messa alla prova

Messa alla prova, un modo costruttivo di estinguere un reato.

La giustizia non va in un’unica direzione. Se si è causato danno alla società tanto da venire sottoposti a un procedimento giudiziario, non esiste solo la pena detentiva o quella pecuniaria per espiare la propria colpa. Un’alternativa, relativamente nuova e di sicuro innovativa, è la sospensione del processo con messa alla prova.

In cosa consiste la messa alla prova

La sospensione del processo con messa alla prova viene introdotta con la legge 67 del 28 aprile 2017 ed è stata da ultimo oggetto di innovazione con il D.Lgs. 150/2022, la cosiddetta “Riforma Cartabia” . Il concetto di messa alla prova prevede lo svolgimento, da parte dell’imputato, di un programma di lavori di pubblica utilità in favore della collettività. Questo può essere svolto tramite attività di volontariato di rilievo sociale o presso istituzioni pubbliche, enti e strutture sanitarie.

La misura, però, non può essere concessa per ogni procedimento. Essa può essere concessa dal giudice per reati puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni, estendendola dagli originari limiti edittali dei quattro anni. Questo purché si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori da parte dell’autore compatibili con l’istituto. L’esito positivo comporta l’estinzione del reato, mentre l’esito negativo comporta la revoca della sospensione e la ripresa del procedimento.

Ma cosa è necessario fare per ottenere la sospensione del processo con messa alla prova, e quali sono i passaggi che la contraddistinguono?

Prima di tutto, l’imputato dovrà presentare una richiesta, personalmente o a mezzo di un procuratore speciale entro la prima udienza. Questa dovrà contenere la propria disponibilità, la situazione personale e familiare e l’attività lavorativa. Novità ulteriormente introdotta dalla Riforma è la possibilità  che detta proposta sia formulata anche dal Pubblico Ministero, oltre che dallo stesso imputato. Quest’ultimo può formulare la proposta anche nel corso delle indagini preliminari, indicando la durata ed i contenuti del programma, a cui l’indagato può aderire nel termine di venti giorni.

Inizia il programma di trattamento: come si svolge

A questo punto, il programma di trattamento viene elaborato di concerto con l’ufficio di esecuzione penale esterna. Il periodo di sospensione del procedimento può essere nel massimo uno o due anni, a seconda dei reati per cui si procede.

Una volta elaborato il programma, tenendo conto delle occupazioni lavorative e delle caratteristiche della persona imputata, viene eseguito. Infine, viene verificato l’esito del programma: se la prova ha esito positivo, il reato viene estinto. Se, invece, l’esito è negativo la sospensione viene revocata e il procedimento riprende.

Può capitare a tutti di incorrere in problemi legali, che a volte risultano in un processo a carico della persona a cui viene contestato l’illecito. Per ottenere la sospensione del processo con messa alla prova, comunque, il primo passo è rivolersi a un legale: contatta il nostro studioTutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

restituzione delle somme

Restituzione delle Somme Illecitamente Prelevate in Banca: Diritti, Tutele e Responsabilità dell’Utente

Con il graduale passaggio alla moneta elettronica, diminuiscono alcuni tipi di reato come le rapine e gli scippi, ma ne aumentano altri. Parliamo dei furti di denaro direttamente dai conti correnti e dai depositi bancari, con le tecniche più disparate e risultati a volte tragici per chi subisce il furto. Ma esiste la possibilità di restituzione delle somme illecitamente prelevate da malintenzionati?

Restituzione delle somme sottratte: cosa dobbiamo fare?

Sempre più frequentemente si sentono notizie di furti di bancomat, carte di credito o credenziali per accedere all’home banking. Che il furto avvenga tramite il prelievo fisico della carta o con il furto dei dati online, la conseguenza è sempre la stessa: trovarsi con prelievi o transazioni non autorizzate che mettono a serio rischio la sicurezza delle proprie finanze. Tuttavia, se l’utente ha agito correttamente e ha adottato le necessarie precauzioni, la legge prevede il rimborso delle somme illecitamente prelevate. 

Nel caso in cui si riscontrino prelievi o pagamenti non autorizzati, è fondamentale presentare un reclamo formale alla banca indicando le operazioni sospette e allegando la documentazione utile alla corretta ricostruzione dei fatti. Ad esempio la copia della querela o la puntuale indicazione di eventuali testimoni. Questo permette alla banca di avviare la procedura per disconoscere le transazioni illecite. Una volta presentato il reclamo, la banca ha l’obbligo di verificare la situazione e risarcire il cliente per le somme sottratte. Questo a meno che non riesca a dimostrare che le operazioni fraudolente siano state autorizzate dal cliente o facilitate da un comportamento colposo dello stesso. 

Infatti, grava sempre sulla banca l’onere di impedire prelievi abusivi, adottando misure di sicurezza adeguate per proteggere i clienti da frodi e operazioni non autorizzate, ed altresì l’onere di dimostrare che il prelievo non è opera di terzi, ma è riconducibile comunque alla volontà del cliente.  

La responsabilità del correntista

Il correntista, d’altro canto, è responsabile e subisce le conseguenze della perdita solo se, per colpa grave, ha provocato o aggravato il prelievo illegittimo. Nell’ambito delle transazioni bancarie elettroniche, l’utente ha infatti una responsabilità fondamentale nel proteggere i propri dati sensibili. Se non adotta le necessarie precauzioni di sicurezza, potrebbe essere ritenuto corresponsabile dei danni causati dal furto. Un comportamento negligente, ad esempio, è la conservazione cartacea del PIN unitamente alla carta di credito. 

Tuttavia, l’Arbitro Bancario Finanziario (ABF) ha precisato che, in caso di furto con destrezza degli strumenti di pagamento, non può essere attribuita alcuna responsabilità al cliente per violazione degli obblighi di custodia della carta e del relativo PIN. In questi casi, infatti, non si può parlare di colpa grave, soprattutto se il cliente è stato vittima di un’azione coordinata finalizzata al furto. 

Restituzione delle somme: cosa dice la legge?

La legge impone agli istituti di credito di garantire che le operazioni siano effettuate esclusivamente dal titolare del conto. Pertanto, se la banca non riesce a provare che sia stato il cliente ad autorizzare l’operazione fraudolenta o che quest’ultimo abbia collaborato al furto o lo abbia in qualche modo agevolato, ha l’obbligo di risarcire il correntista per le somme illecitamente sottratte. 

Conoscere i propri diritti

La restituzione delle somme illecitamente prelevate è un diritto del cliente, tutelato dalla legge, a condizione che quest’ultimo adotti comportamenti responsabili e tempestivi. Se la banca si rifiuta di risarcire il cliente, l’unica soluzione è ricorrere alle vie legali. Se ne hai bisogno, rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti

imputabilità

L’imputabilità: quando, come e per chi scatta il procedimento penale

Si tende a pensare che, nel momento in cui viene commesso un reato, le persone sospettate finiscano sotto processo. In realtà è molto più complicato di così, perché all’equazione immediata che si fa da non addetti ai lavori manca una variabile fondamentale: l’imputabilità

Imputabilità: di cosa si tratta 

L’art. 85 del codice penale stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. 

Ma chi è imputabile? 

Lo è il soggetto che, al momento del compimento del fatto era capace di intendere e volere. Devono sussistere entrambe queste capacità perché il soggetto possa essere considerato imputabile. La capacità di intendere è quella di comprendere quello che si sta facendo, quindi la percezione della realtà. 

La capacità di volere invece viene considerata la capacità di autodeterminarsi, quindi di comprendere l’effetto delle proprie azioni. Chiarito questo la legge stabilisce quali soggetti possono considerarsi non imputabili, cioè persone che, a prescindere dalla gravità dei fatti commessi, non possono essere considerati colpevoli 

L’imputabilità per i minori 

Sono per legge non imputabili i minori di quattordici anni. Il legislatore ha previsto che, sotto detta soglia di età, l’immaturità del soggetto è tale da escludere la sua capacità di volere. Questo non significa che , a tutela della società ma anche dello stesso minore, non possano essere adottate delle misure nei confronti del minore che ha compiuti fatti particolarmente gravi, ma tali misure non potranno mai essere considerate una pena. 

La capacità di un soggetto minore ultraquattordicenne, invece, va valutata caso per caso. Va detto, tuttavia, che in presenza di soggetti minorenni la pena ha soprattutto un fine di recupero e un fine rieducativo, essendo evidente che un soggetto minorenne può essere ampiamente recuperato al vivere civile, sicché la legislazione minorile tende soprattutto a tutelare il minore per poterlo recuperare. Le regole processuali e quelle relative alla pena sono parzialmente difformi da quanto stabilito per un adulto, e ciò perché il fine primo è quello di cercare di togliere il prima possibile il minore dal circuito giudiziario o addirittura evitare che lo stesso abbia contatti con tale circuito. 

Gli infermi di mente: un caso complesso 

Il vizio di mente esclude l’imputabilità del soggetto. I problemi sono legati al fatto che qui la scienza giuridica si interseca con quella psicologica. Neppure in psicologia esiste una definizione di vizio di mente. Esistono ovviamente dei casi di infermità totale per cui il soggetto non solo non si rappresenta la realtà ma non ha alcuna coscienza delle proprie azioni, ed in questo caso dovrà essere prosciolto, si applicheranno, ovviamente , delle misure di sicurezza. Ci sono, invece, casi di seminfermità quando chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere e di volere”. 

In questo caso la pena sarà ridotta. 

Gli stati emotivi e passionali, quali la gelosia non saranno mai considerati una situazione di infermità 

L’imputabilità per i sordomuti 

L’art 96 del codice penale stabilisce che non è imputabile il sordomuto che, a causa della sua infermità, non era capace di intendere e volere al momento del fatto. Questo significa che, anche nel caso del soggetto sordomuto, va valutata caso per caso 

Imputabilità per tossicodipendenti e alcoldipendenti 

In questo caso vi sono diverse situazioni previste dal legislatore. Solo l’ubriachezza accidentale esclude l’imputabilità (per esempio l’operaio che ha inalato fumi di alcool lavorando in una distilleria) , ma se l’ubriachezza e la tossicodipendenza sono volontarie o colpose non escludono la capacità del soggetto, ed anzi, qualora il soggetto si sia procurato lo status di incapacità per commettere il delitto la pena sarà aumentata. Solo se l’uso dell’alcol o della sostanza stupefacente ha provocato una cronica intossicazione nella persona, tale da poter considerare lo stato del soggetto come una malattia, sarà possibile escludere o comunque gradare l’imputabilità del soggetto. 

Mai restare da soli di fronte alla giustizia 

Essere accusati di un reato è circostanza spiacevole che provoca particolari ansie e paure, ma la legge attribuisce a tutti il diritto di difendersi, e soprattutto di essere rappresentati al meglio da un legale specializzato. L’assistenza di un avvocato è un diritto, nessuno dovrebbe restare solo in una simile circostanza. Se ne hai bisogno, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti

decreto penale di condanna

Decreto Penale di Condanna: la conversione della pena definitiva

Siamo abituati a pensare che, quando una persona viene giudicata colpevole di un reato, la condanna si traduca in un periodo di reclusione. Eppure non è sempre così: la legge prevede infatti alcuni modi per non comminare il carcere a un imputato ritenuto colpevole, e uno di questi è il decreto penale di condanna

Cos’è il decreto penale di condanna, e cos’è cambiato recentemente

Il decreto penale di condanna è un provvedimento del Giudice per le indagini preliminari, disposto su richiesta del Pubblico Ministero. Viene adottato quando per i reati contestati è possibile applicare una sanzione finale costituita dalla sola pena pecuniaria, anche se in sostituzione di quella detentiva.

Attualmente, a seguito della riforma Cartabia, le condizioni sono variate rispetto a prima. Il valore giornaliero di ragguaglio tra la pena detentiva convertita in pecuniaria, ossia quanto denaro dovrà versare il reo per ogni giorno di reclusione comminato, non può essere inferiore a euro 5 e superiore a euro 250 giornalieri.  Precedentemente andava da un minimo di 75 euro a un massimo di 225 euro. Nondimeno deve corrispondere alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria. Si tengono in considerazione sia le complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita sia dell’imputato sia del suo nucleo familiare.

Quali sono i vantaggi di questa alternativa?

Il vantaggio del decreto penale di condanna consiste nel fatto che non si provvederà alle spese del procedimento né all’applicazione delle pene accessorie. Inoltre, anche se divenuto esecutivo, ovvero passato in giudicato e quindi definitivo perché non più suscettibile di impugnazione, non ha efficacia nel giudizio civile. 

La caratteristica più degna di nota è che il reato si estingue se nel termine di 5 anni, se concerne un delitto, o di due anni nel caso di una contravvenzione, l’imputato non commette un altro reato della stessa indole. Si cancella cosi l’effetto penale e la condanna non risulterà di ostacolo ad una successiva sospensione condizionale della pena.

L’opposizione al decreto penale di condanna

Tuttavia, se non fosse ritenuta la migliore soluzione per il caso di specie, il decreto penale può essere opposto, personalmente o tramite il difensore, entro quindici giorni dalla notificazione. Con l’opposizione possono essere richiesti dei riti alternativi per la definizione del processo, come il giudizio abbreviato, il giudizio immediato o il patteggiamento.

Nell’ultima parte della disposizione è stato inoltre modificata dalla riforma la possibilità della sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. Dapprima era richiedibile sempre a mezzo di opposizione. Adesso basterà una semplice istanza di concessione di un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente e il programma rilasciato dall’ufficio di esecuzione penale esterno .

Una piccola premessa di buon senso

Per usufruire di tutte le possibilità e le tutele che la legge ci mette a disposizione è fondamentale essere ben consigliati e, soprattutto, ben rappresentati. Affidarsi a un legale non è semplicemente un consiglio. È una norma di buon senso tanto immediata da essere riconosciuta come diritto fondamentale da tutte le costituzioni moderne. Se hai bisogno di assistenza puoi rivolgerti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

registro delle notizie di reato

Registro delle notizie di reato: conoscere e proteggersi


“Se solo avessi potuto saperlo prima… avrei limitato i danni”. 

Può capitare che una persona venga a conoscenza di essere stato denunciato, o di essere sottoposto ad indagine,  solo dopo diverso tempo dall’avvio delle indagini preliminari a suo carico. Eppure un sistema per averne contezza sin da subito c’è: la consultazione del registro delle notizie di reato. Vediamo come funziona. 

Registro delle notizie di reato: alla base il procedimento penale

Può capitare che un soggetto sia sottoposto a indagini senza esserne a conoscenza. Questo avviene quando non è necessario un coinvolgimento diretto dell’indagato, ad esempio quando non sono previsti né interrogatori né perquisizioni. In tali circostanze, l’indagato scoprirà l’esistenza delle indagini solo al termine di esse, ricevendo l’avviso previsto dall’art. 415 bis c.p.p.; solo allora potrà tentare di dimostrare la propria estraneità ai fatti contestati.

Dopo questa fase preliminare, il Pubblico Ministero (PM) dovrà decidere se esercitare l’azione penale, dando così avvio a un processo penale volto ad accertare la responsabilità dell’indagato, o se richiedere l’archiviazione al Giudice per le indagini preliminari (GIP) nel caso ritenga che la notizia di reato sia infondata, oppure in base alle disposizioni dell’art. 411 c.p.p.

Non è possibile agire fin dai primi momenti?

Ma se una persona ha il timore di essere stata denunciata, può in qualche modo scoprirlo prima di essere contattata dalla polizia o dal PM? La risposta è contenuta nel Codice di Procedura Penale, in particolare nell’art. 335.

Attraverso un’apposita istanza da indirizzare alla Procura della Repubblica competente, è possibile avere conferma dell’esistenza di indagini in corso. Se ci sono, il richiedente può ottenere informazioni quali il numero del procedimento, il nome del pubblico ministero, la data di commissione del fatto e il reato contestato. Questo meccanismo consente all’indagato di “giocare d’anticipo”, cercando di convincere il Pubblico Ministero a richiedere l’archiviazione, ad esempio, chiedendo di essere sottoposto a interrogatorio per presentare la propria versione dei fatti.

Registro delle notizie di reato: non sempre è un’opzione

È però fondamentale che la comunicazione dell’avvio di un procedimento non comprometta il buon andamento delle indagini. Per questo motivo, il legislatore ha previsto un limite: nelle ipotesi di reato più gravi e nei delitti di criminalità organizzata, il pubblico ministero può disporre il segreto sulle indagini. Questo equilibrio tra il diritto all’informazione dell’indagato e la necessità di garantire l’efficacia delle indagini rappresenta un aspetto cruciale del nostro sistema giuridico.

In conclusione, l’art. 335 c.p.p. offre una possibilità importante per coloro che temono di essere coinvolti in un procedimento penale, garantendo loro l’opportunità di agire tempestivamente. Tuttavia, è essenziale muoversi con cautela e consapevolezza, data la complessità delle indagini e le eventuali restrizioni imposte dalla legge.

Mai restare soli!

Quando si viene coinvolti in un procedimento penale, c’è una sola cosa da evitare: restare soli. Per quanto si possa essere bene informati e totalmente in buona fede, si ha sempre bisogno di un legale che ci assista. Se ne hai bisogno, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Giacomo Grasso

violenza sulle donne

Violenza sulle donne: prevenire e tutelare. 

La violenza sulle donne è un problema che, purtroppo, anima quotidianamente la cronaca nazionale. Secondo il Viminale, in Italia le donne uccise nel corso del 2023 sarebbero ben 109, dato in calo del 13% rispetto all’anno precedente ma abbastanza elevato da non permettere di abbassare la guardia. Di queste, 90 sarebbero state assassinate in ambito familiare o affettivo, e 58 per mano del partner o dell’ex partner. 

Nel mondo la violenza contro le donne interessa 1 donna su 3. Similmente, in Italia i dati ISTAT mostrano che almeno il 31.5% ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. 

Il gap legislativo riguardo la violenza sulle donne

Nonostante la violenza di genere sia ormai un fenomeno tristemente diffuso e dalle percentuali consolidate, nel Codice penale e nel Codice di rito non vi è una precisa connotazione di genere in tal senso, cosa che invece ritroviamo nelle fonti internazionali come la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, la Direttiva 2012/29/UE e la Convenzione d’Istanbul, la quale al suo articolo 3 designa come violenza nei confronti delle donne  

una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”. 

Secondo il rapporto dell’OMS “Violence Against Women Prevalence Estimates” la violenza contro le donne rappresenta un problema di salute dalle proporzioni enormi e, in quanto tale, meritevole della massima attenzione e tutela. 

La legge italiana in merito alla violenza sulle donne

In Italia, la prima significativa novella legislativa in questo senso, si è avuta con l’approvazione della Legge 15 febbraio 1996, n. 66, espressione di una vera e propria rivoluzione sociale e culturale grazie alla quale la sessualità è divenuta valore imprescindibile della persona, simbolo della libertà dell’autodeterminazione dell’individuo. Con questa riforma i delitti contro la libertà sessuale, dapprima collocati nel Libro Secondo, Titolo IX dei delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume del Codice penale, sono statati finalmente posizionati all’interno del titolo XII rubricato “dei delitti contro la persona” ed in particolare nella sezione dedicati ai delitti contro la libertà personale.  

Per la prima volta viene quindi valorizzata la persona umana e si acquista consapevolezza sul fatto che la violenza sessuale produce nella vittima una serie di effetti patologici dovuti sia dall’entità oggettiva dell’atto, sia dall’entità soggettiva del trauma subito dalla vittima che vede leso in profondità il proprio diritto all’autodeterminazione.  

Non solo violenza sessuale: le altre leggi e normative vigenti

Nel corso dei decenni si sono susseguiti diversi interventi legislativi sul tema, tra i quali meritano menzione la Legge 27 giugno 2013, n. 77 di ratifica della Convenzione di Istanbul, pietra miliare nel contrasto a questi fenomeni, e la Legge 19 luglio 2019 n. 69 recante ”Modifiche al Codice penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, meglio conosciuta come ”Codice rosso” che ha introdotto significative novità in tema di diritto sostanziale delineando, in particolar modo, nuove fattispecie di reato e velocizzando l’avvio del procedimento penale per alcune fattispecie delittuose come i maltrattamenti in famiglia, lo stalking e la violenza sessuale.  

Ed ancora, la legge n. 12 del 2023, che prevede l’istituzione di una Commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere e la legge n. 122 del 2023, che interviene sulla procedura da seguire nei procedimenti per delitti di violenza domestica e di genere, ovvero l’obbligo per il pubblico ministero di assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato 

La violenza sulle donne è un problema profondo nelle sue origini e nelle sue conseguenze

La violenza di genere, oltre che una violazione dei diritti umani, è un problema sistemico esteso i cui effetti si ripercuotono sul benessere dell’intera comunità. Essa, infatti, presenta conseguenze negative nel breve e nel lungo termine andando ad incidere sulla salute fisica e mentale della vittima, e spesso delle persone ad essa vicine, condizionandone così ogni aspetto della quotidianità. 

A ciò si aggiunga che resiste ancora uno stigma sociale e istituzionale nei confronti di chi subisce violenza che tace, nasconde e perfino giustifica quanto subito e che andrebbe estirpato quanto prima. Il non riconoscimento della violenza, la diffidenza verso le vittime, i pregiudizi e gli stereotipi sessisti fanno rivivere le condizioni traumatiche sofferte e minano la fiducia e la credibilità delle testimonianze. Gli ultimi dati dimostrano che il 58,8% delle donne è vittima del proprio partner o ex partner (57,8% nel 2020 e 61,3% nel 2019), il 25,2% di un altro parente, il 5% di un conoscente, e il 10,9% di uno sconosciuto. 

Quando è la figura d’attaccamento a perpetrare la violenza, si sviluppano molteplici circostanze drammatiche che si pongono altresì come ostacoli alla possibilità di presentare denuncia, non permettendo così un’adeguata valutazione del rischio e una tempestiva risposta. Tuttavia, anche nei casi in cui avvenga effettivamente uno svelamento dei soprusi subiti, i dati dimostrano la preponderante sussistenza di casi di vittimizzazione secondaria esercitata sia da parte delle forze dell’ordine che da parte dei servizi sociali, che sono i soggetti istituzionali che dovrebbero più incisivamente intervenire in questi casi. 

Una questione di cultura

Ciò detto, la considerazione primigenia, ed intellettualmente onesta, che occorre fare è che non sta esclusivamente alla legge risolvere un problema che sembra affondare le sue radici in una cultura profondamente patriarcale, che da troppo tempo fatica ad evolvere. Il compito dell’Ordinamento, al di là della tipica risposta sanzionatoria, sarebbe piuttosto quello di prevenire la commissione di questi reati attraverso un percorso, fondato sulla sensibilizzazione e sull’educazione alle tematiche di genere, in grado di coinvolgere le vecchie e le nuove generazioni in un’ottica intersezionale. 

Alle volte, il carico degli eventi è tale da non poterlo affrontare in solitudine: è in quei momenti che poter contare sull’aiuto di un professionista diventa fondamentale. Se hai bisogno di supporto legale, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti! 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

telecamere di sorveglianza

Telecamere di sorveglianza: un delicato equilibrio fra sicurezza e privacy!

Succede sempre più spesso che si senta la necessità di installare un sistema di telecamere di sorveglianza nella propria abitazione a causa dei continui furti nella zona in cui abitiamo e ciò al fine di tutelare la sicurezza della nostra abitazione e della nostra famiglia.

Ma possiamo installare le telecamere di sorveglianza senza autorizzazione?

Quale può essere il raggio di azione di dette telecamere? Incorriamo in illeciti se installiamo dette telecamere?

A queste domande dà risposta una fitta normativa che permette di chiarire i dubbi. Dobbiamo considerare che vi sono due interessi contrapposti: da un lato la tutela della nostra sicurezza. Dall’altro il diritto alla riservatezza di chi potrebbe essere inquadrato dalle telecamere stesse. Si tratta di due diritti uguali e contrapposti, definiti diritti di pari rango. Tuttavia in questi casi, poiché gli interessi sono uguali, vanno comunque bilanciati, ossia è possibile che un diritto sia in qualche modo compromesso a tutela dell’altro, purché la compromissione avvenga “nei limiti dello stretto necessario”.

Va subito chiarito che non serve alcuna autorizzazione per installare telecamere di sorveglianza nella propria abitazione, con lo scopo appunto di tutelare la nostra sicurezza. Questo, però, solo se la telecamera inquadra zone di nostra pertinenza. Se, al contrario, la telecamera inquadra zone di pubblico passaggio si applicherà il Codice della Privacy. Bisognerà quindi fare in modo che le riprese non permettano il riconoscimento dei soggetti,  magari inquadrando solo i piedi. Se vi è una registrazione andrà distrutta entro le 24 ore successive. Soprattutto sarà necessario informare che vi è un sistema di telecamere di sorveglianza che registra, e quindi appendere un cartello che informa chi passa della possibilità di essere registrato.

Ma cosa succede se si rileva una violazione del Codice della Privacy?

La violazione delle norme contenute nel Codice della Privacy permette a chi è stato leso di rivolgersi al Garante della Privacy con le modalità previste dal Codice per ottenere tutela. La tutela può anche essere richiesta sul piano civile, qualora le telecamere di sorveglianza abbiano arrecato un danno di cui si chiede il risarcimento. Infine, le videoregistrazioni del vicino potrebbero rappresentare una interferenza illecita nella vita privata e quindi dare luogo al reato di cui all’art. 615 bis c.p.

Questo è forse il caso più comune. Perché quando abbiamo a che fare con un vicino “spione” la cosa più semplice e più economica e quella di sporgere una denuncia. In quest’ultimo caso, tuttavia, non è affatto semplice che si possa dare dimostrazione del reato. La ragione è che viene considerato lecita l’installazione tutte le volte in cui vi sia un concreto pericolo per l’incolumità di beni e persone avanti ad un diritto di riservatezza. 

La giurisprudenza, in primo luogo, ha stabilito che la semplice immagine di una persona non costituisce un dato personale. Avanti a due diritti fondamentali contrapposti dovrà necessariamente cedere quell’interesse che, valutato caso per caso, sarà considerato meno rilevante dal Giudice chiamato a pronunciarsi.

Telecamere di sorveglianza: la discrezione del Giudice

In definitiva, qualora ci sia un vicino “spione” il Giudice dovrà valutare se questa intromissione nella vita privata altrui sia solo fine a se stessa oppure sia necessaria per tutelare l’incolumità del soggetto e della sua famiglia. Come avviene, per esempio, se il vicino in questione ha subito furti, atti di vandalismi nella propria proprietà e così via. 

In alternativa, anche se la zona dove si trova l’abitazione sia stata oggetto di attenzione da parte dei ladri. In questo caso, quindi, se il vicino in questione ha posizionato delle telecamere con la scopo di tutelarsi da un pericolo concreto rispettando quello che viene definito il principio di proporzionalità, sarà ben arduo dimostrare la sussistenza di un reato. Ciò a condizione che non vi sia un eccesso di installazione delle videocamere e soprattutto venga rispettata la normativa della privacy in vigore.

Privacy e sicurezza sono esigenze che vanno equilibrate, e non è facile!

La soluzione migliore, in questi casi, è sempre e comunque rivolgersi a un legale per capire preventivamente e con completezza come agire. Se hai bisogno di assistenza per una delle esigenze che abbiamo sollevato nell’articolo, non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon.

furto

Furto: un concetto solo all’apparenza semplice

Siamo abituati a dare alcuni concetti per scontati. Soprattutto in campo sociale, esistono atteggiamenti, azioni, o devianze che riconosceremmo subito appena li vediamo o ne sentiamo parlare. Ma siamo sicuri di poter dire davvero in cosa consista, ad esempio, un reato? Non parliamo di reati concettualmente complessi come il peculato o la diffamazione, difficilmente definibili se non per chi non abbia una formazione specifica. Pensiamo a reati con cui tutti -purtroppo- hanno dimestichezza. Come il furto, per esempio: tutti sapremmo idealmente spiegare cosa sia. Ma dal punto di vista legale siamo sicuri di sapere in cosa consista e cosa comporti? Anche il furto, in effetti, è qualcosa di molto complesso: scopriamo insieme di cosa si tratta di preciso.

Furto: la definizione della legge

Il Codice Penale, all’Art. 624, definisce il concetto di Furto. Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516. Oggetto del reato è la cosa mobile altrui, che deve uscire dalla sfera di possesso del detentore ad opera di un soggetto che deve agire con dolo specifico, ovvero allo scopo di trarre profitto, non necessariamente patrimoniale.

Al fine della punizione del reato è necessaria la presentazione di apposita querela, da formulare da parte della persona offesa negli uffici delle forze dell’ordine o a mezzo difensore. In queste viene descritto il fatto e risulti la volontà che si proceda in ordine al reato e che venga punito il colpevole. La querela deve essere presenta entro 3 mesi dal giorno in cui si ha notizia del fatto.

Non è quindi un reato per cui si possa procedere d’ufficio?

Non esattamente. Vi sono, in effetti, alcuni casi in cui si procede d’ufficio, quindi anche senza la necessità di presentazione di apposita querela. Succede quando la persona offesa è incapace per età o infermità, oppure nei caso in cui fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento. O, ancora, esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinata a pubblico servizio o pubblica utilità, difesa o reverenza. Oppure se il fatto è commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica.

Non esiste un solo tipo di furto: le aggravanti

Il reato di furto è aggravato, quindi soggiace a una pena più dura prevista nella reclusione da due a sei anni e della multa da euro 927 a euro 1.500, ai sensi dell’art. 625, in alcuni casi. Oltre a quanto già sopra accennato, anche nei casi in cui: se il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento; se il colpevole porta in dosso armi o narcotici, senza farne uso. Quando il fatto è commesso con destrezza. Ancora, se il fatto è commesso da tre o più persone, ovvero anche da una sola, che sia travisata o simuli la qualità di pubblico ufficiale o d’incaricato di pubblico servizio. Se il fatto è commesso sul bagaglio dei viaggiatori; se il fatto è commesso all’interno di mezzi di pubblico trasporto. Se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire o che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro.

Da ultimo, vi sono anche i casi di furto in abitazione e furto con strappo, disciplinati all’art. 624 bis c.p.

Il furto in abitazione avviene mediante introduzione in edificio o altro luogo destinato a privata dimora o nelle pertinenze di esso, intendendosi i luoghi ove una persona staziona per compiere attività di vita privata o professionale. Il furto con strappo avviene con la sottrazione di mano o di dosso della persona, ove la violenza attuata è diretta a vincere la resistenza del legittimo detentore.

Entrambe le fattispecie sono punite con la reclusione da quattro a sette anni e con la multa da euro 927 a euro 1.500.

In campo legale non è mai il caso di dare nulla per scontato

Se persino il furto è qualcosa, seppur concettualmente semplice, che diventa molto complesso quando si tratta di dargli una collocazione legale, è facile intuire quanto complesso sia destreggiarsi fra codici e procedure. Per questo, anche per le esigenze all’apparenza più semplici, è sempre meglio avere un esperto al proprio fianco. Per qualsiasi esigenza legale contatta il nostro studiotutela i tuoi diritti!

fornire le generalità

Rifiuto di fornire le generalità: si può fare o è contro la legge?

A tutti è capitato, nella vita, di essere fermato dalle forze dell’ordine o da un pubblico ufficiale e di dover fornire le generalità. Non indoriamo la pillola: dover fornire le proprie generalità, esibire un documento e identificarsi, non è niente di terribile ma non è nemmeno gradevole, e soprattutto in alcune particolari circostanze siamo portati a rifiutare di fornirle. Ma possiamo davvero farlo, o è contrario alla legge? La risposta è complessa.

Rifiuto di fornire le generalità:cosa dice la legge?

Secondo l’articolo 651 del codice penale, chiunque, richiesto da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, rifiuta di dare indicazioni sulla propria identità personale, sul proprio stato, o su altre qualità personali, è punito con l’arresto fino a un mese o con l’ammenda fino a 206€. Si tratta di un reato comune, essendo il soggetto attivo qualsiasi persona che non adempia alla richiesta di un pubblico ufficiale, nell’esercizio dei suoi doveri, di fornire le proprie generalità.

Bisogna però specificare che, per pubblico ufficiale, non si intende solamente la polizia, ma anche ad esempio i controllori a bordo dei mezzi pubblici, che nel momento dell’espletamento del loro lavoro assumono detta qualifica. Il reato si realizza non solo quando non si forniscano le informazioni richieste, ma anche se successivamente si mostrino i propri documenti una volta intervenute le forze dell’ordine. Questo perché il reato in oggetto è un reato istantaneo, che si consuma quindi già nel primo momento di rifiuto di indicazione della propria identità personale.

Ma quindi basta fornire le generalità?

Invero, se si forniscono le proprie generalità non è poi necessario, per non incorrere in detto reato, esibire anche i documenti. In questo secondo caso, se poi le generalità non risulteranno corrispondere a quanto dichiarato, si incorrerà nel diverso e più grave reato di cui all’articolo 495 del codice penale, “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o sulla qualità personali proprie o di altre “che prevede che chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona è punito con la reclusione da uno a sei anni”. In questo caso è necessaria la volontà di alterare una qualità della propria persona, unitamente alla rappresentazione che la dichiarazione viene resa ad un pubblico ufficiale.

Cosa serve per identificare una persona

Al fine di identificare le generalità di una persona, occorre fornire alcune informazioni. Nome, cognome, paternità, maternità, stato civile, data e luogo di nascita, domicilio, residenza, professione o arte, stato e cittadinanza. Quelle qualità che servono a circoscrivere il soggetto. Non è necessario che la richiesta del pubblico ufficiale avvenga per particolari motivazioni, in quanto proprio per la sua qualifica esso può richiedere a sua discrezione a chiunque di declinare le proprie generalità. Si limita solamente nel momento in cui è nell’esercizio delle sue funzioni.

Il rifiuto di fornire le generalità è molto diffuso, e chi lo fa non pensa alle possibili conseguenze

Ed è questa la ragione per cui informarsi, da fonti affidabili, è sempre una buona idea… ma spesso non basta! In determinati momenti abbiamo bisogno della consulenza di un legale specializzato: il nostro studio è a tua disposizione se ne hai bisogno. Tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

misure cautelari

Misure cautelari: prevenire ogni problema

Troppo spesso, purtroppo, il dibattito pubblico incappa in una polemica tanto anziana quanto spesso ripetuta. Ci si domanda come mai persone che, da quel che si legge sui giornali, hanno commesso un reato, vengono inopinatamente rilasciati pochi giorni dopo, mentre altri, invece, vengono trattenuti in carcere o vengono privati di diritti fondamentali come la libertà o la libertà di movimento. Ebbene, la ragione di questo è da ricercarsi in uno dei fondamenti della nostra idea di giustizia: la presunzione di innocenza. Questo comporta, finché non viene pronunciata la sentenza, il divieto di anticipare la pena, mentre consente l’applicazione delle misure cautelari

In cosa consistono le misure cautelari? 

Innanzitutto, cerchiamo di capire cosa l’espressione stia a significare. Le Misure Cautelari sono provvedimenti provvisori e immediatamente esecutivi, adottati dal giudice a sorpresa nel corso del procedimento. Il fine delle Misure Cautelari è di evitare che si verifichino situazioni di pericolo per la collettività o pregiudizi dell’attività processuale. 

Le misure cautelari possono essere: 

  • Reali, se incidono sulla libertà di disporre dei beni 
  • Personali, se incidono sulla libertà o sull’esercizio di diritti o facoltà della persona.  

In base al principio di tassattività, le misure cautelari non possono che essere quelle elencate dal codice.

Ma di cosa si tratta esattamente? 

Per quanto riguarda le Misure Cautelari personali, parliamo di limitazioni della libertà personale dell’indagato, di natura coercitiva. Possono consistere in: 

  • Divieto di espatrio 
  • Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria 
  • Allontanamento dalla casa familiare 
  • Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa 
  • Divieto e obbligo di dimora 
  • Arresti domiciliari 
  • Custodia cautelare in carcere 
  • Custodia cautelare in luogo di cura 

Possono consistere anche in limitazioni della propria attività lavorativa di natura interdittiva, come:  

  • Sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale 
  • Sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio 
  • Divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali.  

Le Misure Cautelari Reali, invece, sottopongono a un vincolo determinati beni, impedendo all’imputato di poterne disporre liberamente.  

Queste possono consistere in un sequestro conservativo, quando un bene viene bloccato e ne viene pregiudicata la disponibilità da parte dell’indagato, oppure in un sequestro preventivo, quando il bene viene sottoposto a sequestro perché si considera che tramite esso l’imputato possa aggravare o reiterare il reato eventualmente commesso.  

Quali sono le condizione per l’applicazione delle Misure Cautelari? 

Innanzitutto, per l’applicazione delle Misure Cautelari vige il limite Edittale di Pena: per ciascuna pena esistono limiti di massima e limiti di minima nella severità che il Giudice decide di applicare.Tale limite massimo di pena, prevista come condizione di applicabilità, impedisce quindi che possano applicarsi misure personali al di sotto di una soglia minima di gravità del delitto addebitato, valutata con rifermento alla pena detentiva stabilita nel massimo per il delitto. 

Inoltre, per poter applicare una misura cautelare devono sussistere gravi indizi di colpevolezza, ossia solidissimi elementi di prova tali da far presumere la condanna in un futuro processo. 

Devono poi venire riscontrate quelle che vengono chiamate ”Esigenze cautelari”. Possono essere comminate, infatti, per esigenze di indagini, qualora vi sia il concreto ed attuale pericolo di inquinamento delle prove. Per fuga o pericolo di fuga (se abbinato a una pena superiore ai due anni di reclusione), o per esigenze di tutela della collettività, qualora vi sia la possibilità che l’imputato possa nuocere al prossimo. 

Come si richiedono, e come si applicano le misure cautelari? 

Le misure cautelari personali sono applicate con ordinanza dal giudice solo su richiesta del Pubblico Ministero, ossia dal magistrato che formula l’accusa. La competenza a decidere nel corso delle indagini preliminari spetta al Gip, il Giudice per le Indagini Preliminari, mentre nel corso dell’udienza preliminare spetta al Gup, il Giudice per l’Udienza Preliminare. Nel corso del processo vero e proprio, infine, spetta al Giudice innanzi al quale pende il processo stesso. 

A seguito della richiesta spetta al giudice rigettare o accogliere la richiesta di misura cautelare. Qualora l’accolga, emette un’ordinanza cautelare. 

Le misure cautelari corrispondono a un’esperienza davvero difficile da gestire. 

Per questo è sempre meglio farsi seguire da un professionista. Contatta il nostro studio se hai bisogno di assistenza: tutela i tuoi diritti!  

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi