aziende e grandi catene di vendita non richiedono informazioni personali tramite sms, e-mail. Le comunicazioni avvengono tramite canali ufficiali, ad esempio con l’applicazione della Banca.
  2. Non cliccare sui link contenuti in questi messaggi sms o e-mail: contengono spesso virus o programmi non sicuri.
  3. Se leggi da computer, un’accortezza è quella di posizionare sempre il puntatore del mouse sui link prima di cliccare. In molti casi si potrà così leggere in basso a sinistra nel browser il vero nome del sito cui si verrà indirizzati.
  4. Presta attenzione ad errori grammaticali, loghi sbagliati e formattazione strana, potrebbe essere indice di una traduzione automatica fatta da altre lingue.
  5. “Se non rispondi immediatamente alla presente mail il tuo conto bancario verrà bloccato”. Un tono eccessivamente intimidatorio può essere indice di una subdola strategia per spingere il destinatario a fornire informazioni personali.
  6. Come è noto, le password alfanumeriche complesse rendono più sicura la navigazione.
  7. Per gli acquisti online è indicato usare carte di credito prepagate. Vanno bene anche altri sistemi di pagamento che evitano la condivisione di dati del conto bancario o della carta di credito.
  8. Attiva un sistema di alert automatico che ti possa avvisare di ogni operazione effettuata.
  9. Se ti rimane il dubbio, chiama direttamente la banca o l’azienda che pensi ti stia contattando, attraverso un canale di comunicazione conosciuto e affidabile.

Truffa online, ecco cosa dice la legge

La legge, in attuazione di una specifica direttiva europea relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, norma il comportamento degli istituti. Prevede infatti che l’utilizzatore di un servizio di pagamento, il cliente, debba comunicare al prestatore del servizio lo smarrimento, il furto, l’appropriazione indebita o l’uso non autorizzato dello strumento non appena ne abbia conoscenza. Se il cliente nega di aver effettuato l’operazione, il prestatore del servizio, la Banca, dovrà dimostrare che l’operazione è stata correttamente effettuata.

Anche se la Banca riuscisse a dimostrare tale circostanza, sarebbe comunque responsabile nei confronti del cliente. Infatti quella sola circostanza non sarebbe sufficiente a dimostrare che è stato il cliente ad autorizzare il pagamento.

L’articolo 82 del GDPR, il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati, si occupa di determinare che tipo di responsabilità abbia il titolare del trattamento dei dati. Nel nostro esempio, sempre la Banca. Si prevede che, chiunque subisca un danno, materiale o immateriale, causato da una violazione del GDPR, ha diritto al risarcimento del danno stesso. Questa disposizione non alleggerisce l’onere probatorio gravante sull’istituto di pagamento, ossia titolare del trattamento dei dati. In parole povere, la banca dovrà comunque dimostrare la correttezza dell’operazione, in quanto il GDPR è permeato dal principio di accountability.

Il principio di accountability enuncia chiaramente che spetta al titolare dimostrare il pieno rispetto delle previsioni del Regolamento. Si include in questo, ad esempio, la liceità dei trattamenti effettuati, l’adozione di idonee misure di sicurezza e via dicendo.

L’opinione della Corte di Cassazione sul phishing

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (HL Cass. Civ. Sez. VI, Ordinanza n. 9158/2018) chiarisce ulteriormente il concetto. La Cassazione ha definito che la responsabilità del prestatore di servizi trova fondamento nella posizione di garanzia che l’istituto di credito riveste nei confronti del cliente. Per cui al prestatore dei servizi è imposta una diligenza qualificata nell’adempimento dei propri obblighi.

Nel caso di specie, due correntisti agivano in giudizio contro un prestatore di servizi di pagamento per il rimborso di quanto sottratto a seguito di un episodio di phishing.

La Corte ha ritenuto che fosse ragionevole

ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento la possibilità di una utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo; ne consegue che la banca, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere, è tenuta a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente

Si potrebbe concludere che sull’istituto di credito grava una responsabilità di tipo semi-oggettivo. Sarà infatti tenuto a provare, da un lato, di aver adottato tutte le misure idonee a garantire la sicurezza del sistema di pagamento. Dall’altro, che l’operazione sia riconducibile al cliente. Si tratta di una circostanza tutt’altro che agevole da dimostrare, se non vera e propria probatio diabolica.

Cadere nelle frodi online è davvero semplicissimo, tanto che spesso ce ne accorgiamo solo a mesi di distanza.

Farsi seguire da un legale, in questi casi, è sempre la migliore soluzione. Se pensi di essere vittima di phishing, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con la dottoressa Marta Michelon

mandato di arresto europeo

Il mandato di arresto europeo: collaborazione internazionale per la giustizia

I recenti e dolorosi fatti di cronaca hanno proiettato l’opinione pubblica all’interno di una storia fatta non solo di delitti efferati, ma anche di complesse procedure legali dirette sia al trattamento dell’indagato, sia ai meccanismi di collaborazione fra diversi paesi e le loro rispettive forze dell’ordine. È il caso, per esempio, del mandato di arresto europeo, una formula che racchiude un complesso sistema di collaborazione continentale per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Ma in cosa consiste esattamente?

Mandato di arresto europeo: la legislazione

Il mandato di arresto europeo, introdotto con la decisione 584/2002 dal Consiglio dell’Unione Europea, e attuato in Italia con la legge 69/2005. È uno strumento giuridico che consente la cooperazione giudiziaria internazionale, e che di fatto sostituisce la normativa in tema di estradizione nei rapporti tra gli Stati membri dell’Unione Europea. Si basa sul reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie.

Cos’è il mandato di arresto europeo

È una richiesta di un’autorità giudiziaria emessa da uno Stato membro dell’Unione Europea in vista dell’arresto e della consegna di una persona da parte di un altro Stato dell’Unione Europea. Questo al fine dell’esercizio di un’azione giudiziaria penale, dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà personale.

Principi generali comuni

Il Paese in cui viene trovata la persona ricercata ha 60 giorni per adottare la decisione finale sull’esecuzione del mandato d’arresto. Questo a meno che lo stesso interessato non acconsenta alla consegna, in tal caso la decisione viene assunta entro 10 giorni. In ogni caso, la persona deve essere consegnata all’autorità competente il prima al possibile, al più tardi entro dieci giorni dall’assunzione della decisione.

L’emissione del Mae si accompagna alla diffusione delle ricerche per l’arresto attraverso i servizi di cooperazione internazionale, quali la segnalazione nel S.I.S. (Sistema informativo Schengen) o tramite INTERPOL (in questo caso deve essere disposta dal Ministro della Giustizia secondo le procedure previste per l’estradizione.

Mandato di arresto europeo: Procedura attiva

Quando è lo Stato italiano a richiedere la consegna di un soggetto presente su altro territorio, il Giudice competente trasmette la richiesta al Ministro della Giustizia. Questo provvede all’inoltro alla rispettiva autorità estera competente, se già nota. Diversamente viene inserita una segnalazione nel Sistema Informativo Schengen diretta a tutti gli Stati aderenti.

Mandato di arresto europeo: Procedura passiva

Quando viene richiesto allo Stato Italiano la consegna di un soggetto ricercato e presente sul nostro territorio, compente a curarne la decisione è la Corte d’Appello dove si trova il ricercato. Essa valuterà se esistono condizioni ostative alla consegna e nel caso stabilirà con sentenza la consegna.

Complessi rapporti internazionali richiedono figure specializzate

Se già avere a che fare con un ordinamento nazionale e con un solo corpus di leggi, farne combaciare due o più è davvero un’impresa difficile. Per questo, quando si tratta di avere a che fare in ogni modo e ad ogni livello con il diritto di paesi stranieri, la prima cosa da fare è rivolgersi a uno studio legale: se hai bisogno di assistenza rivolgiti al nostro studio, tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con la dottoressa Lucrezia Zacchi

difensore d'ufficio

Il difensore d’ufficio: la normativa

Il nostro codice di procedura penale prevede che in tutte le ipotesi nelle quali l’imputato deve essere assistito da un difensore e non provveda alla sua nomina, gli venga nominato un difensore d’ufficio. Questi ovviamente cessa dalla sua attività non appena l’imputato provveda a nominarne uno di fiducia.


L’istituto va considerato vanto di civiltà giuridica di uno stato democratico, che garantisce, fin dal suo sorgere, la difesa tecnica alla persona indagata. Purtroppo si tratta di un istituto con luci ed ombre, dovute da un lato alle diverse impossibilità a cui si trova innanzi il difensore in tutti quei casi nei quali non può interloquire con il cliente, dall’altro alla svalutazione della difesa d’ufficio per prassi giudiziaria.

La disciplina della difesa d’ufficio ha subìto e continua a subire cambiamenti, in linea con la volontà di rendere effettiva l’equiparazione tra la difesa d’ufficio e la difesa di fiducia. In particolare il legislatore ha cercato di equiparare le due figure in primo luogo garantendo alta professionalità del difensore d’ufficio, il quale viene iscritto in determinati elenchi, da cui poi la p.g. o l’autorità giudiziaria attinge solo ove presenti determinati requisiti.

Nella relazione dell’onorevole Saponara durante la seduta della camera dei Deputati del 18 dicembre 2000 si legge

“[…] il difensore d’ufficio deve essere come quello di fiducia e deve avere la sua stessa dignità; per assurdo, egli deve essere migliore dell’avvocato di fiducia”.

Si prevede, inoltre, che il difensore d’ufficio debba essere adeguatamente retribuito.

Attualmente, con l’ultima riforma, si prevede che l’elenco dei difensori d’ufficio (ora tenuto presso ciascun consiglio dell’ordine circondariale) venga unificato su base nazionale, attribuendo al Consiglio Nazionale Forense la competenza in ordine alle iscrizioni e al periodico aggiornamento.

Al fine di assicurare la qualificazione professionale, sono previsti criteri più rigorosi per l’iscrizione, richiedendo che chi viene iscritto a questo elenco segua dei corsi di aggiornamento che debbono avere un’adeguata durata e un esame finale. E’, inoltre, stata elevata a cinque anni – in precedenza erano due – la pregressa esperienza professionale in materia penale o, in alternativa, il conseguimento del titolo di specialista in diritto penale.

Ciò per comprendere come l’avvocato d’ufficio debba essere necessariamente persona con esperienza nel settore penale.

Il difensore d’ufficio entra nella scena processuale in momenti che possono essere differenti: o sin dall’inizio, con il primo atto garantito per il quale si prevede l’assistenza del difensore. Oppure anche in seguito nel caso di rinuncia, assenza, revoca o incompatibilità del precedente difensore. L’indagato viene subito avvertito di chi sia il suo difensore d’ufficio, e lo stesso viene altresì informato dell’obbligo di retribuzione. Questo a meno che l’indagato non possa accedere al patrocinio a spese dello Stato. Questo perché è diffusa l’opinione della gratuità della difesa d’ufficio, quando invece viene espressamente riconosciuta la retribuzione per il difensore.

Proprio per ovviare agli inconvenienti legati all’opinione della gratuità della difesa d’ufficio, in quanto dalla relazione dei lavori parlamentari si ricava che “parità [tra il difensore d’ufficio e il difensore di fiducia, n.d.a.] non possa esservi fino a quando il difensore d’ufficio non sia posto in grado di svolgere la propria attività nella prospettiva di ricevere adeguata retribuzione”. L’art. 32 disp. att. c.p.p. prevede che le procedure intraprese per il recupero dei crediti professionali vantati dai difensore d’ufficio sono esenti da bolli, imposte e tasse ed ancora l’art. 116 della normativa in materia di spese di giustizia prevede che qualora il difensore d’ufficio di persona reperibile (irreperibile di fatto) abbia esperito inutilmente le procedure per il recupero forzoso del proprio onorario, le spese verranno liquidate dal Giudice.

L’art.117 del dpr, invece, prevede l’ipotesi dell’irreperibile di diritto. In questo caso, salva la nuova disposizione in tema di irreperibilità, al pagamento del difensore nominato d’ufficio provvede lo Stato. In entrambi i casi, comunque, lo Stato ha diritto di ripetere dal condannato le spese sostenute per il patrocinio.

Difensore d’ufficio: la pratica

Gli aspetti pratici e i problemi legati alla difesa d’ufficio sono molteplici, alcuni endo-processuali, legati alla normativa di riferimento, altri eso-processuali, legati alla prassi giudiziaria. Non ultimo lo svilimento dell’avvocato stesso nel momento nel quale gli si chiede di preparare un’adeguata strategia difensiva di un soggetto che non si è mai incontrato e del quale si ignora addirittura la residenza.

Non può sottacersi che è abitudine della p.g. permettere agli indagati di eleggere domicilio presso il difensore d’ufficio. Questo impedisce da un lato al difensore di poter aver un minimo contatto con il cliente, dall’altro allo stesso cliente di conoscere la propria sorte giudiziaria in quanto non verrà mai informato degli eventi processuali.  Quella della mancanza del contatto con il cliente è la prima grande difficoltà del difensore d’ufficio che non potrà approntare alcuna strategia processuale se non quella documentale, ossia un approfondito studio degli atti.

Se solo si consideri che il rapporto tra cliente e avvocato ha le proprie fondamenta nella fiducia dell’uno nei confronti dell’altro, ben si può comprendere come, minato nelle fondamenta il rapporto, la difesa non possa che essere claudicante e talvolta inadeguata. Va anche detto che gli atti raccolti dalla p.g. e che portano ad un rinvio a giudizio molto spesso contengono valutazioni negative a carico dell’indagato. L’assunzione dei testi, in questi casi, appare una tappa obbligata per giungere a quel minimo di verità processuale che garantisca la difesa del soggetto. 

Vi sono, invece, quei casi nei quali l’incontro fra il difensore d’ufficio e l’indagato è certo,

Quindi quando il soggetto viene arrestato e si ha l’udienza di convalida.

Può essere, questo, l’unico contatto tra l’indagato e il difensore, per cui è bene approfittare del momento per comprendere gli accadimenti. Infatti se a seguito dell’udienza di convalida il soggetto viene liberato, avviene molto spesso che si perdano le tracce del cliente e quindi non sia più possibile costruire un’adeguata difesa. Anche le strategie processuali vanno improntate tenendo conto di tali aspetti pratici. Avviene spesso, quindi, che nel giudizio direttissimo il difensore sia subito portato ad avanzare richieste di riti alternativi. Questi non potranno più trovare ingresso nell’ipotesi in cui il difensore perda i contatti con il cliente.

Diversa, invece, è la situazione quando questo contatto sia possibile.

Se il contatto avviene sarebbe comportamento deontologicamente ineccepibile quello di informare nuovamente il soggetto della sua facoltà di nominare un difensore di fiducia. Ove tale decisione non venga presa “trasformare” la nomina d’ufficio in nomina di fiducia, potendo così ampliare le proprie facoltà e poteri nell’ambito difensivo.

Nella prassi la “trasformazione” avviene soprattutto per permettere al difensore di poter rinunciare ad un mandato divenuto difficile. Infatti va sottolineato che il difensore d’ufficio non può spogliarsi del mandato, se non in precisi e ben individuati casi. Tuttavia laddove manchi il rapporto fiduciario la gestione del cliente, molto spesso soggetto difficile, è un ulteriore ostacolo alla effettiva difesa di questi.

E’ del tutto sconsigliabile, poi, optare per un’ingiustificata e reiterata assenza del difensore d’ufficio nel corso del processo.

Nella prassi, in questi casi, si ricorre all’istituto di cui al 97 IV co. c.p.p., ossia la sostituzione con il difensore di turno. Si tratta di un soggetto prontamente reperibile il quale, tuttavia, in detta situazione, non può che approntare una difesa tecnica. Questa è volta esclusivamente a verificare la sussistenza formale delle regole procedurali, ma aspettarsi, in questi casi, un’adeguata difesa è una chimera per il difensore stesso.

Fuori dubbio è che il difensore d’ufficio possa svolgere indagini difensive, possa attivarsi mediante impugnazione. Tuttavia, anche in questi casi, la normativa viene inevitabilmente a scontrarsi con problemi pratici. Si deve considerare che avanti all’ordinario cliente “virtuale” del difensore d’ufficio, difficilmente il difensore stesso potrà intraprendere costose e dispendiose indagini difensive. Si caricherebbe caricandosi, anche, dei rischi deontologici e professionali legati alle indagini difensive stesse.

In definitiva, tuttavia, può dirsi che i problemi legati alla difficoltà di una soddisfazione economica del difensore d’ufficio non possono fermare il difensore stesso. In definitiva, deve essere “preparato, agguerrito, dinamico ed organizzato”.

Il difensore d’ufficio è solo una possibilità

Molte persone hanno dei legali di fiducia a cui affidarsi. Studi o professionisti specializzati e preparati a difendere al meglio il loro cliente. Se hai bisogno di tutela e difesa rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

casellario giudiziale

Casellario giudiziale: la storia penale, civile e amministrativa di una persona

Sempre più spesso, per accedere a molti posti di lavoro, ad esempio nel campo delle spedizioni o dello stoccaggio merci, occorre presentare il cosiddetto Certificato del Casellario Giudiziale. Si tratta di un documento ormai veramente importante, con cui molti hanno famigliarità senza però conoscerne appieno il senso e soprattutto la legge che a esso soggiace. 

Certificato del casellario giudiziale: in cosa consiste

Il certificato del casellario giudiziale contiene indicazioni sui provvedimenti in materia penale, civile  e amministrativa (i provvedimenti penali di condanna definitivi e relativi all’esecuzione penale, alla capacità della persona: interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno). Esso può essere richiesto presso qualsiasi Procura della Repubblica sul territorio nazionale, a prescindere dal luogo di residenza o dal luogo di nascita.

La richiesta va presentata dall’interessato, o da persona da lui delegata, muniti di documento di riconoscimento in corso di validità. Esso soggiace al versamento delle marche da bollo, il cui importo varia a seconda dell’urgenza con il quale viene richiesto.

Ci sono casi in cui il rilascio del certificato è gratuito, ad esempio quando deve essere:

  1. esibito nelle procedure di adozione, affidamento di minori
  2. esibito nelle controversie di lavoro, previdenza ed assistenza obbligatorie
  3. esibito in un procedimento nel quale l’interessato è ammesso a beneficiare del gratuito patrocinio
  4. unito alla domanda di riparazione dell’errore giudiziario

Una eccezione per la pubblica amministrazione

Il certificato rilasciato all’interessato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai gestori di pubblici servizi. Per questi, infatti, il privato produce la dichiarazione sostitutiva della certificazione, di cui all’art. 46 D.P.R.28 dicembre 2000 n. 445.

Certificato di carichi pendenti: la sua vera essenza

Il certificato dei carichi pendenti, invece, consente la conoscenza dei procedimenti penali in corso a carico di un determinato soggetto e gli eventuali relativi giudizi di impugnazione.

Esso, a differenza del casellario, si deve richiedere nel luogo di residenza dell’interessato e riporta i procedimenti pendenti presso detto ufficio nonché quelli in corso presso le procure distrettuali antimafia. Per il resto vanta le stesse caratteristiche elencate sopra.

Cancellazione dei reati: pulire il casellario giudiziale

È possibile provvedere alla cancellazione dei reati dal proprio casellario chiedendo la RIABILITAZIONE, istituto premiale volto alla risocializzazione del reo

Perché si possa procedere è necessario che:

  • siano decorsi 3 anni dall’espiazione della pena;
  • abbia mantenuto una buona condotta in questo lasso di tempo;
  • non sia sottoposto a misure di sicurezza;
  • siano state pagate le spese processuali e l’eventuale risarcimento danni

Richiedere il casellario giudiziale è un diritto di trasparenza

Ma l’accesso alle informazioni amministrative che ci riguardano non è che un elemento di un più complesso sistema di tutele per i diritti civili e individuali. Conoscerne l’intreccio e padroneggiarlo, però, è davvero complesso. Per questo l’assistenza di un legale è spesso una necessità: contatta il nostro studio se ne hai bisogno, tutela i tuoi diritti!

allontanamento dalla casa familiare

La misura dell’allontanamento dalla casa familiare

Nel tutelare gli interessi e, a volte, l’incolumità di una persona, lo Stato deve intervenire in modo deciso, con misure che ne tutelino la salute e, nel caso di un minore, gli forniscano un ambiente adatto alla sua crescita. L’allontanamento dalla casa familiare, in casi estremi, è un provvedimento che può salvare non solo il futuro, ma anche la vita della persona o delle persone coinvolte. Ecco in cosa consiste.

Allontanamento dalla casa familiare: quando scatta

Disciplinato dall’art. 282 bis del codice di procedura penale, l’istituto rientra tra le misure coercitive personali, ovvero a quei provvedimenti che limitano la libertà della persona in quanto necessari ad evitare che si possano realizzare situazioni di pericolo per la collettività, dovute a particolari esigenze, quali come nel caso di specie quella di reiterazione delle condotte criminose.

L’articolo in esame presuppone la commissione di un reato di violenza (fisica, sessuale..) che arrechi un pregiudizio grave all’integrità fisica o morale da persona che viva all’interno della sfera familiare. Per persona convivente intendiamo sia i rapporti tra il coniuge o il convivente di fatto sia tra il genitore e i figli.

Come si ottiene l’allontanamento dalla casa familiare?

Il Pubblico Ministero può richiedere al Giudice di emanare un provvedimento di protezione e allontanamento dal domicilio familiare dell’imputato, nonché nelle ipotesi più gravi può prescrivere al soggetto di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa.

Ordine di protezione: cosa comporta

Le disposizioni contenute nell’ordine di protezione contro gli abusi familiari e che vengono disposte dal giudice possono essere:

  • imporre la cessazione della condotta lesiva;
  • allontanare l’autore delle violenze dalla casa familiare
  • prescrivere che non si avvicini ai luoghi frequentati dal soggetto offeso, intesi non solo come il luogo di lavoro, ma anche il domicilio dei parenti, la scuola dei figli ecc
  • prevedere il pagamento di un assegno periodico a favore dei familiari conviventi, affinché essi non subiscano il pregiudizio dell’allontanamento del familiare che provvedeva al loro sostentamento. In questo caso, il giudice determina la misura dell’assegno tenendo conto delle circostanze e dei redditi dell’obbligato e stabilisce le modalità ed i termini del versamento. Può anche ordinare che il versamento sia effettuato direttamente dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendolo dalla retribuzione a lui spettante, dal momento che l’ordine di pagamento ha efficacia di titolo esecutivo e pertanto permette di procedere direttamente con l’esecuzione ai fini della riscossione del dovuto.

L’allontanamento dalla casa familiare è una extrema ratio

Lo stato, negli anni, si è dotato di numerosi strumenti per rispondere alle esigenze delle famiglie, sia in termini di assistenza che di tutela. Avere il parere di un avvocato è sempre un ottimo punto di partenza per districarsi in un mondo di norme complesso e articolato. Se ne hai bisogno contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti.

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

abbandono degli animali

Abbandono degli animali e maltrattamento: gesti orribili e gravi illeciti!

La stagione delle ferie estive si sta aprendo, e molte persone già si mettono in viaggio per raggiungere le località di villeggiatura. Come ogni stagione, però, accanto alla dolcezza e alla bellezza che porta tornano problemi ciclici che la società civile è chiamata ad affrontare, e che nel caso dell’estate sono davvero molti e molto gravi. Ce n’è uno, però, particolarmente odioso, che ogni anno funesta le cronache: l’abbandono degli animali.

Come ogni anno, all’avvicinarsi delle ferie estive si moltiplicano gli episodi di abbandono da parte di cittadini a dir poco irresponsabili che, con il loro comportamento, commettono un danno alla collettività in termini di disordine e di sicurezza, oltre che, ovviamente, una crudeltà gratuita nei confronti dei loro compagni a quattro zampe, che in alcun caso meritano un trattamento tanto indegno.

Abbandono degli animali: cosa dice la legge?

L’abbandono degli animali è normato nel codice penale dall’Articolo 727. Questo articolo prevede che chiunque abbandoni animali domestici o che abbiano abitudini di cattività, ed ugualmente detenga animali in condizioni incompatibili con la loro natura che ne producano gravi sofferenze, venga punito con l’arresto fino a un anno o l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.

La legge considera quindi l’animale come essere vivente, a cui attribuire di conseguenza una serie di diritti. Presupposto questo, deve essere tutelato da tutte quelle attività dell’uomo che possono comportare l’inflizione di un dolore, se queste superano la normale soglia di tollerabilità.

Non solo il padrone!

Il reato di abbandono di animali può essere commesso da chiunque, quindi non solamente dal legittimo proprietario, ma anche da chi detenga occasionalmente l’animale.

Perché il reato sussista non è richiesto che la condotta di chi lo commette sia caratterizzata dalla volontà di infierire sull’animale. È sufficiente anche solamente un’omissione nei doveri di custodia e di cura. Si parla quindi in questo caso sia dell’elemento soggettivo del dolo che della colpa.

È un reato a forma libera, per cui può essere commesso con diverse modalità. Non essendovi una condotta tipicamente stigmatizzata, ad esempio dall’abbandonare l’animale in un luogo a fare in modo che l’animale possa scappare dal luogo in cui è custodito, il reato è procedibile d’ufficio. Questo significa che chiunque veda posto in essere un tale comportamento, potrà provvedere a farne denuncia presso le autorità competenti.

E invece, il caso del maltrattamento di animali?

Il maltrattamento degli animali è considerato diverso dall’abbandono, in quanto non punito solamente a titolo di semplice contravvenzione. È il reato di maltrattamento di animali, che punisce chi per crudeltà o senza necessità cagioni una lesione a un animale o lo sottoponga a sevizie o comportamenti insopportabili per le sue caratteristiche. Nella disposizione normativa è necessaria e fondamentale la coscienza del comportamento, sia commissivo che omissivo. Quindi sarà fondamentale che il colpevole scelga di commettere un gesto lesivo per l’animale, o di non mettere in opera un comportamento di cura che però è necessario al benessere dell’animale.

Non sono necessarie, quindi, delle lesioni fisiche. Quello che viene considerato, invece, è la sofferenza degli animali, che vengono tutelati quali esseri viventi in grado di percepire dolore.

La pena in questo caso è molto più grave: è prevista la reclusione da 3 a 18 mesi o la multa da 5.000 a 30.000 euro.

L’abbandono degli animali o il loro maltrattamento è un reato molto diffuso.

La consulenza di un legale per capire come funziona la legge è sempre consigliabile, e non solo in questo caso ma in molti altri! Se ne hai bisogno contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti.

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

Fatto tenue

Fatto tenue, una norma innovativa

Si sente dire spesso che la legge è inflessibile, che un reato è un reato e che l’azione penale è automatica. Eppure neppure quello della legge è un mondo di assoluti, e persino un procedimento penale può iniziare o meno, anche se sussiste il fatto reato, se vi sono particolari condizioni. Oggi si esamina il caso in cui il fatto, penalmente rilevante, è comunque di particolare tenuità

Cos’è un fatto tenue, e come lo si identifica

Il concetto è stato recentemente introdotto nel nostro codice penale. Nell’articolo in questione si prevede che, in determinate condizioni, un fatto, previsto dalla legge quale reato, comporti la non punibilità di chi lo commette per particolare tenuità. In parole povere, chi si rende responsabile di un reato può non essere punito in virtù della particolare tenuità del fatto.

La volontà deflattiva della norma, ossia la sua vocazione ad alleggerire il sistema giudiziario, è del tutto evidente. Lo scopo della norma infatti, è di giungere a una rapida soluzione, mediante un decreto di archiviazione o con una sentenza di assoluzione, di procedimenti iniziati nei confronti di soggetti che abbiano sì commesso un reato, ma da ritenere non punibili perché complessivamente lo si considera come un fatto tenue. La giustizia avrà così più risorse per affrontare processi più complessi, fermo restando la possibilità per la persona offesa di agire in sede civile per il risarcimento del danno.

E’ questa la portata innovativa della norma, che, in qualche modo, trova dei precedenti nel nostro ordinamento, dall’improcedibilità dell’azione penale qualora il fatto sia di particolare tenuità, fino all’irrilevanza del fatto quale causa di non luogo a procedere per il processo penale minorile. Ovviamente in quest’ultimo caso l’interesse è quello di tutelare il minore, mentre nel primo la volontà del legislatore è sempre quella deflattiva.

L’istituto del fatto tenue, in ogni caso, è di particolare interesse per chi viene coinvolto in fatti di penale rilevanza. Certo, questo a patto che si tratti di episodi del tutto lievi messi in essere senza un’effettiva volontà delinquenziale e comunque con modalità tali da non destare un grave allarme sociale.

Il vero problema è quello di comprendere quando possiamo considerare un fatto tenue.

Il legislatore ha posto un limite oggettivo per stabilire la tenuità del fatto. La normativa di cui abbiamo parlato, infatti, può applicarsi solo a fatti che prevedono una pena massima pari a cinque anni.

Al limite oggettivo poi si affianca un limite soggettivo: il fatto va considerato tenue tenendo conto delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo che il reato ha cagionato. Per stabilire le modalità della condotta bisognerà basarsi sulla previsione di legge (HL art. 133 c.p.) e quindi, in definitiva, si considera un fatto tenue quando, “rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado di colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale” ( Cass. Pen. Fasc. 11, 2004, p. 3882).

Dalla modalità della condotta è possibile senza ombra di dubbio valutare l’intensità del dolo o della colpa.

La valutazione dell’esiguità del danno va fatta in concreto, nessuna precostituita preclusione categoriale è consentita. Questo perché, dovendosi compiere una valutazione sulla effettiva manifestazione del reato, sulle sue effettive conseguenze, non sono ammesse presunzioni.

“Non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipa. E’ la concreta manifestazione del reato che ne segna il disvalore”.

Cass., sez. un., 25 febbraio (dep. 6 aprile) 2016, n. 13681, Tushaj

Il secondo e il terzo comma dell’art. 131 bis stabiliscono degli ulteriori limiti oggettivi che comportano la disapplicazione della norma. Affermano infatti che un fatto non può considerarsi di particolare tenuità se il reato è stato commesso per motivi abietti o futili, con crudeltà, anche verso animali. Ancora, adoperando sevizie, approfittando delle condizioni di minore capacità di difesa della vittima, o l’aver cagionato, anche come conseguenze non volute, la morte o lesioni gravissime ad una persona. Si tratta di una serie di limiti oggettivi che impediscono l’applicazione della norma e non lasciano spazio ad interpretazioni di sorta.

Il terzo comma, infine, prevede non sia possibile considerare tenue un danno quando il comportamento del reo possa considerarsi abituale. Si è in presenza di una norma tassativa di tipizzazione dell’abitualità. Ma mentre alcune indicazioni della norma sono chiare, atteso il riferimento ad istituti codicistici -delinquente abituale- appaiono più oscuri gli altri riferimenti.

La legge fa riferimento a più reati della stessa indole, ovvero che presentano caratteristiche comuni. Perché si possa parlare di reati della stessa indole, però, si deve essere almeno in presenza di illeciti così considerati sul piano giuridico. Parliamo quindi di comportamenti considerati reati perché hanno dato luogo a condanne o perché si trovano al cospetto del giudice. Infatti quei comportamenti che non hanno avuto rilievo giuridico non potranno mai dar luogo al concetto di abitualità, perché non sono mai stati portati al cospetto del giudice o addirittura delle Forze dell’Ordine.

Il comportamento va considerato abituale anche quando abbia ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate.

In questo ultimo caso siamo innanzi ad un solo fatto che abbia tuttavia ad oggetto più condotte, anche unite dal vincolo della continuazione. Si pensi per esempio a determinati reati, come i maltrattamenti in famiglia, che prevedono più condotte.

Ogni condotta, singolarmente considerata, potrebbe dirsi tenue, ma non lo è più quando il fatto è reiterato.

La concezione di fatto tenue ha sicuramente una portata innovativa, ma non rappresenta la volontà dell’ordinamento di rinunciare a perseguire chi compie un reato. Lo scopo, invece, è di evitare che fatti che non destano particolare allarme sociale e che possono trovare un’adeguata definizione in sede civile, vadano ad intasare la giustizia penale. Questo contribuisce a liberare risorse affinché il sistema giudiziario possa perseguire, invece, quelle condotte che effettivamente creano danni alla società.

L’argomento del fatto tenue è davvero molto complesso, tanto che spesso si configura allo scuro del reo. Per questo occorre sempre avvalersi del consiglio di un legale: rivolgiti al nostro studio se ne hai bisogno, la prima consulenza è senza impegno!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon

patteggiamento

Il patteggiamento

Quando si viene chiamati in giudizio esiste il modo di evitare il giudizio? La legge prevede la possibilità di accodarsi per trovare una soluzione che eviti le lungaggini e le spese di un processo? In effetti una procedura simile esiste: è quella che chiamiamo patteggiamento.

Il patteggiamento: di cosa stiamo parlando

Detto anche applicazione della pena su richiesta delle parti, il patteggiamento è un rito premiale, perché porta a una riduzione della pena prevista fino a un terzo, e eltresì un rito alternativo, in quanto si adotta a fronte della rinuncia allo svolgimento del giudizio.

Consiste in un accordo tra il pubblico ministero e l’imputato per la richiesta da sottoporre al giudice della pena che viene concordata in relazione al fatto oggetto di reato, purché si rientri nel limite finale di due anni di pena. Un’estensione temporale è possibile nel cosi detto patteggiamento allargato, che è stato  introdotto dalla legge n° 134 del 12/06/2003, con riferimento ai delitti e contravvenzioni per i quali sia applicabile, a seguito della riduzione, una pena detentiva superiore a due anni e un giorno ed inferiore a cinque anni.

Non solo una riduzione: le pene accessorie

Oltre alla riduzione, come sopra detto, fino a un terzo, prevede anche la mancata applicazione delle pene accessorie e la mancata condanna al pagamento delle spese processuali. Oltre a questo, prevede che la sentenza penale di applicazione della pena non abbia alcuna efficacia nei giudizi civili o amministrativi.

Un ulteriore vantaggio consiste nel fatto che il reato è estinto, quando è stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, se nel termine di cinque anni (dal passaggio in giudicato della sentenza) quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di due anni, quando la sentenza concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole.

Quanto al momento in cui può essere richiesto, esso può essere adottato sia in fase di indagini preliminari, sia fino all’udienza preliminare o al dibattimento.

Richiedere un patteggiamento è una questione delicata

Per questo farsi assistere al meglio da un avvocato che possa consigliarti al meglio è fondamentale. Se hai bisogno di assistenza non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti. 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

messa alla prova

Messa alla prova, un modo costruttivo di estinguere un reato.

La giustizia non va in un’unica direzione. Se si è causato danno alla società tanto da venire sottoposti a un procedimento giudiziario, non esiste solo la pena detentiva o quella pecuniaria per espiare la propria colpa. Un’alternativa, relativamente nuova e di sicuro innovativa, è la sospensione del processo con messa alla prova.

In cosa consiste la messa alla prova

La sospensione del processo con messa alla prova viene introdotta con la legge 67 del 28 aprile 2017 ed è stata da ultimo oggetto di innovazione con il D.Lgs. 150/2022, la cosiddetta “Riforma Cartabia” . Il concetto di messa alla prova prevede lo svolgimento, da parte dell’imputato, di un programma di lavori di pubblica utilità in favore della collettività. Questo può essere svolto tramite attività di volontariato di rilievo sociale o presso istituzioni pubbliche, enti e strutture sanitarie.

La misura, però, non può essere concessa per ogni procedimento. Essa può essere concessa dal giudice per reati puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, estendendola dagli originari limiti edittali dei quattro anni. Questo purché si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori da parte dell’autore compatibili con l’istituto. L’esito positivo comporta l’estinzione del reato, mentre l’esito negativo comporta la revoca della sospensione e la ripresa del procedimento.

Ma cosa è necessario fare per ottenere la sospensione del processo con messa alla prova, e quali sono i passaggi che la contraddistinguono?

Prima di tutto, l’imputato dovrà presentare una richiesta, personalmente o a mezzo di un procuratore speciale entro la prima udienza. Questa dovrà contenere la propria disponibilità, la situazione personale e familiare e l’attività lavorativa. Novità ulteriormente introdotta dalla Riforma è la possibilità  che detta proposta sia formulata anche dal Pubblico Ministero, oltre che dallo stesso imputato. Quest’ultimo può formulare la proposta anche nel corso delle indagini preliminari, indicando la durata ed i contenuti del programma, a cui l’indagato può aderire nel termine di venti giorni.

Inizia il programma di trattamento: come si svolge

A questo punto, il programma di trattamento viene elaborato di concerto con l’ufficio di esecuzione penale esterna. Il periodo di sospensione del procedimento può essere nel massimo uno o due anni, a seconda dei reati per cui si procede.

Una volta elaborato il programma, tenendo conto delle occupazioni lavorative e delle caratteristiche della persona imputata, viene eseguito. Infine, viene verificato l’esito del programma: se la prova ha esito positivo, il reato viene estinto. Se, invece, l’esito è negativo la sospensione viene revocata e il procedimento riprende.

Può capitare a tutti di incorrere in problemi legali, che a volte risultano in un processo a carico della persona a cui viene contestato l’illecito. Per ottenere la sospensione del processo con messa alla prova, comunque, il primo passo è rivolersi a un legale: contatta il nostro studioTutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi