insinuazione del passivo

Insinuazione del passivo: recuperare il proprio credito oltre il fallimento

Specie nel momento in cui l’interesse economico entra in gioco, far valere i propri diritti è complesso e impegnativo. Cosa succede, per esempio, nel caso in cui un’azienda verso cui abbiamo un credito dichiara fallimento? Si potrebbe pensare che, in quel caso, il credito sia perduto, ma la legge contempla anche questo caso e aiuta il creditore con la cosiddetta insinuazione al passivo.

Cos’è l’insinuazione al passivo?

Per insinuazione al passivo si intende la domanda con la quale i creditori chiedono che il proprio credito venga ammesso al passivo di un fallimento o di una procedura di liquidazione giudiziale.

I debiti maturati prima del fallimento o della liquidazione giudiziale vengono, infatti, soddisfatti attraverso una speciale procedura, regolata rispettivamente agli artt. 93 e 101 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. “Legge Fallimentare) e agli artt. 201 e ss del D.Lgs 14/2021 e smi, diretta da un soggetto terzo e imparziale chiamato Curatore, sotto il controllo del Giudice.

Come si presenta?

La domanda di ammissione al passivo si propone con ricorso, da trasmettere a mezzo PEC, all’indirizzo indicato nell’avviso ai creditori, contenente i seguenti elementi:

  • indicazione della procedura cui si intende partecipare e delle generalità del creditore;
  • somma che si intende insinuare al passivo o descrizione del bene di cui si chiede la restituzione o la rivendicazione;
  • esposizione dei fatti e degli elementi di diritto a fondamento della domanda;
  • eventuale indicazione di un titolo di prelazione;
  • l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata ove si desidera ricevere le comunicazioni relative alla procedura.

Al ricorso dovranno, inoltre, essere allegati tutti i documenti necessari a dimostrare il diritto fatto valere.

I termini per la domanda di insinuazione al passivo

Il termine per presentare la domanda è di 30 giorni prima dell’udienza di verifica dello stato passivo.

La domanda, tuttavia, può essere presentata anche in data successiva, ma entro un anno dal decreto di esecutività dello stato passivo. In tal caso si parlerà di domanda “tardiva”: essa sarà comunque efficace, con il solo limite dell’esclusione per la parte eventualmente già distribuita.

Tutte le domande presentate successivamente a tale termine non potranno più essere ammesse, a meno che il creditore non provi che il ritardo è dovuto a causa a lui non imputabile. Si parlerà in tal caso di domande “ultra tardive”.

Il progetto di stato passivo e la decisione del giudice

Dopo la presentazione delle domande, queste vengono esaminate dal curatore, il quale predispone un progetto di stato passivo, che depositerà in cancelleria entro quindici giorni prima dell’udienza. Nello stesso termine, il curatore lo trasmetterà anche ai creditori, che potranno presentare osservazioni ed integrazioni documentali fino a cinque giorni prima dell’udienza.

All’udienza, che si svolgerà alla presenza dei creditori che vogliono parteciparvi, il giudice, con decreto succintamente motivato, potrà accogliere (in tutto o in parte), respingere o dichiarare inammissibile ciascuna domanda.

Creditori privilegiati e chirografari

Il principio generale che regola il concorso tra i creditori è quello della “par condicio creditorum”: tutti i creditori hanno diritto ad essere soddisfatti allo stesso modo, in proporzione al credito di ciascuno.

Vi sono tuttavia alcuni crediti, come ad esempio quelli dei lavoratori dipendenti, che sono detti privilegiati in quanto hanno diritto ad essere soddisfatti per primi.

Tutti gli altri invece, detti chirografari, concorreranno proporzionalmente solo su ciò che rimane all’esito della soddisfazione di quelli privilegiati.

L’insinuazione al passivo e i mille aspetti del diritto

Abbiamo trattato di un argomento che riguarda il diritto nel caso di liquidazioni o procedure di fallimento, ma ve ne sono altri migliaia che riguardano ogni fattispecie della vita, sia essa economica che sociale che familiare. Informarsi e leggere articoli come questo è importante se si vuole capire come funzioni la legge, ma padroneggiarne gli aspetti più minuti è tutto un altro discorso. Per questo rivolgersi a un legale è sempre la prima cosa da fare. Se hai bisogno di assistenza rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti! 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Camilla Marcato

decreto ingiuntivo

Decreto ingiuntivo: cos’è e come posso oppormi

Ci sono determinate esperienze, nella vita, che davvero non vorremmo vivere. Esperienze negative capaci di destabilizzarci e che spesso non sappiamo come affrontare. Una di queste è ricevere un decreto ingiuntivo!

A dire il vero, ricevere un decreto ingiuntivo non è così insolito e può capitare davvero a tutti. Cerchiamo quindi di capire meglio di cosa si tratta, e soprattutto, come opporci quando riteniamo che il decreto sia stato emesso ingiustamente!

Cos’è un decreto ingiuntivo?

Innanzitutto cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Un decreto ingiuntivo, detto anche ingiunzione di pagamento, è un atto giudiziario con il quale il Giudice ingiunge a un debitore di pagare una somma determinata di denaro o di consegnare una cosa determinata o una certa quantità di cose il cui valore va a colmare il debito. 

Il decreto ingiuntivo viene emesso a seguito di un procedimento speciale, chiamato anche “monitorio”, che consente di ottenere il più rapidamente possibile un titolo esecutivo.

La caratteristica fondamentale di questa particolare procedura è l‘assenza totale di un contraddittorio nella sua prima fase, ossia quella successiva al deposito del ricorso. Infatti, una volta ricevuto il ricorso iniziale, il Giudice esamina l’atto e i documenti e, se ritiene che vi siano i presupposti, emette il decreto ingiuntivo, senza fissare alcuna udienza.

Il ricorrente, quindi, dovrà depositare il ricorso per ingiunzione di pagamento presso la cancelleria del Giudice competente, il Giudice di Pace o il Tribunale a composizione monocratica. Fatto questo, una volta che il Giudice lo avrà emesso, senza conferire con l’altra parte, ricorso e decreto verranno portate a conoscenza del debitore. Qesto mediante una notifica per copia autentica, entro e non oltre 60 giorni dal deposito in cancelleria del decreto stesso.

Dopo essere stato notificato, il decreto ingiuntivo ha valore per dieci anni!

Inoltre, con questo titolo, nel caso in cui il debitore non dovesse pagare, sarà poi possibile attivare l’esecuzione forzata, ossia il pignoramento dei beni del debitore.

Quindi, come si vede, l’iter che porta all’emissione di un decreto ingiuntivo è molto semplice e può capitare di riceverne uno per una situazione “debitoria” di cui non siamo a conoscenza o che non riteniamo tale! 

Cosa fare, dunque, quando si riceve un decreto ingiuntivo?

Una volta notificato il decreto ingiuntivo, il “debitore ingiunto”, ossia il destinatario del decreto, può fare tre cose: 

1. Adempiere spontaneamente, cioè pagare ed evitare così un eventuale pignoramento.

2. Non fare nulla: adottata questa strategia, trascorsi 40 giorni dalla notifica, il creditore farà dichiarare definitivo il decreto ingiuntivo, chiedendo che lo stesso venga dichiarato „esecutivo“. Bisogna però prestare attenzione, perchè in alcuni casi il decreto ingiuntivo è “provvisoriamente esecutivo” fin da subito e in questo caso non occorre che il creditore attenda 40 giorni prima di poter agire. Ottenuta l’esecutorietà del decreto, il creditore può avviare l’azione esecutiva, notificando il precetto. Con questo atto egli “intima e fa precetto” al debitore di pagare entro e non oltre il termine di 10 giorni. Scaduto quest’ultimo termine, il creditore è libero di procedere a pignoramento, che sia esso mobiliare, presso terzi o immobiliare. 

3. Proporre opposizione al decreto ingiuntivo!

Come ci si oppone a un decreto emesso a nostro nome?

Lo strumento difensivo a disposizione dell’ingiunto è quindi l’Opposizione , con cui è possibile far valere eventuali vizi della notificazione. Ad esempio, il fatto che la notifica sia avvenuta oltre i 60 giorni dall’emissione del decreto ingiuntivo. Oppure l’incompetenza del Giudice adito con il ricorso per ingiunzione oppure contestare nel merito la stessa esistenza del debito. 

A seguito dell’opposizione si instaura un giudizio nel corso del quale il Giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo valuta il caso più approfonditamente e si pronuncia sulla natura o l’esistenza del credito azionato dal ricorrente. 

L’opposizione deve essere presentata, come si diceva, entro 40 giorni dalla notifica del decreto. Questo a meno che non si proceda a una “opposizione tardiva” (hyperlink art. 650 c.p.c.), possibile quando il debitore/ingiunto dimostri di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo per caso fortuito o forza maggiore, circostanze che dovranno essere dimostrate. Non sarà in ogni caso possibile opporsi una volta trascorsi 10 giorni dal primo atto di esecuzione. 

L‘opposizione può avere diversi esiti:

  • Può essere totalmente rigettata: in tal caso, il decreto diviene definitivo;
  • Può essere accolta integralmente: in questa ipotesi, il decreto non sarà più efficace;
  • Può essere accolta parzialmente: in questo caso il decreto sarà sostituito dalla sentenza, che diverrà il nuovo titolo esecutivo.

Come già anticipato, se il debitore non provvede al pagamento, ma nemmeno si oppone al decreto, oppure, se l’opposizione non va a buon fine, il creditore è autorizzato ad avviare l’esecuzione e, quindi, a procedere al pignoramento dei beni.

Quindi, se ricevi un decreto ingiuntivo, non farti prendere dal panico e contatta il nostro Studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan

tutela del marchio

La tutela del marchio – La disciplina

Il marchio è stato considerato per molto tempo solo quale strumento di marketing, in realtà può essere utilizzato per far crescere il valore di un’azienda o di un prodotto, acquisendo un proprio valore economico, diventando un “asset” intangibile. Per questo la tutela del marchio è fondamentale, un’esigenza che non è sfuggita alla legge. 

Tutela del marchio: il Trasferimento

Il proprietario del marchio può sfruttarlo in vari modi. Si può trasferire attraverso la licenza, permettendone l’uso per un periodo limitato e in maniera anche non esclusiva. In alternativa lo si può trasferire attraverso il merchandising, ovvero concedendo a terzi di utilizzare il marchio in settori molto differenti da quelli in cui il consumatore è abituato a vedere il brand. Per fare un esempio di tutela del marchio tramite trasferimento per merchandising si pensi alle case automobilistiche che hanno permesso l’uso dei propri marchi ad aziende che operano nel settore dell’orologeria, dell’oggettistica o dell’abbigliamento.

Tutela giudiziale

Come viene tutelato il titolare di un marchio registrato dal punto di vista giuridico? Il titolare di un marchio registrato può esercitare quattro diverse tipologie di azioni:

  • L’opposizione alla registrazione;
  • L’azione di contraffazione;
  • La concorrenza sleale.

Tutela del marchio:  l’opposizione alla registrazione

Si tratta di una procedura amministrativa, grazie alla quale i soggetti legittimati possono richiedere il rigetto della domanda di registrazione del marchio altrui. Infatti, dopo la richiesta di deposito del marchio, gli uffici provvedono alla sua pubblicazione affinché lo stesso sia portato a conoscenza dei terzi.

L’istanza di opposizione deve essere depositata per i marchi nazionali presso l’UIBM, Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, che ne verifica i requisiti formali e decide sull’ammissibilità. All’esito di tale decisione, le parti potranno stabilire se pervenire ad un accordo e in tal caso l’opposizione si estingue, oppure rimettere la decisione all’UIBM, che si pronuncerà nel merito accogliendo o rigettando l’opposizione.

L’azione di contraffazione

Si ha contraffazione tutte le volte in cui un marchio altrui viene utilizzato in maniera illegittima. Come risultato si creare confusione, anche solo potenziale, nel consumatore. Il titolare ha quindi la facoltà di vietare ai terzi di usare nella loro attività economica segni identici o simili al marchio per prodotti o servizi identici o affini.

Inoltre, si può farne divieto se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio.

Si può anche esperire l’azione in via cautelare d’urgenza, così che il Giudice, nell’ottica della tutela del marchio, ordini all’impresa concorrente di cessare immediatamente l’uso di un marchio. Inoltre, si può chiedere che la pronuncia del Giudice venga pubblicata su quotidiani o siti internet, a spese del soccombente. Infine, il titolare del marchio può richiedere la rimozione delle conseguenze della contraffazione, come per esempio la distruzione dei prodotti su cui appare il marchio contraffatto.

La concorrenza sleale

Il titolare di un marchio registrato può tutelarsi anche con un’azione di concorrenza sleale qualora un imprenditore concorrente utilizzi segni distintivi identici o simili al proprio marchio. Sono vietati gli atti volti a produrre confusione con i prodotti e/o i servizi di un concorrente.

La “confondibilità” di un prodotto o di un servizio deve essere valutata in relazione alle conseguenze che gli atti concorrenziali possono avere sul consumatore medio, cioè dotato di una ordinaria diligenza. Questi effettua le proprie scelte prescindendo da un esame attento di comparazione tra due prodotti.

Si parla invece di “imitazione servile” quando vengono copiate e riprodotte delle caratteristiche del marchio dotate di efficacia individualizzante. Idonee, quindi, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare un prodotto o un servizio ad una determinata impresa. Anche attraverso l’azione di concorrenza sleale può essere ottenuta l’inibitoria dell’uso illegittimo del marchio da parte dell’impresa concorrente come pure il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza.

Tutela del Marchio, una base del diritto societario. 

La materia, però, è complessa: conviene sempre affidarsi a un legale per non incorrere in errori che, poi, potrebbero penalizzare l’azienda. Se hai bisogno di assistenza per te o per la tua azienda contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con la dottoressa Alberto Padoan

individuare i beni

Individuare i beni del debitore: l’articolo 492- BIS del Codice di Procedura Civile

Consideriamo molto spesso come qualcosa di scontato l’idea che si possano recuperare i crediti dovuti da un debitore facendo conto sulle sue proprietà. Ma in effetti è molto più complesso di così: tanto per cominciare, per rifarsi su un debitore occorre conoscerne le sostanze, ossia individuare i beni di cui dispone. Ma è possibile? E come si fa?

Individuare i beni del debitore: la base legale

Il recupero dei crediti verso i debitori può presentare delle complessità. Per avviare un pignoramento è necessario innanzitutto capire di quali beni il proprio debitore dispone e quali crediti vanta nei confronti di terzi.

L’art. 492-bis c.p.c. così come riformato da ultimo dalla cosiddetta Riforma Cartabia (D.lgs. 149/2022), costituisce un efficace strumento per individuare tali beni ed andare “a colpo sicuro” quando si avvia una procedura esecutiva. L’art. 492 bis prevede che, su istanza del creditore, munito del titolo esecutivo e del precetto notificati, l’ufficiale giudiziario del Tribunale del luogo in cui il debitore ha la residenza/sede, proceda alla ricerca con modalità telematica dei beni da pignorare.

Come si possono individuare i beni del debitore all’atto pratico

La procedura per individuare i beni del debitore può essere avviata dopo la notifica del titolo esecutivo e dell’atto di precetto o addirittura prima della notificazione del precetto, ma solamente previa autorizzazione del Tribunale e solo qualora vi sia pericolo nel ritardo.

Una volta presentata l’istanza, l’ufficiale giudiziario accederà tramite collegamento telematico diretto alle banche dati delle pubbliche amministrazioni ed estrarrà le informazioni relative a:

conti correnti bancari;
– beni mobili o immobili di proprietà del debitore;
dichiarazioni dei redditi e certificazione unica;
rapporti di lavoro;
– contratti di locazione;
– rapporti con enti previdenziali (quali INPS).

Al termine delle ricerche, l’ufficiale giudiziario redigerà un verbale nel quale saranno indicate le banche dati consultate e i relativi risultati e ne darà comunicazione al creditore.

Cosa succede una volta eseguita la procedura

Quali sono i possibili esiti?

– ricerca negativa: in capo al debitore non risulta alcun bene, alcun reddito o alcun rapporto finanziario;
– ricerca positiva: in capo al debitore risultano uno o più beni o crediti.

In quest’ultimo caso potranno accadere due cose:

– se l’Ufficiale avrà trovato un unico bene/credito, procederà a pignorarlo d’ufficio;
– se invece avrà trovato più beni/crediti pignorabili, si rivolgerà al creditore, chiedendogli quali beni intende aggredire. Il creditore entro 10 giorni dalla comunicazione dovrà indicare, mediante apposito atto, quali beni intende sottoporre a pignoramento, qualora non lo faccia, gli atti gli verranno restituiti.

Attenzione, però: dalla proposizione dell’istanza, il termine di efficacia del precetto (cioè il termine entro il quale procedere con l’atto di pignoramento), è sospeso fino al momento della comunicazione, da parte dell’ufficiale giudiziario, degli esiti delle ricerche.

Individuare i beni del creditore: una procedura complessa e delicata

Non è semplice avviare un procedimento di recupero crediti, così come non è semplice difendersi nel momento in cui lo si subisce. Si tratta di procedure complesse che intaccano la proprietà privata, e che quindi devono essere eseguite sempre sotto la supervisione e con il consiglio di legali esperti, sia dal lato del creditore che da quello del debitore. Per questo ti consigliamo di rivolgerti al nostro studio, se ne hai la necessità: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Camilla Marcato

patto commissorio

Il divieto di patto commissorio

Quando pensiamo ai concetti di “pegno” e “ipoteca”, siamo portati a credere che, nel momento in cui il debito ad essi collegato non venga saldato, il creditore si possa rivalere direttamente sul bene dato in pegno o ipoteca, trattenendolo. Ma la realtà è molto diversa… Eventuali accordi in tal senso costituiscono, infatti, la violazione del cosiddetto “divieto di patto commissorio

Cos’è il patto commissorio e cosa dice la legge?

Il patto commissorio consiste in una clausola contrattuale (o in un accordo autonomo accessorio ad un altro contratto), in forza del quale creditore e debitore stabiliscono che ad un eventuale inadempimento, da parte del debitore, seguirà l’automatico passaggio in proprietà al creditore di un bene dato in garanzia. Tale bene verrà acquisito dal creditore al suo valore attuale, senza che rilevi se tale valore sia superiore o inferiore all’ammontare del credito.

Si tratta, tuttavia, di un’opzione non consentita dal nostro Codice civile, il quale all’articolo 2744 stabilisce il divieto di patto commissorio, prevedendo che:

È nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore”.

art.2744 CC

Perché il patto commissorio è vietato?

Il patto commissorio è vietato per una serie di ragioni, tra queste:

1) la tutela del debitore: il creditore, approfittando di una situazione di bisogno o difficoltà del debitore potrebbe spingerlo ad un accordo iniquo (dare in garanzia un bene di valore molto più elevato rispetto al credito);

2) il divieto di farsi giustizia da sé: il creditore non può farsi giustizia da solo e in caso di inadempimento dovrà seguire le procedure stabilite dalla legge;

3) non sarebbe tutelata la “par condicio creditorum”: senza una regolare procedura esecutiva, in caso di pluralità di creditori, si creerebbero delle disparità;

Il patto marciano

Altro istituto simile al patto commissorio, ma che a differenza di quest’ultimo è considerato lecito nel nostro ordinamento, è il patto marciano. Attraverso tale patto, le parti stabiliscono che, in caso di inadempimento da parte del debitore, un bene appartenente ad esso diverrà di proprietà del creditore, ma solo dopo una stima di valore effettuata da un soggetto terzo ed imparziale, e con l’obbligo per il creditore di restituire l’eventuale eccedenza rispetto all’importo del debito inadempiuto. In tal modo sarà assicurata la stessa funzione di garanzia fornita dal patto commissorio, ma senza il rischio di un indebito arricchimento.

Patto commissorio: la punta dell’iceberg

Il diritto legato ai meccanismi di debito e di credito è complesso e articolato, e ricco di tutele e obblighi che proteggano sia il creditore che il debitore. Farsi aiutare a comprenderne le sfaccettature da un professionista, è per questo fondamentale, per cui rivolgiti al nostro studio se ne hai bisogno: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Camilla Marcato

autotutela

Istanza in autotutela all’agenzia delle entrate: a cosa serve e come farla

Ricevere un atto dall’agenzia delle entrate è un’esperienza che nessuno vorrebbe mai vivere. Purtroppo, però succede spesso, anche se non sempre questo significa che il contribuente non abbia ragione! In questi casi c’è un meccanismo che interviene a tutela del contribuente: l’istanza in autotutela.

Il potere di autotutela

L’autotutela è un istituto deflattivo del contenzioso tributario previsto dall’art. 2-quater del D.L. n. 564/94 e dal D.M. 11 febbraio 1997 n. 37 e consiste nel potere concesso all’Amministrazione finanziaria di annullare, rivedere o correggere “d’ufficio” le proprie decisioni o i propri atti, nel caso in cui questi risultino affetti da vizi, senza la necessità di attendere la decisione di un giudice. Qualora l’Amministrazione non provveda in maniera autonoma, sarà il contribuente a poter sollecitare, tramite un’istanza, l’annullamento dell’atto viziato.

La domanda di autotutela all’Agenzia delle Entrate

La domanda di autotutela all’Agenzia delle Entrate-Riscossione consiste nella richiesta del contribuente al Fisco di procedere all’annullamento di un atto contenente errori quali:

  • errori di persona;
  • errori di calcolo;
  • errori sui presupposti dell’imposta;
  • mancata considerazione dei pagamenti effettuati regolarmente dal contribuente;
  • sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolati;
  • errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’Amministrazione;
  • doppia imposizione dello stesso tributo.

Gli atti che possono formare oggetto dell’istanza sono: cartelle esattoriali, intimazioni di pagamento, pignoramenti, avvisi di accertamento ecc.

Come presentare l’istanza?

È possibile presentare la domanda via mail o a mezzo Pec direttamente all’Ente che ha emesso l’atto viziato, con richiesta in carta bianca o mediante l’utilizzo dei moduli resi disponibili nel sito dell’Agenzia delle Entrate, indicando l’atto del quale si chiede l’annullamento e i motivi per i quali lo si ritiene illegittimo (dunque in tutto o in parte annullabile) e allegando la documentazione idonea a dimostrare le tesi sostenute. Dopo aver esaminato la richiesta, l’Ente interessato comunicherà al contribuente la propria decisione di accoglimento o di rigetto dell’istanza.

Attenzione!

È bene ricordare due cose:

1) il silenzio dell’Ente non può essere considerato come assenso all’istanza presentata;

2) la presentazione della domanda non vale ad interrompere i termini per presentare ricorso al giudice tributario.

Pertanto, qualora i termini per il ricorso stiano per scadere, è bene affrettarsi a proporlo; nell’eventualità in cui poi dovesse esserci l’accoglimento dell’istanza in autotutela, il procedimento nel frattempo instaurato potrà essere dichiarato estinto per cessazione della materia del contendere.

L’autotutela, però, a volte non basta…

La legge ci tutela, è vero, ma spesso per far valere la nostra buonafede e i nostri diritti occorre avere una conoscenza della legge stessa che, a meno di formazione ed esperienza specifiche, è difficile avere. Per questo farsi rappresentare da un professionista è sempre più che una buona idea, una vera e propria necessità: se hai bisogno di assistenza rivolgiti al nostro studiotutela i tuoi diritti!

compensazione dei crediti

Compensazione dei crediti: cos’è e come funziona

Molte volte, soprattutto nei rapporti commerciali, le parti sono nello stesso momento sia clienti che  fornitori, ossia hanno reciproci rapporti di debiti e crediti che maturano via via. Per esempio: una ditta conferisce dei beni a un’altra ditta e poi da questa riceve dei servizi di confezionamento e vendita dei prodotti stessi. In questi casi, entrambi gli attori commerciali emettono fatture per i loro crediti.

La legge prevede che in questi casi, i due debiti si possano estinguere fino alla concorrenza ossia per le quantità corrispondenti nel momento in cui vengono a coesistere.

Ovviamente perché questo si realizzi i due debiti devono avere per oggetto una somma di denaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere, ossia beni interscambiabili.

Come devono essere i debiti per essere compensabili?

Per poter avere compensazione automatica, i debiti devono essere certi, liquidi ed esigibili che sono tre caratteristiche giuridiche ben precise. Ma andiamo con ordine.

Certi, significa che non ci devono essere contestazioni, dubbi o incertezza sulla sua esistenza. Liquidi, significa che devono essere determinati nel suo importo ossia l’ammontare deve risultare espresso in misura determinata e non in modo generico.

Infine, esigibili, ossia che non siano sottoposti a condizione o termine. Molti debiti, infatti, sono posticipati nel loro pagamento o sono condizionati al verificarsi di alcune condizioni o situazioni pattuite tra le parti.

Quando non è possibile compensare i crediti?

L’articolo 1246 del codice civile pone dei limiti alla compensazione tra i debiti in cinque precise ipotesi ossia in caso di:

  1. credito per la restituzione di cose di cui il proprietario sia stato ingiustamente spogliato 
  2. credito per la restituzione di cose depositate o date in comodato;
  3. credito dichiarato impignorabile;
  4. rinunzia alla compensazione fatta preventivamente dal debitore;
  5. altri divieti stabiliti dalla legge 

In ogni caso, è possibile anche una compensazione volontaria, ossia le parti possono decidere volontariamente di compensare tra loro i loro reciproci debiti anche se non ricorrono esattamente le condizioni previste dalla legge.In questi casi è bene che le parti si accordino per iscritto con una chiara manifestazione di volontà, preceduta da una ricognizione delle loro posizioni contabili.

È compensabile il trattamento di fine rapporto del lavoratore con altri crediti del datore di lavoro?

I divieti di legge si hanno quando si parla di compensazione “propria” ossia le reciproche ragioni di debito – credito nascono da distinti rapporti giuridici e non anche dalla compensazione “impropria” quando le ragioni provengono da un unico rapporto.

Nel nostro caso, quando entrambi le ragioni nascono dal medesimo rapporto, ossia quello di lavoro, la compensazione è possibile. La Cassazione sull’argomento è tornata più volte confermando questo orientamento. Si veda ad esempio Cas. Sez. I, 26.10.2016 n. 21646.

Ci può essere compensazione giudiziale?

La compensazione legale e quella giudiziale si distinguono in quanto mentre la prima presuppone la presenza anteriore alla causa di due debiti liquidi ed esigibili, quella giudiziale richiede che il debito opposto in compensazione non sia liquido, ma di pronta e facile liquidazione.

Quindi interviene il Giudice per accertarne effettivamente il preciso ammontare e gli effetti della compensazione di verificheranno alla pronuncia della sentenza che la dichiara.

Anche per la compensazione dei crediti è meglio farsi seguire!

Soprattutto nel momento in cui in un rapporto lavorativo o semplicemente sociale sussistono questioni monetarie, cifre dovute o da esigere, prestazioni da pagare o debiti da saldare, la situazione si fa delicatissima e richiede la massima competenza. Per questo è sempre meglio rivolgersi a un legale! 

Se ne hai bisogno, puoi rivolgerti al nostro studio per una consulenza: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

il marchio

Il marchio: ecco l’identità dell’impresa

Tutti vediamo, ogni giorno, persone sfoggiare magliette griffate, automobili con il logo aziendale bene in vista sulla carrozzeria, nomi che ricorrono sui cartelloni pubblicitari o negli spot televisivi. Sono messaggi con un significato ben preciso e ciascuno di loro è essenziale a veicolare dei valori, una visione, uno stile. Tutto ciò è racchiuso in un solo elemento: il marchio.

Il marchio è l’identità dell’azienda esternato attraverso i suoi prodotti o la comunicazione che l’azienda sceglie di fare. Questo, per lo meno, nella percezione del quotidiano. Ma dal punto di vista della legge, il marchio è qualcosa di molto preciso, alla base di una materia complessa. 

Il marchio per la legge: ecco di cosa si tratta

Il marchio è un segno distintivo che ha come scopo quello di rendere individuabili sul mercato i prodotti e i servizi dell’imprenditore. In un sistema di mercato libero, il marchio è quell’elemento che consente al consumatore di conoscere e “valutare” le imprese in concorrenza tra loro.

Per quanto riguarda la legge, la disciplina del marchio è prevista dagli articoli 2569- 2574 del codice civile e dal Codice della proprietà industriale, come alla sezione prima del capo II – d. lgs. N. 30/2005, recentemente modificato dal d. lgs. N. 15/2019.

La funzione

Si parla comunemente di “marca” di un prodotto per riferirsi a quel segno impresso su un prodotto che lo distingue da un altro proveniente da un’altra impresa. Il marchio rientra quindi nella più ampia categoria dei segni distintivi, proprio in virtù della sua funzione distintiva.

Questa funzione è accompagnata dal diritto di esclusiva, che sussiste dal momento della registrazione dello stesso o, nel caso di marchio di fatto, dall’uso intenso e diffuso che gli abbia fatto acquisire notorietà non meramente locale. Tale diritto prevede che il marchio possa essere utilizzato da un solo soggetto.

L’oggetto del marchio

Oggetto possono essere:

Parole (segni denominativi);

Figure (segni figurativi);

Parole e figure (segni misti).

Un aspetto interessante riguarda il fatto che il marchio dev’essere qualcosa di estraneo al prodotto che identifica. Deve consentirne l’identificazione differenziandolo dagli altri, ma non costituirne una qualità. Insomma, marchio e prodotto, devono essere due entità che possano almeno essere pensate separatamente.

Il marchio vincente: come sceglierlo

Le parole astratte, che hanno un significato del tutto diverso dal prodotto che identificano sono solitamente quelle che danno origine a marchi forti. Questi sono dotati di alta capacità distintiva e che possono essere meglio difesi dalla contraffazione. Si pensi ad esempio alla Apple.

I marchi che invece contengono o richiamano parole o segni che fanno capire di quale prodotto o servizio si tratta sono invece considerati marchi deboli. Tuttavia, accade che un segno che nasce debole può diventare un marchio forte a seguito dell’uso che ne è stato fatto e della fama che ha acquistato sul mercato. È il caso, ad esempio, di Poltrone Sofà. È il fenomeno del cosiddetto “secondary meaning”. All’opposto, un marchio che nasce come distintivo ma diventa, a seguito dell’uso, un nome

generico riferito ad un prodotto può perdere la sua forza protettiva per effetto della cosiddetta “volgarizzazione”. Questo succede quando cioè il pubblico non percepisce più il collegamento tra il marchio e il suo titolare. Piuttosto ritiene che questo, parola, immagine o altro, indichi genericamente una intera categoria di prodotti o servizi. 

Tra questi: Cellophane, Scottex, Scotch, Biro, Barbie, Premaman, Mocio, Sottilette.

Il marchio, ad ogni modo, non può mai essere ingannevole, cioè non può contenere parole che facciano pensare che il prodotto contenga ingredienti o abbia qualità che in realtà non ha. Un tale marchio verrebbe considerato “decettivo”, ovvero ingannevole e come tale sarebbe nullo.

Chi può registrare un marchio e come

Ogni azienda dovrebbe tutelarsi dall’uso improprio dei segni distintivi che la contraddistinguono. Può farlo attraverso gli strumenti che sono messi a disposizione dall’ordinamento, come la registrazione del marchio.

Secondo la legge, in combinato disposto fra il codice civile l’articolo 19 del Codice della proprietà industriale, risulta che il marchio possa essere registrato da ogni imprenditore, da chi si adopera per diventarlo e da chiunque desideri utilizzarlo come tale e non per altri scopi.

E in Europa?

Nell’Unione europea il sistema di registrazione dei marchi è articolato in quattro livelli e la modalità prescelta dipende dalle esigenze dell’azienda interessata.

1. Se si intende ottenere la protezione in un solo Stato membro dell’UE, è possibile ricorrere alla soluzione nazionale in tre modi. Mediante il deposito della domanda di registrazione presso l’Ufficio Italiano Brevetti o Marchi oppure presso le Camere di Commercio industria e artigianato. Una terza opzione è presso gli uffici e gli enti pubblici individuati con decreto del Ministro dello sviluppo economico. Alternativamente, attraverso l’uso di fatto, intenso e diffuso, che faccia acquisire al marchio notorietà non meramente locale. 

Inoltre, colui che ha fatto uso di un marchio non registrato può continuare ad utilizzarlo. Questo nonostante la successiva registrazione da parte di altri, pur nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso.

2. Se si desidera conseguire la protezione in Belgio, nei Paesi Bassi o in Lussemburgo, ci si può avvalere della soluzione regionale. Si deposita una domanda presso l’Ufficio del Benelux per la proprietà intellettuale, il BOIP. Si tratta dell’unico ufficio di PI dell’Unione europea competente a livello regionale, per proteggere il brand in quei tre Stati membri.

3. Se ci si propone di acquisire la protezione in più Stati membri dell’UE, si può usufruire della soluzione europea, presentando una domanda di marchio UE presso l’EUIPO. Il deposito online presso l’Ufficio costa 850 EURO e viene effettuato in una sola lingua. A seguito della ricezione, la domanda viene sottoposta al controllo e al trattamento pertinenti e, una volta registrato, il marchio può essere rinnovato indefinitamente ogni 10 anni.

4. La quarta soluzione disponibile per acquisire la protezione nell’UE è quella internazionale. Consente di utilizzare una domanda di marchio nazionale, regionale o UE per estendere la protezione su scala internazionale. Questo in qualsiasi paese firmatario del Protocollo di Madrid.

Il brand è la punta dell’iceberg della tutela della proprietà industriale e intellettuale.

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Articolo scritto in collaborazione con la dottoressa Camilla Cagnin