diritto alla disconnessione

Diritto alla disconnessione: ricaricarsi… staccando la spina!


Paradossale a dirsi ma immediato nella vita di chiunque, tutti abbiamo bisogno di un periodo di distacco dal mondo per ricaricarci e tornare al nostro lavoro con più efficacia. Fin qui nulla di strano, esperienze di vita comune, eppure negli ultimi tempi le nuove forme di lavoro da remoto hanno imposto una riflessione seria su un argomento caro a tutti i lavoratori: il diritto alla disconnessione.

Il diritto alla disconnessione: tutto comincia con lo smart working.

Lo smart working è una modalità di lavoro che, durante il periodo di lock down, quasi tutti si sono trovati costretti a sperimentare e che sembra essere destinata a divenire parte della nostra quotidianità. Alcuni Stati, lo ricordiamo, hanno già preso atto del cambiamento in corso e hanno già introdotto norme volte a regolamentare lo smart working e riportare in equilibrio il rapporto fra vita e lavoro.

Secondo i dati diffusi dal Parlamento europeo, con l’avvento della pandemia il c.d. smart working ha avuto un incremento, rispetto al periodo precedente, di almeno un 30%, determinando un importante cambiamento nelle vite dei lavoratori. Il lavorare da casa, infatti, ha portato ad essere sempre connessi e, quindi, a prestare attività per molte ore continuative: in media si è calcolato che un lavoratore in smart working sia effettivamente attivo per non meno di 48 ore settimanali.

Tutto ciò ha avuto, inevitabilmente, un impatto negativo sull’equilibrio fra esigenze lavorative e di vita quotidiana. Per questo, all’inizio dell’anno, lo stesso Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione Europea di approvare una legge che garantisca il c.d. diritto alla disconnessione, ossia il diritto del lavoratore a disconnettersi digitalmente dalla sua attività al termine dell’orario di lavoro, senza ciò abbia ripercussioni negative da parte del datore di lavoro.

Il “diritto alla disconnessione” è ormai divenuto un diritto fondamentale, equiparabile al diritto di godere del riposo infrasettimanale o delle ferie.

Tra i vari Stati europei che hanno regolamentato lo smart working, il Portogallo è stato il primo ad aver recepito, almeno in parte, le indicazioni provenienti dal Parlamento europeo. Infatti, pur non avendo riconosciuto un vero e proprio diritto alla disconnessione, ha espressamente vietato ai datori di lavoro di contattare i dipendenti fuori dall’orario di lavoro o di monitorarli mentre lavorano da casa, sostanzialmente tutelando la libertà di ogni lavoratore di dedicare un adeguato numero di ore alla propria vita privata. Oltre a questo, la legge prevede che ai lavoratori venga elargito un contributo economico per far fronte alle spese di connessione internet e di elettricità, anche se le disposizioni non saranno applicabili alle aziende con meno di dieci dipendenti.

È bene sottolineare, però, che tra gli obiettivi della nuova normativa non vi è soltanto quello di tutelare i lavoratori, ma anche quello di attrarre i nomadi digitali nel Paese, secondo quanto dichiarato dalla stessa ministra portoghese Ana Mendes Godinho.

E per quanto riguarda l’Italia?

In Italia esiste già una legge che regolamenta il lavoro agile, la L. n. 81/2017. Essa, però, non contempla alcun generale diritto alla disconnessione ed ha rimesso la regolamentazione ad un eventuale accordo tra le parti, il quale dovrà individuare “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”

La genericità di tali disposizioni fa sì che, molto spesso, la disconnessione rimanga inattuata nella pratica; per questo, nella nuova società post pandemia, si rende inevitabile un nuovo intervento del legislatore o, quanto meno, della contrattazione collettiva, al fine di garantire ai lavoratori agili un effettivo diritto alla disconnessione.

Il diritto del lavoro, qualcosa di davvero complesso

Per questo, quando si tratta di comprendere e far valere i propri diritti, è sempre consigliabile rivolgersi a un professionista. Contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Monica Bassan

assegno divorzile

Assegno divorzile: stringersi la mano in un momento difficile

Spesso, guardando film o serie TV, ci facciamo un’idea stereotipata e infarcita di luoghi comuni riguardo ad uno degli istituti più temuti da chiunque affronti il già difficilissimo momento del divorzio. L’assegno divorzile, ossia quanto l’ex coniuge è tenuto a versare al coniuge economicamente più debole a titolo di assegno di mantenimento.

Occorre partire dal presupposto che, la maggior parte delle volte, la narrazione di un divorzio che ci deriva dal cinema viene fatta sulla scorta del sistema giuridico statunitense. Spesso, appunto, le informazioni che filtrano sono stereotipate e servono più a fare da corollario ad una situazione drammaturgica che a descrivere la realtà. 

Assegno divorzile: una misura unidirezionale?

Ad esempio, non è assolutamente vero che l’assegno divorzile va nell’unica direzione della moglie. Allo stesso modo non è vero che il marito deve dissanguarsi per soddisfare la pretesa di una cifra arbitrariamente fissata da un giudice onnipotente. 

Nell’ordinamento italiano, l’assegno divorzile è stabilito secondo parametri ben precisi e il più possibile equi. Vediamo quali. 

Innanzitutto, ci corre l’obbligo di fare un rapido passaggio sull’istituto legale dell’assegno divorzile.

La legge prevede che: 

“tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio…” il Tribunale disponga “… l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Articolo 5 della legge 898/1970, al sesto comma,

L’idea di base è mantenere il tenore di vita.

Sino al 2017 la norma era stata interpretata così da garantire all’ex coniuge economicamente più debole un assegno che potesse permettergli lo stesso tenore di vita che aveva avuto durante la sussistenza del rapporto matrimoniale. 

Nel 2017  viene abbandonato quel criterio guida e si ha riguardo all’autosufficienza economica del coniuge e alla sua capacità di produrre reddito. Invero la diversa interpretazione della normativa di riferimento è frutto dei tempi. In una famiglia degli anni 70 la moglie era molto spesso casalinga o comunque aveva un reddito inferiore a quello del marito poiché lavorava part-time per dedicarsi alla famiglia. Ad essa si è sostituita oggi una famiglia nella quale i redditi e i ruoli dei coniugi possono essere paritari. Sicché il parametro guida del tenore della vita matrimoniale non corrispondeva più al concetto di famiglia come oramai si interpreta. 

Qui entra in gioco il concetto di diritto vivo

Il diritto vivo è appunto questo: l’adattare la norma, che ha carattere universale- ai tempi in cui la norma stessa deve trovare applicazione, e questo è il compito dei giudici. In tal senso sono intervenute le sentenze di cui si dirà appresso.

Dal criterio dell’autosufficienza economica, tuttavia, sono conseguite delle aberrazioni. Soprattutto in quei casi nei quali la moglie aveva conservato una capacità lavorativa che tuttavia non poteva più spendere in un momento di crisi economica. 
 
A dirimere la questione è intervenuta la sentenza 18287/2018 delle Sezioni Unite. Questa ha avuto il merito di superare ma al contempo contemperare le opposte visioni giurisprudenziali vagliando l’oggettiva situazione delle parti. L’assegno divorzile viene parametrato alla situazione dei coniugi e alla storia coniugale. Si pone per la prima volta su un piano paritetico tutti i criteri presi in considerazione dall’articolo 5 della legge sul divorzio del 1970

Ma qual è, dunque, lo scopo dell’assegno divorzile?

Attualmente, la funzione dell’assegno divorzile può così riassumersi: assistenziale, compensativa e solo in parte perequativa, ossia con lo scopo di eliminare eventuali disparità ed eliminare svantaggi. 
  
Ne ha diritto chi si trova in una situazione di difficoltà economica come conseguenza della conclusione del matrimonio non avendo possibilità di procurarsi altrove i mezzi di sostentamento necessari sulla base di difficoltà oggettive. 
  
Stabilito, quindi, il diritto all’assegno dell’ex coniuge, il Giudice sarà tenuto a determinare quale funzione, una o più, debba assolvere l’assegno. Se quella assistenziale, ossia ha lo scopo di sopperire ad oggettiva mancanza del coniuge economicamente debole, quella perequativa, di cui si è detto, o ancora quella compensativa. In questo caso comporta la valutazione dei sacrifici fatti dal coniuge “debole” per la famiglia. L’assegno potrà quindi essere quantificato anche sulla base del contributo dato dal coniuge alla vita coniugale. Questo per garantirgli un reddito che tenga conto anche dei sacrifici fatti. 

Non è mai facile porre termine a una storia d’amore.

Così, sul finire di un matrimonio, si pareggiano i conti e si rimette in pari il piatto della bilancia. Ma è possibile agire preventivamente per evitare malintesi e non lasciare nulla al caso in un matrimonio? 
 
Per questo potete contattare lo studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon

autotutela

Istanza in autotutela all’agenzia delle entrate: a cosa serve e come farla

Ricevere un atto dall’agenzia delle entrate è un’esperienza che nessuno vorrebbe mai vivere. Purtroppo, però succede spesso, anche se non sempre questo significa che il contribuente non abbia ragione! In questi casi c’è un meccanismo che interviene a tutela del contribuente: l’istanza in autotutela.

Il potere di autotutela

L’autotutela è un istituto deflattivo del contenzioso tributario previsto dall’art. 2-quater del D.L. n. 564/94 e dal D.M. 11 febbraio 1997 n. 37 e consiste nel potere concesso all’Amministrazione finanziaria di annullare, rivedere o correggere “d’ufficio” le proprie decisioni o i propri atti, nel caso in cui questi risultino affetti da vizi, senza la necessità di attendere la decisione di un giudice. Qualora l’Amministrazione non provveda in maniera autonoma, sarà il contribuente a poter sollecitare, tramite un’istanza, l’annullamento dell’atto viziato.

La domanda di autotutela all’Agenzia delle Entrate

La domanda di autotutela all’Agenzia delle Entrate-Riscossione consiste nella richiesta del contribuente al Fisco di procedere all’annullamento di un atto contenente errori quali:

  • errori di persona;
  • errori di calcolo;
  • errori sui presupposti dell’imposta;
  • mancata considerazione dei pagamenti effettuati regolarmente dal contribuente;
  • sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolati;
  • errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’Amministrazione;
  • doppia imposizione dello stesso tributo.

Gli atti che possono formare oggetto dell’istanza sono: cartelle esattoriali, intimazioni di pagamento, pignoramenti, avvisi di accertamento ecc.

Come presentare l’istanza?

È possibile presentare la domanda via mail o a mezzo Pec direttamente all’Ente che ha emesso l’atto viziato, con richiesta in carta bianca o mediante l’utilizzo dei moduli resi disponibili nel sito dell’Agenzia delle Entrate, indicando l’atto del quale si chiede l’annullamento e i motivi per i quali lo si ritiene illegittimo (dunque in tutto o in parte annullabile) e allegando la documentazione idonea a dimostrare le tesi sostenute. Dopo aver esaminato la richiesta, l’Ente interessato comunicherà al contribuente la propria decisione di accoglimento o di rigetto dell’istanza.

Attenzione!

È bene ricordare due cose:

1) il silenzio dell’Ente non può essere considerato come assenso all’istanza presentata;

2) la presentazione della domanda non vale ad interrompere i termini per presentare ricorso al giudice tributario.

Pertanto, qualora i termini per il ricorso stiano per scadere, è bene affrettarsi a proporlo; nell’eventualità in cui poi dovesse esserci l’accoglimento dell’istanza in autotutela, il procedimento nel frattempo instaurato potrà essere dichiarato estinto per cessazione della materia del contendere.

L’autotutela, però, a volte non basta…

La legge ci tutela, è vero, ma spesso per far valere la nostra buonafede e i nostri diritti occorre avere una conoscenza della legge stessa che, a meno di formazione ed esperienza specifiche, è difficile avere. Per questo farsi rappresentare da un professionista è sempre più che una buona idea, una vera e propria necessità: se hai bisogno di assistenza rivolgiti al nostro studiotutela i tuoi diritti!

assegno unico

L’assegno unico e universale nel caso di genitori non conviventi: a chi spetta?

Un piccolo aiuto per i genitori, l’Assegno Unico e Universale, è il contributo dello stato all’andamento economico della famiglia per partecipare al benessere del bambino. Essendo, in realtà, destinato al benessere del bambino, viene erogato a prescindere dal fatto che i genitori continuino o meno a stare insieme. Dunque a chi viene erogato quando la coppia si separa o, in generale, non convive?

Assegno unico e universale: in cosa consiste

A partire da Marzo 2022 gli assegni per il nucleo familiare ed altre agevolazioni fiscali, sono sostituite dall’ Assegno Unico e Universale (AUU) per i figli:

La prestazione è erogata dall’INPS direttamente nel conto corrente a chi ne fa richiesta. La prestazione spetta a tutti i nuclei familiari con figli sino a 21 anni ossia anche a non occupati e lavoratori autonomi

In caso di divorzio e separazione: come viene gestito l’assegno

L’importo dell’AUU dipende dall’ISEE del nucleo familiare ma nel caso di genitori non conviventi, separati anche di fatto e divorziati, il genitore non convivente viene attratto nel nucleo del figlio. L’ISEE  tiene conto del reddito di entrambe i genitori.

Qualora il Tribunale stabilisca l’affidamento condiviso del minore, la nuova normativa prevede espressamente all’art. 6, 4° comma, d.lgs. n. 230/2021, che l’INPS eroghi l’assegno con importo al 50% tra i genitori. Tuttavia è possibile, per accordo, la possibilità di attribuire il 100% dell’importo dell’Assegno Unico e Universale ad uno solo dei genitori. Sarebbe opportuno chiarire la circostanza avanti al Giudice affinché l’accordo venga recepito nel provvedimento. Sarà, invece, percepito il 100% dell’AUU da quel genitore che ha l’affido esclusivo del figlio.

Cosa cambia rispetto a prima per l’assegno unico e universale

Da quanto sopra esposto deriva che i presupposti del AUU sono del tutto diversi rispetto ai vecchi assegni familiari, sicché laddove un provvedimento stabiliva che gli assegni familiari spettavano ad un solo genitore, tale provvedimento non permetterà al genitore di poter avere il 100% dell’ AUU 

La Giurisprudenza ha emesso provvedimenti in parte difformi. Alcune di pronunce hanno stabilito che gli assegni unici vadano percepiti “come per legge”. Altre, invece,  pur avanti ad un affido condiviso, hanno stabilito che l’Assegno Unico e Universale sia percepito in via esclusiva dal genitore ove il minore risulta prevalentemente collocato sul presupposto che l’AUU sostituisca gli assegni familiari. Ad esempio il Tribunale di Bari, il 03 febbraio 2022

Tuttavia l’assegno unico non corrisponde agli assegni familiari e il metodo per la sua determinazione è totalmente difforme rispetto a quanto stabilito per gli assegni familiari. Questo, secondo circolare INPS n. 1714 del 20 aprile 2022.

Una separazione porta con sé molte difficoltà, un momento difficile richiede l’assistenza migliore

Separarsi, divorziare, o anche semplicemente gestire una famiglia pur non volendo vivere sotto lo stesso tempo è complicato. Un momento o una situazione complessa, che conviene affrontare essendo preparati e ben consigliati. Per questo affidarsi a un legale competente è sempre la miglior cosa che si possa fare: rivolgiti al nostro studio se ne hai bisogno, tutela i tuoi diritti!

codice rosso

Codice Rosso: la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere

Il 25 novembre è la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Un nome esplicito, che ci fa capire subito quanto la violenza sulle donne sia una piaga sociale da combattere senza mezzi termini. Si tratta però di un fenomeno strisciante, che si annida nella sfera più intima e privata della vita delle persone. Lo stato si è però dotato di alcuni strumenti per intervenire e tutelare la salute delle vittime, e uno di questi è il codice rosso

Codice rosso: uno sguardo alla legge

La legge 19 luglio 2019, n. 69, è intervenuta sul Codice penale e di procedura, nonché sulle disposizioni dell’ordinamento penitenziario al fine di inasprire la repressione penale della violenza domestica e di genere e ad introdurre nuove fattispecie di reato a tutela delle vittime.

Oggetto di modifica di quanto era già stato previsto sono stati in particolare:

  • I delitti di violenza sessuale. Questi hanno visto un aggravamento delle pene e aumentato il tempo a disposizione per la vittima per sporgere denuncia, raddoppiando lo stesso da 6 mesi a 12 mesi;
  • Gli atti sessuali con minore. Le pene si aggravano in caso di minori di anni 14 con atti commessi in cambio di denaro o altre utilità, non essendo più necessaria la denuncia, ma procedibile d’ufficio;
  • Il delitto di omicidio, prevedendo l’aggravante in caso di relazione personale tra il colpevole e la vittima;
  • La sospensione condizionale della pena, che può essere applicata solamente in subordine alla partecipazione a percorsi di recupero a cui deve necessariamente sottoporsi;
  • Le tempistiche per l’avvio del procedimento penale. Una volta ricevuta l’informativa di reato, che deve essere comunicata immediatamente al pubblico ministero, entro 3 giorni quest’ultimo deve sentire la persona offesa o chi ha denunciato il fatto;
  • La comunicazione da parte del giudice penale al giudice civile avanti cui è instaurato procedimento per separazione o affidamento dei figli il provvedimento adottato verso la parte per delitti di violenza domestica o di genere;
  • L’applicazione di braccialetto elettronico a soggetti gravati dal divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa;
  • L’obbligatoria comunicazione alla vittima in caso di scarcerazione, di evasione, di revoca o sostituzione di misure a carico dell’indagato

Codice rosso: i nuovi reati

Sono stati introdotte poi nuove fattispecie di reato, quali:

  • ll delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (reclusione da 8 a 14 anni);
  • ll Revenge-porn, ovvero il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso (reclusione da 1 a 6 anni). Si applica anche a chi riceve il suddetto materiale e lo ridistribuisce, con aggravamento nel caso i fatti siano commessi in relazione affettiva, anche se terminata;
  • il delitto di costruzione o induzione al matrimonio (reclusione da 1 a 5 anni);
  • il delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o avvicinamento ( reclusione da 6 mesi a 3 anni)

Nei giorni scorsi è stato poi approvato in via definitiva il disegno di legge che era stato presentato dalla ministra per la Famiglia e le Pari opportunità Eugenia Roccella, contenente alcune norme che rafforzano ancora di più quanto già previsto dal codice rosso.

Tra le principali novità, si è presa in considerazione l’estensione delle misure cautelari anche nei confronti di quei reati che si ritengono prodromici e significativi per la violenza di genere. Possono essere le percosse, le lesioni, le minaccie, gli atti persecutori e altro. Anche a detti reati si può procedere all’”ammonimento” (già in uso per i delitti di stalking, cyberbullismo e altri), che prevede una comunicazione formale del Questore alla persona esortandolo ad astenersi dalla futura commissione di ulteriori molesti o atti di violenza. In caso di reiterazione, si procederà poi d’ufficio.

Quando e come fermare un aggressore

È previsto “l’arresto in flagranza differito” in caso di maltrattamenti, atti persecutori o violazione di ordini di allontanamento o avvicinamento. Questo a condizione che esso avvenga entro le 48 ore dal momento in cui il fatto viene documentato a mezzo video, foto, chat o altri sistemi.

Viene introdotta la possibilità su richiesta delle vittime di vedersi corrisposta una provvisionale, ovvero una somma di denaro liquidata dal giudice come anticipo del risarcimento che spetterà all’esito del giudizio. Si prevede infine una priorità assoluta della trattazione dei procedimenti di delitti di violenza di genere e domestica, nonché una più specifica formazione del personale della magistratura e delle forze dell’ordine. Questo tramite anche la predisposizione di linee guida nazionali.

Il codice rosso è uno strumento per la tutela dell’incolumità, ma un avvocato può essere d’aiuto per evitare il peggio

Un avvocato, infatti, può aiutare la vittima a individuare una situazione di potenziale pericolo, o condurre la cliente attraverso il suo percorso di protezione. Se hai qualche dubbio, senti il bisogno di essere supportata o ti serve una consulenza non esitare a contattarci. Nessuno ha il diritto di usarti violenza. Mai. 

difensore d'ufficio

Il difensore d’ufficio: la normativa

Il nostro codice di procedura penale prevede che in tutte le ipotesi nelle quali l’imputato deve essere assistito da un difensore e non provveda alla sua nomina, gli venga nominato un difensore d’ufficio. Questi ovviamente cessa dalla sua attività non appena l’imputato provveda a nominarne uno di fiducia.


L’istituto va considerato vanto di civiltà giuridica di uno stato democratico, che garantisce, fin dal suo sorgere, la difesa tecnica alla persona indagata. Purtroppo si tratta di un istituto con luci ed ombre, dovute da un lato alle diverse impossibilità a cui si trova innanzi il difensore in tutti quei casi nei quali non può interloquire con il cliente, dall’altro alla svalutazione della difesa d’ufficio per prassi giudiziaria.

La disciplina della difesa d’ufficio ha subìto e continua a subire cambiamenti, in linea con la volontà di rendere effettiva l’equiparazione tra la difesa d’ufficio e la difesa di fiducia. In particolare il legislatore ha cercato di equiparare le due figure in primo luogo garantendo alta professionalità del difensore d’ufficio, il quale viene iscritto in determinati elenchi, da cui poi la p.g. o l’autorità giudiziaria attinge solo ove presenti determinati requisiti.

Nella relazione dell’onorevole Saponara durante la seduta della camera dei Deputati del 18 dicembre 2000 si legge

“[…] il difensore d’ufficio deve essere come quello di fiducia e deve avere la sua stessa dignità; per assurdo, egli deve essere migliore dell’avvocato di fiducia”.

Si prevede, inoltre, che il difensore d’ufficio debba essere adeguatamente retribuito.

Attualmente, con l’ultima riforma, si prevede che l’elenco dei difensori d’ufficio (ora tenuto presso ciascun consiglio dell’ordine circondariale) venga unificato su base nazionale, attribuendo al Consiglio Nazionale Forense la competenza in ordine alle iscrizioni e al periodico aggiornamento.

Al fine di assicurare la qualificazione professionale, sono previsti criteri più rigorosi per l’iscrizione, richiedendo che chi viene iscritto a questo elenco segua dei corsi di aggiornamento che debbono avere un’adeguata durata e un esame finale. E’, inoltre, stata elevata a cinque anni – in precedenza erano due – la pregressa esperienza professionale in materia penale o, in alternativa, il conseguimento del titolo di specialista in diritto penale.

Ciò per comprendere come l’avvocato d’ufficio debba essere necessariamente persona con esperienza nel settore penale.

Il difensore d’ufficio entra nella scena processuale in momenti che possono essere differenti: o sin dall’inizio, con il primo atto garantito per il quale si prevede l’assistenza del difensore. Oppure anche in seguito nel caso di rinuncia, assenza, revoca o incompatibilità del precedente difensore. L’indagato viene subito avvertito di chi sia il suo difensore d’ufficio, e lo stesso viene altresì informato dell’obbligo di retribuzione. Questo a meno che l’indagato non possa accedere al patrocinio a spese dello Stato. Questo perché è diffusa l’opinione della gratuità della difesa d’ufficio, quando invece viene espressamente riconosciuta la retribuzione per il difensore.

Proprio per ovviare agli inconvenienti legati all’opinione della gratuità della difesa d’ufficio, in quanto dalla relazione dei lavori parlamentari si ricava che “parità [tra il difensore d’ufficio e il difensore di fiducia, n.d.a.] non possa esservi fino a quando il difensore d’ufficio non sia posto in grado di svolgere la propria attività nella prospettiva di ricevere adeguata retribuzione”. L’art. 32 disp. att. c.p.p. prevede che le procedure intraprese per il recupero dei crediti professionali vantati dai difensore d’ufficio sono esenti da bolli, imposte e tasse ed ancora l’art. 116 della normativa in materia di spese di giustizia prevede che qualora il difensore d’ufficio di persona reperibile (irreperibile di fatto) abbia esperito inutilmente le procedure per il recupero forzoso del proprio onorario, le spese verranno liquidate dal Giudice.

L’art.117 del dpr, invece, prevede l’ipotesi dell’irreperibile di diritto. In questo caso, salva la nuova disposizione in tema di irreperibilità, al pagamento del difensore nominato d’ufficio provvede lo Stato. In entrambi i casi, comunque, lo Stato ha diritto di ripetere dal condannato le spese sostenute per il patrocinio.

Difensore d’ufficio: la pratica

Gli aspetti pratici e i problemi legati alla difesa d’ufficio sono molteplici, alcuni endo-processuali, legati alla normativa di riferimento, altri eso-processuali, legati alla prassi giudiziaria. Non ultimo lo svilimento dell’avvocato stesso nel momento nel quale gli si chiede di preparare un’adeguata strategia difensiva di un soggetto che non si è mai incontrato e del quale si ignora addirittura la residenza.

Non può sottacersi che è abitudine della p.g. permettere agli indagati di eleggere domicilio presso il difensore d’ufficio. Questo impedisce da un lato al difensore di poter aver un minimo contatto con il cliente, dall’altro allo stesso cliente di conoscere la propria sorte giudiziaria in quanto non verrà mai informato degli eventi processuali.  Quella della mancanza del contatto con il cliente è la prima grande difficoltà del difensore d’ufficio che non potrà approntare alcuna strategia processuale se non quella documentale, ossia un approfondito studio degli atti.

Se solo si consideri che il rapporto tra cliente e avvocato ha le proprie fondamenta nella fiducia dell’uno nei confronti dell’altro, ben si può comprendere come, minato nelle fondamenta il rapporto, la difesa non possa che essere claudicante e talvolta inadeguata. Va anche detto che gli atti raccolti dalla p.g. e che portano ad un rinvio a giudizio molto spesso contengono valutazioni negative a carico dell’indagato. L’assunzione dei testi, in questi casi, appare una tappa obbligata per giungere a quel minimo di verità processuale che garantisca la difesa del soggetto. 

Vi sono, invece, quei casi nei quali l’incontro fra il difensore d’ufficio e l’indagato è certo,

Quindi quando il soggetto viene arrestato e si ha l’udienza di convalida.

Può essere, questo, l’unico contatto tra l’indagato e il difensore, per cui è bene approfittare del momento per comprendere gli accadimenti. Infatti se a seguito dell’udienza di convalida il soggetto viene liberato, avviene molto spesso che si perdano le tracce del cliente e quindi non sia più possibile costruire un’adeguata difesa. Anche le strategie processuali vanno improntate tenendo conto di tali aspetti pratici. Avviene spesso, quindi, che nel giudizio direttissimo il difensore sia subito portato ad avanzare richieste di riti alternativi. Questi non potranno più trovare ingresso nell’ipotesi in cui il difensore perda i contatti con il cliente.

Diversa, invece, è la situazione quando questo contatto sia possibile.

Se il contatto avviene sarebbe comportamento deontologicamente ineccepibile quello di informare nuovamente il soggetto della sua facoltà di nominare un difensore di fiducia. Ove tale decisione non venga presa “trasformare” la nomina d’ufficio in nomina di fiducia, potendo così ampliare le proprie facoltà e poteri nell’ambito difensivo.

Nella prassi la “trasformazione” avviene soprattutto per permettere al difensore di poter rinunciare ad un mandato divenuto difficile. Infatti va sottolineato che il difensore d’ufficio non può spogliarsi del mandato, se non in precisi e ben individuati casi. Tuttavia laddove manchi il rapporto fiduciario la gestione del cliente, molto spesso soggetto difficile, è un ulteriore ostacolo alla effettiva difesa di questi.

E’ del tutto sconsigliabile, poi, optare per un’ingiustificata e reiterata assenza del difensore d’ufficio nel corso del processo.

Nella prassi, in questi casi, si ricorre all’istituto di cui al 97 IV co. c.p.p., ossia la sostituzione con il difensore di turno. Si tratta di un soggetto prontamente reperibile il quale, tuttavia, in detta situazione, non può che approntare una difesa tecnica. Questa è volta esclusivamente a verificare la sussistenza formale delle regole procedurali, ma aspettarsi, in questi casi, un’adeguata difesa è una chimera per il difensore stesso.

Fuori dubbio è che il difensore d’ufficio possa svolgere indagini difensive, possa attivarsi mediante impugnazione. Tuttavia, anche in questi casi, la normativa viene inevitabilmente a scontrarsi con problemi pratici. Si deve considerare che avanti all’ordinario cliente “virtuale” del difensore d’ufficio, difficilmente il difensore stesso potrà intraprendere costose e dispendiose indagini difensive. Si caricherebbe caricandosi, anche, dei rischi deontologici e professionali legati alle indagini difensive stesse.

In definitiva, tuttavia, può dirsi che i problemi legati alla difficoltà di una soddisfazione economica del difensore d’ufficio non possono fermare il difensore stesso. In definitiva, deve essere “preparato, agguerrito, dinamico ed organizzato”.

Il difensore d’ufficio è solo una possibilità

Molte persone hanno dei legali di fiducia a cui affidarsi. Studi o professionisti specializzati e preparati a difendere al meglio il loro cliente. Se hai bisogno di tutela e difesa rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

patteggiamento

Il patteggiamento

Quando si viene chiamati in giudizio esiste il modo di evitare il giudizio? La legge prevede la possibilità di accodarsi per trovare una soluzione che eviti le lungaggini e le spese di un processo? In effetti una procedura simile esiste: è quella che chiamiamo patteggiamento.

Il patteggiamento: di cosa stiamo parlando

Detto anche applicazione della pena su richiesta delle parti, il patteggiamento è un rito premiale, perché porta a una riduzione della pena prevista fino a un terzo, e eltresì un rito alternativo, in quanto si adotta a fronte della rinuncia allo svolgimento del giudizio.

Consiste in un accordo tra il pubblico ministero e l’imputato per la richiesta da sottoporre al giudice della pena che viene concordata in relazione al fatto oggetto di reato, purché si rientri nel limite finale di due anni di pena. Un’estensione temporale è possibile nel cosi detto patteggiamento allargato, che è stato  introdotto dalla legge n° 134 del 12/06/2003, con riferimento ai delitti e contravvenzioni per i quali sia applicabile, a seguito della riduzione, una pena detentiva superiore a due anni e un giorno ed inferiore a cinque anni.

Non solo una riduzione: le pene accessorie

Oltre alla riduzione, come sopra detto, fino a un terzo, prevede anche la mancata applicazione delle pene accessorie e la mancata condanna al pagamento delle spese processuali. Oltre a questo, prevede che la sentenza penale di applicazione della pena non abbia alcuna efficacia nei giudizi civili o amministrativi.

Un ulteriore vantaggio consiste nel fatto che il reato è estinto, quando è stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, se nel termine di cinque anni (dal passaggio in giudicato della sentenza) quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di due anni, quando la sentenza concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole.

Quanto al momento in cui può essere richiesto, esso può essere adottato sia in fase di indagini preliminari, sia fino all’udienza preliminare o al dibattimento.

Richiedere un patteggiamento è una questione delicata

Per questo farsi assistere al meglio da un avvocato che possa consigliarti al meglio è fondamentale. Se hai bisogno di assistenza non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti. 

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

dichiarazione di successione

La dichiarazione di successione: l’aspetto burocratico dell’eredità

Nei momenti più tristi della vita, occorre pur sempre raccogliere le forze e adempiere ad alcune incombenze necessarie. Specie nel caso della dipartita di una persona amata, però, lo stato richiede alcuni adempimenti che, a seconda dei casi, possono presentare un grado di complessità più o meno gravoso e complesso. È il caso, ad esempio, della dichiarazione di successione.

Quando una persona viene a mancare vi sono degli adempimenti da compiere al fine di regolarizzare fiscalmente il subentro degli eredi nel patrimonio del defunto. L’adempimento principale è, appunto, la dichiarazione di successione che, a decorrere da gennaio 2017, si può presentare all’Agenzia delle Entrate solo in via telematica.

Chi deve presentare la dichiarazione di successione

E’ facoltà di ciascun erede presentare la dichiarazione di successione; in caso di più eredi è sufficiente che uno solo presenti detta dichiarazione anche a nome di tutti gli altri eredi.

Entro quando va presentata la dichiarazione di successione.

La dichiarazione di successione deve essere presentata entro 12 mesi dalla data di apertura della successione, ossia dalla data di decesso del de cuius. Si può presentare anche oltre detto termine ma si è esposti al rischio dell’applicazione di sanzioni amministrative per il ritardo.

A cosa serve la dichiarazione di successione

Detto adempimento serve per consentire allo Stato di calcolare la tassazione da applicare alla successione sulla base dei beni lasciati dal defunto. Infatti, nella dichiarazione di successione vanno obbligatoriamente indicati l’attivo e il passivo ereditario. L’attivo è composto da beni immobili (edifici, terreni) lasciati dal defunto, conti correnti, obbligazioni. Ne fanno parte anche quote o azioni di società di capitali, per i beni mobili il valore è calcolato nella misura del 10% del valore complessivo netto, salvo inventario.

Tra le passività vanno indicate le spese funerarie, spese mediche sostenute nel semestre precedente il decesso, i debiti contratti dal defunto risultanti da atto in forma scritta con data certa. Nella dichiarazione di successione vanno altresì indicati eventuali soggetti che abbiano rinunciato all’eredità o eventuali soggetti interdetti/incapaci.

Quali sono le imposte da pagare?

L’imposta di successione per il coniuge e i parenti in linea retta è soggetta alla franchigia di euro 1 milione per ciascun beneficiario (euro 1,5 milione in caso di erede con grave handicap). Sull’eccedenza si applica il 4%; per i fratelli e sorelle la franchigia è di euro 100.000,00 ciascuno, sull’eccedenza viene applicata l’imposta del 6%; parenti sino al quarto grado 6% senza franchigia; altri parenti/soggetti l’imposta applicata è dell’8% senza franchigia. Oltre a detta imposta si dovranno versare le imposte ipotecarie e catastali relative agli immobili.

Anche per queste faccende farsi aiutare è la cosa migliore

Quello in cui si subentra a un parente come eredi è sempre un momento difficile, carico di emotività e delicato. Per questo farsi assiste da un avvocato specialista in diritto di successione non è solo la cosa migliore da fare dal punto di vista legale. È anche un sollievo e un alleggerimento personale. Rivolgiti al nostro studio se hai necessità di assistenza: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan

lavoratrice madre

Lavoratrice madre: quali tutele?

La festa della mamma sarà il prossimo 14 maggio. Non esiste dunque momento migliore di questo per approfondire, dopo esserci occupati in generale del congedo parentale, un argomento tanto importante: le tutele riconosciute alla lavoratrice madre.

Tutele per la lavoratrice madre: la base costituzionale

L’articolo 37 della Costituzione, al primo comma, stabilisce che

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”.

Ora, tale disposizione di legge potrebbe sembrare anacronistica, specie nella parte in cui fa riferimento alla “essenziale funzione familiare” della donna. Tuttavia, questa norma costituzionale ha una fondamentale importanza, in quanto prevede espressamente che alla madre lavoratrice e al bambino debba essere riservata una particolare tutela.

Congedo obbligatorio per la lavoratrice madre

L’art.16 D. Lgs. 151/2001 sancisce il divieto di adibire la donna al lavoro nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi alla data effettiva del parto.

La lavoratrice è tenuta ad informare tempestivamente il datore di lavoro ed entro quindici giorni deve produrre il certificato medico attestante il mese di gravidanza e la data presunta del parto, al fine di consentire al datore di lavoro di prendere gli opportuni provvedimenti: valutare la compatibilità delle mansioni svolte dalla lavoratrice e, in caso di necessità, adibire la stessa a una diversa mansione.

Due mesi prima della data presunta del parto la lavoratrice dovrà consegnare al datore di lavoro e all’INSP un certificato medico indicante la data presunta del parto. Successivamente, una volta nato il bambino, la lavoratrice dovrà presentare entro trenta giorni il certificato di nascita.

Flessibilità del congedo obbligatorio

È prevista la possibilità di usufruire della flessibilità del congedo, ossia la possibilità di astenersi dal lavoro a partire da un mese prima la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi, ferma restando la durata complessiva del congedo di cinque mesi.

La flessibilità del congedo deve essere richiesta dalla lavoratrice madre entro la fine del settimo mese di gravidanza, a condizione che non vi sia stato un provvedimento di interdizione anticipata. La richiesta deve essere corredata da apposita certificazione che attesti che la gravidanza è fisiologica, che le mansioni svolte e l’ambiente di lavoro non sono pregiudizievoli, né vi sono controindicazioni derivanti dalle modalità di raggiungimento del luogo di lavoro. In ogni caso, la richiesta può essere presentata soltanto se la lavoratrice non svolge lavori pericolosi, faticosi o insalubri.

Interdizione anticipata

Dall’inizio della gravidanza e fino a sette mesi di età del bambino è vietato adibire le lavoratrici al lavoro notturno, al trasporto e al sollevamento di pesi e, comunque, a lavori pericolosi, faticosi e insalubri.

Qualora la lavoratrice non possa essere adibita ad altre mansioni e, comunque, in presenza di condizioni di lavoro non adeguate, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro potrà disporre l’interdizione anticipata dal lavoro, prorogabile sino a sette mesi dopo il parto.

Diversamente, se il rischio deriva da complicanze della gravidanza, l’interdizione anticipata è disposta su indicazione del medico e fino all’inizio del periodo di congedo obbligatorio.

Riposi giornalieri per la lavoratrice madre

Nel corso del primo anno di vita del bambino alla lavoratrice madre vengono riconosciuti particolari riposi orari per all’allattamento, della durata di una o due ore al giorno a seconda della durata dell’orario contrattuale.

Licenziamento e dimissioni

Dall’inizio della gravidanza e fino ad un anno di vita del bambino vige non è possibile il licenziamento della lavoratrice madre; ciò implica che il licenziamento, se intimato, dovrà considerarsi nullo.

È invece sempre possibile per la lavoratrice madre rassegnare le dimissioni; tuttavia, se rassegnate nel periodo che va dall’inizio della gravidanza sino ai tre anni di età del bambino, esse dovranno essere convalidate da parte dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. È bene precisare che queste tutele si estendono anche al padre lavoratore.

Per la lavoratrice madre le tutele sono molte, ma occorre conoscerle!

Un articolo come questo non basta! Esistono figure professionali specializzate nel tutelare i dei lavoratori e le lavoratrici, fornendo loro assistenza. Se hai bisogno di aiuto per questioni lavorative, non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

cosa possono fare i servizi sociali

Cosa possono fare i servizi sociali nelle procedure di sfratto: come possono aiutare le istituzioni?

Poco meno di un mese fa abbiamo affrontato un tema complesso e delicato, il ruolo dei servizi sociali nelle procedure di sfratto, concentrandoci su come e perché intervengano. Con questo articolo, invece, vedremo un altro aspetto fondamentale dell’attività dei servizi sociali, ossia cosa possono fare i servizi sociali per aiutare concretamente le famiglie in difficoltà abitativa. 

Cosa possono fare i servizi sociali?

Sicuramente gli assistenti sociali del Comune interessato hanno molte possibilità per aiutare la persona o la famiglia che si trova a subire uno sfratto. Intanto, fino al momento dello sgombero forzato, hanno la possibilità di iniziare delle trattative con il proprietario e il suo avvocato e trovare un accordo per far rimanere dentro l’abitazione le persone sfrattate.

Inoltre, ci sono dei fondi regionali destinati proprio questo scopo e, in particolare, per la Regione Veneto ci sono alcune risorse economiche per il problema sfratti:

  • Fondo affitti: aiuti economici per il pagamento di canone di affitto troppo oneroso per le famiglie in possesso di regolare contratto di locazione, che presentano rilevanti difficoltà economiche nel sostenere tale onere
  • Fondo morosità incolpevole: aiuti economici per le persone che si trovano in precarie condizioni di lavoro e che, come tali, non riescono ad onorare il proprio impegno economico nei confronti del proprietario.

In ogni caso, è sempre possibile ottenere qualche altro sostegno economico dal proprio Comune, sia per pagare i canoni di locazione ed evitare lo sfratto, sia per posticipare l’uscita di casa, sia per raggiungere un accordo con il proprietario.

E se ci sono dei minori?

Attenzione: il nostro codice civile prevede che i minori debbono essere ricoverati e protetti, allontanandoli dai propri genitori e collocandoli in comunità quando sono in pericolo e precisamente:

  1. si trovano in condizioni di abbandono materiale o morale.
  2. si trovano esposti, nell’ambiente familiare, a grave pregiudizio o grave pericolo per la loro incolumità psicofisica.

Lo prevede espressamente l’art. 403 del codice civile, per cui in caso di sfratto esecutivo in cui siano presenti dei minori, i Servizi sociali hanno l’obbligo di proteggerli: se hanno fondato timore che i minori siano a rischio possono anche dividerli dal resto della famiglia, ma in genere si assicurano almeno la presenza della madre, e li portano al sicuro in qualche struttura pubblica dedicata.

Posso avere un alloggio pubblico in caso di sfratto?

Nel caso di procedura di sfratto è bene attivarsi per presentare domanda di alloggio ERP (Edilizia residenziale Pubblica). A tal fine, si dovrà verificare se ci sono tutti i requisiti previsti dai bandi comunali nel rispetto delle norme di legge e accertarsi del punteggio ottenuto e del posto in graduatoria. Se esistono i requisiti per potere ottenere un alloggio ERP, è indispensabile attivarsi subito, per evitare di arrivare all’esecuzione dello sfratto con tutti i maggiori costi che questo comporta.

Se invece si è nell’impossibilità di ottenere un alloggio ERP, è possibile sostenere l’utente nella ricerca di un alloggio privato utilizzando risorse economiche varie che lo Stato e i Comuni mettono a disposizione.

Sapere cosa possono fare i servizi sociali non è sufficiente

Nel caso del diritto immobiliare la legge è molto complessa, proprio per la necessità di tutelare contemporaneamente la dignità delle persone e la proprietà privata. Per questo l’assistenza di un legale è imprescindibile: se ne hai bisogno contatta subito il nostro studio, tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan