decreto di espulsione cosa fare

Decreto di espulsione: cosa fare se ne vengo colpito

Soprattutto d’estate molti stranieri ricevono un Decreto di Espulsione: cosa fare in questo caso? Si tratta di una procedura molto complessa, che ha molte sfaccettature, e che abbiamo già ampiamente descritto in un nostro precedente articolo.

Può spaventare la complessità della materia trattata, ma vale la pena considerare che esistono strumenti legali per tutelare, oltre che la sicurezza dello stato, anche l’interesse e i diritti del cittadino straniero destinatario del decreto di espulsione.

Il primo consiglio da dare, e in assoluto il più saggio, è quello di cercare un’adeguata assistenza legale, ma prima di farlo è bene capire quello che si affronta.

Decreto di espulsione: cosa fare quando mi notificano un provvedimento di espulsione prefettizia?

I provvedimenti di espulsione prefettizi sono atti “recettizi”, ossia hanno effetto solo nel momento in cui vengono notificati all’interessato.

Ovviamente, essendo immediatamente esecutivi non possono essere sospesi a causa della loro impugnazione, a meno che non sia il giudice a sospenderli, eccezionalmente e solo se ci sono validi motivi. Questo significa che, considerando che l’interessato deve trovarsi al di fuori dei confini nazionali entro 7 giorni, l’eventuale accoglimento del ricorso avverrà quando l’interessato sarà già al di fuori dei confini dell’Unione Europea, e sarà necessario ottenere  nuovo visto d’ingresso per ritornare in Italia.

Il ricorso va presentato entro 20 giorni dalla notifica del decreto di espulsione, dinanzi al giudice di pace del luogo dove ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione. Se, ad esempio, il decreto di espulsione viene disposto dalla prefettura di Padova, dovrò depositare il ricorso presso il Giudice di Pace di Padova.

Il ricorso può essere depositato dallo straniero autonomamente, ma in seguito si rende necessaria l’assistenza di un difensore di propria fiducia o d’ufficio, con il diritto ad accedere al patrocinio a spese dello Stato.

Nel caso in cui il giudice rigetti il ricorso, l’interessato può ricorrere in Cassazione.

Cosa devo fare quando mi notificano un’espulsione ministeriale? 

Data la natura altamente discrezionale dei decreti di espulsione ministeriale, questi sono insindacabili nel merito. Possono essere impugnati solo riguardo all’adeguatezza formale della motivazione davanti al giudice amministrativo.

Il ricorso dovrà essere presentato presso il TAR del Lazio entro i 30 giorni dalla notifica del provvedimento.

Decreto di espulsione, cosa fare nel caso di un richiedente asilo

I richiedenti protezione internazionale hanno diritto al rilascio di un permesso di soggiorno valido per sei mesi. Questo è rinnovabile fino alla decisione della domanda o comunque per il tempo in cui è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale per la durata di tutte le fasi, sia amministrativa che giudiziaria, necessarie all’esame dei requisiti per il riconoscimento della protezione internazionale.

Spesso, costoro sono destinatari di decreti espulsione prefettizia, ma bisognerà verificare a che punto si trovi la procedura di richiesta di protezione internazionale.

Se il decreto ha raggiunto l’interessato nel momento in cui la domanda di protezione internazionale è ancora pendente, il decreto sarà annullabile in quanto emesso in violazione dell’articolo 7 D.Lgs. 25/2008. Tale norma, infatti, definisce il diritto per chi ha presentato domanda di asilo a rimanere sul territorio dello Stato fino alla decisione della commissione territoriale.

Il decreto di espulsione può colpire anche un minore?

Ovviamente quanto abbiamo appena descritto riguarda stranieri che abbiano raggiunto la maggiore età. La situazione cambia nel caso questi siano minori non accompagnati!  Hai bisogno di assistenza in questo campo? Contatta il nostro studio: la prima consulenza è senza impegno!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

conversione del pignoramento

Conversione del pignoramento: come salvare i propri beni

Capita di avere un periodo complicato dal punto di vista economico. A volte le conseguenze di questi periodi non hanno strascichi sgradevoli, altre volte, invece, lasciano il segno. Può capitare addirittura che si arrivi ad una procedura esecutiva per il pignoramento dei beni del debitore, e a quel punto sorge spontanea una domanda: quei beni sono definitivamente perduti? In effetti no, esiste ancora una possibilità: la conversione del pignoramento.

Conversione del pignoramento: cos’è?

La conversione del pignoramento è un istituto previsto e disciplinato dall’art. 495 c.p.c., che consente al debitore, dopo l’avvio di una procedura esecutiva e prima che sia disposta la vendita o l’assegnazione dei beni pignorati, di sostituire agli stessi una somma di denaro comprensiva dell’importo dovuto al creditore procedente e agli eventuali creditori intervenuti (capitale, interessi e spese) e delle spese dell’esecuzione. 

Come funziona la conversione del pignoramento

È necessario depositare un’apposita istanza nella cancelleria del Tribunale del luogo in cui è stato eseguito il pignoramento. Unitamente all’istanza di conversione, deve essere depositata in cancelleria, a pena di inammissibilità, una somma di denaro. Questa non sarà inferiore ad 1/6 dell’importo del credito per cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti indicati nei rispettivi atti di intervento, dedotti i versamenti già effettuati, che dovranno essere provati documentalmente.

L’istanza di conversione del pignoramento deve essere depositata prima che sia disposta l’assegnazione o la vendita, ossia prima che il Giudice emetta l’ordinanza con la quale fissa la data della vendita o delega le operazioni. Può essere presentata una sola volta nella procedura esecutiva, a pena di inammissibilità.

Dopo il deposito dell’istanza, il Giudice dell’esecuzione, valutata l’ammissibilità della domanda, determinerà, previa audizione delle parti, l’importo globale che il debitore dovrà versare ed il termine per il versamento. Il giudice, tuttavia, può anche rigettare l’istanza o dichiararla inammissibile ovvero accoglierla solo parzialmente. Il debitore potrà in tal caso chiedere, con istanza motivata, la modifica o la revoca dell’ordinanza ex art. 487 c.p.c. oppure presentare ricorso ex art. 617 c.p.c.

Conversione e rateizzazione: è possibile?

Solo quando i beni pignorati siano costituiti da beni immobili o cose mobili, il giudice può disporre, se ricorrono giustificati motivi, un pagamento rateale, a cadenza mensile, fino ad un massimo di quarantotto mesi.

Cosa succede se il debitore non paga?

In caso di mancato versamento di anche una sola rata, ovvero di un ritardo nel versamento superiore a 30 giorni, il debitore si riterrà decaduto dal beneficio. Le somme già versate formeranno parte dei beni pignorati e, su richiesta del creditore procedente o di un creditore intervenuto, la procedura esecutiva riprenderà e seguirà la vendita.

Qualora, invece, il debitore provveda all’integrale pagamento nei termini stabiliti, i beni pignorati saranno liberati dal vincolo del pignoramento e rientreranno nella piena disponibilità del debitore.

La conversione del pignoramento suggerisce che c’è sempre una possibilità, ma…

Simili procedure non vanno mai prese sottogamba. Ignorare avvisi, saltare pagamenti o disattendere ingiunzioni non è mai la soluzione, anzi un atteggiamento del genere non fa che esacerbare i problemi. Quando ci si trova in difficoltà, l’unica cosa da fare è rivolgersi a un legale esperto che ci consigli per il meglio, aiutandoci ad uscire da un periodo difficile nel modo migliore e meno gravoso. Se hai bisogno di assistenza contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Camilla Marcato.

telecamere di sorveglianza

Telecamere di sorveglianza: un delicato equilibrio fra sicurezza e privacy!

Succede sempre più spesso che si senta la necessità di installare un sistema di telecamere di sorveglianza nella propria abitazione a causa dei continui furti nella zona in cui abitiamo e ciò al fine di tutelare la sicurezza della nostra abitazione e della nostra famiglia.

Ma possiamo installare le telecamere di sorveglianza senza autorizzazione?

Quale può essere il raggio di azione di dette telecamere? Incorriamo in illeciti se installiamo dette telecamere?

A queste domande dà risposta una fitta normativa che permette di chiarire i dubbi. Dobbiamo considerare che vi sono due interessi contrapposti: da un lato la tutela della nostra sicurezza. Dall’altro il diritto alla riservatezza di chi potrebbe essere inquadrato dalle telecamere stesse. Si tratta di due diritti uguali e contrapposti, definiti diritti di pari rango. Tuttavia in questi casi, poiché gli interessi sono uguali, vanno comunque bilanciati, ossia è possibile che un diritto sia in qualche modo compromesso a tutela dell’altro, purché la compromissione avvenga “nei limiti dello stretto necessario”.

Va subito chiarito che non serve alcuna autorizzazione per installare telecamere di sorveglianza nella propria abitazione, con lo scopo appunto di tutelare la nostra sicurezza. Questo, però, solo se la telecamera inquadra zone di nostra pertinenza. Se, al contrario, la telecamera inquadra zone di pubblico passaggio si applicherà il Codice della Privacy. Bisognerà quindi fare in modo che le riprese non permettano il riconoscimento dei soggetti,  magari inquadrando solo i piedi. Se vi è una registrazione andrà distrutta entro le 24 ore successive. Soprattutto sarà necessario informare che vi è un sistema di telecamere di sorveglianza che registra, e quindi appendere un cartello che informa chi passa della possibilità di essere registrato.

Ma cosa succede se si rileva una violazione del Codice della Privacy?

La violazione delle norme contenute nel Codice della Privacy permette a chi è stato leso di rivolgersi al Garante della Privacy con le modalità previste dal Codice per ottenere tutela. La tutela può anche essere richiesta sul piano civile, qualora le telecamere di sorveglianza abbiano arrecato un danno di cui si chiede il risarcimento. Infine, le videoregistrazioni del vicino potrebbero rappresentare una interferenza illecita nella vita privata e quindi dare luogo al reato di cui all’art. 615 bis c.p.

Questo è forse il caso più comune. Perché quando abbiamo a che fare con un vicino “spione” la cosa più semplice e più economica e quella di sporgere una denuncia. In quest’ultimo caso, tuttavia, non è affatto semplice che si possa dare dimostrazione del reato. La ragione è che viene considerato lecita l’installazione tutte le volte in cui vi sia un concreto pericolo per l’incolumità di beni e persone avanti ad un diritto di riservatezza. 

La giurisprudenza, in primo luogo, ha stabilito che la semplice immagine di una persona non costituisce un dato personale. Avanti a due diritti fondamentali contrapposti dovrà necessariamente cedere quell’interesse che, valutato caso per caso, sarà considerato meno rilevante dal Giudice chiamato a pronunciarsi.

Telecamere di sorveglianza: la discrezione del Giudice

In definitiva, qualora ci sia un vicino “spione” il Giudice dovrà valutare se questa intromissione nella vita privata altrui sia solo fine a se stessa oppure sia necessaria per tutelare l’incolumità del soggetto e della sua famiglia. Come avviene, per esempio, se il vicino in questione ha subito furti, atti di vandalismi nella propria proprietà e così via. 

In alternativa, anche se la zona dove si trova l’abitazione sia stata oggetto di attenzione da parte dei ladri. In questo caso, quindi, se il vicino in questione ha posizionato delle telecamere con la scopo di tutelarsi da un pericolo concreto rispettando quello che viene definito il principio di proporzionalità, sarà ben arduo dimostrare la sussistenza di un reato. Ciò a condizione che non vi sia un eccesso di installazione delle videocamere e soprattutto venga rispettata la normativa della privacy in vigore.

Privacy e sicurezza sono esigenze che vanno equilibrate, e non è facile!

La soluzione migliore, in questi casi, è sempre e comunque rivolgersi a un legale per capire preventivamente e con completezza come agire. Se hai bisogno di assistenza per una delle esigenze che abbiamo sollevato nell’articolo, non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon.

prestazioni occasionali

Prestazioni occasionali sul lavoro: come gestirle secondo la legge

Nel mondo del lavoro, il contratto di collaborazione occasionale ora prestazioni occasionali viene spesso utilizzato tra le parti, datore di lavoro e lavoratore, per lavori saltuari e limitati nel tempo. E’ un rapporto che dovrebbe essere molto semplice e snello ma è stato spesso rimaneggiato dal nostro legislatore dopo alterne fortune, giuridiche, politiche e sociali.

Le prestazioni occasionali secondo la legge

La “prestazione occasionale” è stata da ultima disciplinata compiutamente nel 2017. Giuridicamente, l’interpretazione e l’applicazione del contratto non è facile e abbiamo avuto bisogno di numerose circolari del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS, nonché diversi interventi giurisprudenziali per definirne i contorni.

E’ bene specificare che questo rapporto di lavoro è tutti gli effetti un lavoro autonomo e, quindi, il prestatore di lavoro non è un dipendente: è colui che svolge a favore di un committente un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione. Si distingue dal lavoro autonomo abituale non per la natura della prestazione ma per il carattere episodico dello stesso. Infatti si parla di attività svolte nel corso di un anno civile, dal 1° gennaio al 31 dicembre di ciascun anno.

Cosa cambia con la nuova legge di bilancio

E ora la legge di bilancio 2023 ha introdotto importanti novità per quanto riguarda il Contratto di Prestazione occasionale e l’INPS si sta adeguando. Ma dal 1° gennaio 2023, cosa cambia in termini pratici?

Innanzitutto, se ne è esteso grandemente l’utilizzo. Infatti è previsto l’aumento da 5.000,00 a ben 10.000,00 euro per anno civile del limite di compenso erogabile dall’utilizzatore nei confronti dei prestatori di lavoro. Inoltre, potranno adoperare questo contratto tutti gli utilizzatori che hanno fino a 10 (mentre prima era fino a 5) lavoratori subordinati a tempo indeterminato.

Infine, sono stati eliminati i limiti che imponevano alle imprese del turismo di occupare solo particolari categorie di lavoratori. Per le imprese agricole sono introdotte forme semplificate di utilizzo delle prestazioni di lavoro occasionale a tempo determinato. Il nuovo regime specifico prevede, tra l’altro, l’inoltro della Comunicazione Obbligatoria di assunzione al competente Centro per l’impiego.

Rimane invariata, invece, la disciplina generale sia fiscale che normativa.

Continua, infatti, a non essere necessaria l’apertura di una partita IVA e nemmeno l’iscrizione ad un albo professionale. È sufficiente che il collaboratore presenti all’utilizzatore una ricevuta per prestazione occasionale e il committente versi, per conto del collaboratore occasionale, una ritenuta d’acconto sul compenso pari al 20%.

Il prestatore ha diritto all’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, con iscrizione alla Gestione separata dell’INPS, nonché all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Inoltre, è previsto il diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali come per legge, nonché l’estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

La gestione dei rapporti di lavoro è una materia complessa e delicata

Eppure moltissime persone hanno bisogno di gestire situazioni simili nella loro quotidianità. Le conseguenze di una gestione errata, però, si ripercuotono in modo molto tangibile sull’economia personale e familiare di moltissimi lavoratori. Ecco perché affidarsi a un professionista è un investimento necessario. Se anche tu hai bisogno di aiuto nella gestione della tua attività lavorativa contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

unioni civili

Unioni civili: anatomia di un diritto

Il tema dei diritti civili non perde mai il suo ruolo di spicco nel dibattito pubblico nazionale. Da ultimo l’attenzione è stata focalizzata sul Ddl Zan, la legge sull’omotransfobia bocciata al senato, ma il rumore per quest’ultimo dibattito rischia di farci perdere di vista una battaglia di pari entità, combattuta qualche anno fa e, a detta di molti, vinta: quella per le unioni civili

Da anni si sentiva la necessità di dare una veste legale alla situazione in cui si trovano  molte persone che, per una ragione o per l’altra, non potevano o non volevano sposarsi ma ravvisavano la necessità di reciproca assistenza, cura e delega. Specialmente, il problema veniva sollevato nell’ambito della comunità LGBTQI+, che riscontrava una mancanza di tutela di coppia pressoché totale. 

Con la legge 76 del 20 maggio 2016 viene finalmente regolato, dopo un lungo dibattito, l’istituto delle unioni civili, riservato alle persone dello stesso sesso, unificandolo con la disciplina della convivenza di fatto che riguardava invece sia le coppie omosessuali che quelle eterosessuali. 

La normativa riconosce alle persone dello stesso sesso la possibilità di costituire una unione civile

I cittadini possono unirsi facendo discendere dall’unione civile gli stessi diritti e gli stessi doveri che hanno due coniugi eterosessuali all’interno del matrimonio. L’istituto è dunque equivalente al matrimonio: il diverso nome corrisponde a una precisa scelta di tipo politico, ma tuttavia non toglie nulla all’unione civile rispetto al differente ma egualitario istituto del matrimonio. 

Tuttavia, qualche differenza c’è. 

Le differenze più lampanti sono legate alla costituzione del rapporto e allo scioglimento dello stesso. 
 
Riguardo alla costituzione, laddove il matrimonio è celebrato da un Ufficiale dello Stato Civile o da un ministro di culto, l’unione civile si costituisce mediante una dichiarazione davanti all’Ufficiale dello Stato Civile, che provvede poi alla registrazione nell’archivio dello stato civile, in modo del tutto simile a quel che avviene per il matrimonio. 

Per quanto riguarda lo scioglimento, invece, nell’istituto del matrimonio esso avviene con la morte di un coniuge, oppure mediante separazione e successivo divorzio. Per quanto riguarda l’Unione Civile, invece, il rapporto si scioglie tre mesi dopo aver comunicato il venir meno della relazione affettiva accompagnata dalla convivenza all’Ufficiale di Stato Civile. 

I diritti e i doveri fondamentali, però, rimangono uguali nei due diversi istituti. Secondo i commi 11 e 12 della legge 76, infatti, i due componenti l’Unione Civile hanno l’obbligo della reciproca assistenza morale e materiale, e hanno pari dignità nella coppia. 

Le unioni civili nel regime patrimoniale

Invece, il regime patrimoniale, normato dal comma 13, in mancanza di una diversa convenzione è quello della comunione dei beni. Anche in questo caso, quindi, si riscontra una perfetta equivalenza con la disciplina del Matrimonio. 

Anche nel caso di morte di uno dei componenti la coppia, le indennità dovranno essere corrisposte all’alro soggetto dell’unione civile, come da comma 17. L’equivalenza tra i due istituti non viene meno, e anzi si coglie in pieno, nella normativa di richiamo come il comma 19, che rimanda ad altre norme di diversa natura, come pure per le norme successorie (comma 21 art.1), che comporta una piena parificazione tra la figura del coniuge e quella del partner nell’unione civile. 

Una differenza però c’è, a ben guardare, e a detta di molti è sconcertante. L’istituto dell’Unione Civile al contrario del Matrimonio non prevede l’obbligo della fedeltà, che ovviamente non è solo da intendersi in termini di fedeltà sessuale. La differenza potrebbe essere ascrivibile alla percezione anacronistica dell’obbligo, la cui violazione non pare più avere rilevanza come in passato, e tuttavia rappresenta comunque una forma di diseguglianza tra i due istituti che non può passare sotto silenzio, poiché, forse inconsapevolmente, rende il matrimonio un istituto di serie A riservando all’unione civile la serie cadetta.

Unioni civili: un esempio di quanto c’è da scoprire riguardo alla legge!

Questo articolo ti è stato utile? Scopri tutti i nostri approfondimenti, ma se hai bisogno di assistenza diretta non esitare a contattatre il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon.  

furto

Furto: un concetto solo all’apparenza semplice

Siamo abituati a dare alcuni concetti per scontati. Soprattutto in campo sociale, esistono atteggiamenti, azioni, o devianze che riconosceremmo subito appena li vediamo o ne sentiamo parlare. Ma siamo sicuri di poter dire davvero in cosa consista, ad esempio, un reato? Non parliamo di reati concettualmente complessi come il peculato o la diffamazione, difficilmente definibili se non per chi non abbia una formazione specifica. Pensiamo a reati con cui tutti -purtroppo- hanno dimestichezza. Come il furto, per esempio: tutti sapremmo idealmente spiegare cosa sia. Ma dal punto di vista legale siamo sicuri di sapere in cosa consista e cosa comporti? Anche il furto, in effetti, è qualcosa di molto complesso: scopriamo insieme di cosa si tratta di preciso.

Furto: la definizione della legge

Il Codice Penale, all’Art. 624, definisce il concetto di Furto. Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516. Oggetto del reato è la cosa mobile altrui, che deve uscire dalla sfera di possesso del detentore ad opera di un soggetto che deve agire con dolo specifico, ovvero allo scopo di trarre profitto, non necessariamente patrimoniale.

Al fine della punizione del reato è necessaria la presentazione di apposita querela, da formulare da parte della persona offesa negli uffici delle forze dell’ordine o a mezzo difensore. In queste viene descritto il fatto e risulti la volontà che si proceda in ordine al reato e che venga punito il colpevole. La querela deve essere presenta entro 3 mesi dal giorno in cui si ha notizia del fatto.

Non è quindi un reato per cui si possa procedere d’ufficio?

Non esattamente. Vi sono, in effetti, alcuni casi in cui si procede d’ufficio, quindi anche senza la necessità di presentazione di apposita querela. Succede quando la persona offesa è incapace per età o infermità, oppure nei caso in cui fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento. O, ancora, esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinata a pubblico servizio o pubblica utilità, difesa o reverenza. Oppure se il fatto è commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica.

Non esiste un solo tipo di furto: le aggravanti

Il reato di furto è aggravato, quindi soggiace a una pena più dura prevista nella reclusione da due a sei anni e della multa da euro 927 a euro 1.500, ai sensi dell’art. 625, in alcuni casi. Oltre a quanto già sopra accennato, anche nei casi in cui: se il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento; se il colpevole porta in dosso armi o narcotici, senza farne uso. Quando il fatto è commesso con destrezza. Ancora, se il fatto è commesso da tre o più persone, ovvero anche da una sola, che sia travisata o simuli la qualità di pubblico ufficiale o d’incaricato di pubblico servizio. Se il fatto è commesso sul bagaglio dei viaggiatori; se il fatto è commesso all’interno di mezzi di pubblico trasporto. Se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire o che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro.

Da ultimo, vi sono anche i casi di furto in abitazione e furto con strappo, disciplinati all’art. 624 bis c.p.

Il furto in abitazione avviene mediante introduzione in edificio o altro luogo destinato a privata dimora o nelle pertinenze di esso, intendendosi i luoghi ove una persona staziona per compiere attività di vita privata o professionale. Il furto con strappo avviene con la sottrazione di mano o di dosso della persona, ove la violenza attuata è diretta a vincere la resistenza del legittimo detentore.

Entrambe le fattispecie sono punite con la reclusione da quattro a sette anni e con la multa da euro 927 a euro 1.500.

In campo legale non è mai il caso di dare nulla per scontato

Se persino il furto è qualcosa, seppur concettualmente semplice, che diventa molto complesso quando si tratta di dargli una collocazione legale, è facile intuire quanto complesso sia destreggiarsi fra codici e procedure. Per questo, anche per le esigenze all’apparenza più semplici, è sempre meglio avere un esperto al proprio fianco. Per qualsiasi esigenza legale contatta il nostro studiotutela i tuoi diritti!

divorzio immediato

Il divorzio immediatola procedura accelerata per concludere un matrimonio

L’augurio che si fa a ogni coppia che si sposa è che la loro felicità possa durare in eterno… ma realisticamente sappiamo che non sempre, purtroppo, questa fortuna accompagna gli sposi. Alle volte, per le più disparate ragioni, una coppia decide di separarsi e quindi divorziare, e si da persino il caso che le motivazioni siano tanto serie da esigere una separazione più rapida possibile. Spesso anche dal punto di vista della burocrazia e dello stato civile degli ex coniugi. Dunque servirebbe una procedura di divorzio immediato. Ma la legge lo prevede? 

Divorzio immediato: i presupposti della legge

Il nostro ordinamento, all’art 3 della legge sul divorzio, prevede casi tassativi grazie ai quali è possibile ottenere il divorzio immediato. E’ infatti previsto che, oltre all’ipotesi più comune nella quale si giunge al divorzio trascorso un determinato periodo dalla separazione, vi sono altri casi che permettono ai due sposi infelici di porre fine al vincolo matrimoniale immediatamente , e ciò avviene, per esempio, quando il coniuge è stato condannato all’ergastolo, quando ha cambiato sesso, quando si è macchiato di reati particolarmente gravi ai danni del coniuge o dei figli.  

 Anche una possibile sentenza di assoluzione può essere valutata dal Giudice della causa civile per giungere ad un divorzio immediato. Tra questi casi di divorzio, definiamolo, istantaneo, non rientra, tuttavia il divorzio così come previsto dalla riforma Cartabia, che, ha sì, sensibilmente modificato le modalità procedurali nel diritto di famiglia, ma non ha previsto un divorzio istantaneo, piuttosto ha previsto una procedura più veloce per giungere al divorzio.  

 Il divorzio dopo la Riforma Cartabia  

La nuova disciplina processuale introdotta dalla cosiddetta Riforma Cartabia, in vigore  dopo il 28 febbraio 2023, è ispirata alla semplificazione e speditezza del processo cosicché, per dare esecuzione a questo principio, nel caso del diritto di famiglia, il legislatore ha previsto la possibilità di una trattazione unitaria dei due diversi passaggi per giungere alla cessazione del vincolo matrimoniale. 

Secondo la riforma di cui sopra è possibile presentare, in un unico atto tanto la domanda di separazione che la domanda di divorzio, questo permetterà, sicuramente, di ridurre i tempi di attesa ma non di saltare un passaggio. 

Il divorzio immediato: la procedura

Il Giudice, quindi, valuterà la domanda di separazione e, una volta accolta la richiesta di separazione con una sentenza, stabilirà  con altro provvedimento  la data dell’udienza di divorzio, data che varierà in considerazione del tipo di separazione richiesta. Si ricordi, infatti, che è possibile giungere al divorzio trascorsi 6 mesi dalla separazione consensuale oppure dodici mesi da quella giudiziale.  

Peraltro, mentre in un primo momento, desumendolo dal dato letterale, pareva possibile applicare questa procedura al solo divorzio giudiziale, la Cassazione è intervenuta chiarendo che la procedura in questione trova applicazione tanto nel procedimento giudiziale quanto in quello consensuale.  

 A riprova, tuttavia, che non si tratta di un procedimento di divorzio immediato, così come è stato erroneamente definito nel momento di in cui la norma è entrata in vigore, la circostanza che anche se si presentano le due diverse domande in un unico atto ,il contributo unico da versare è raddoppiato proprio perché due sono le domande. Quando, dunque, si farà un ricorso che preveda la separazione e la contestuale domanda di divorzio bisognerà versare un doppio contributo unificato. 

Si procederà quindi, ad avanzare tutte le richieste che si vogliono fare con la separazione e , nello stesso atto, avanzare anche la domanda di divorzio indicando le condizioni. 

Quando conviene procedere in questo modo? 

Ove si consideri che la domanda di separazione e di divorzio fotografa la situazione allo stato degli atti, se  la situazione tra le parti risulti alquanto definita (si pensi a due coniugi che non hanno figli minori o non economicamente autosufficienti) è auspicabile l’adozione di questa procedura perché permette di risparmiare tempo e soldi, considerando che difficilmente potrà esserci una mutazione della situazione nel breve lasso di tempo di sei mesi.

Il divorzio immediato non è meno problematico di un divorzio

Il momento in cui una coppia decide di concludere la propria vita comune è sempre traumatico: il rischio di fraintendimenti è dietro l’angolo, e non è sempre facile mantenere la calma e concludere in modo equo il rapporto. Per fortuna la legge è molto precisa in questi casi, proprio allo scopo di evitare iniquità e, di conseguenza, rancori. Per questo è sempre il caso di affidarsi a un legale esperto che guidi gli ex coniugi nella fase del divorzio: se ne hai bisogno contatta il nostro studioTutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon

asta giudiziaria

Asta giudiziaria: una procedura aperta a tutti

Spesso e volentieri sentiamo di persone che hanno concluso affari d’oro approfittando di un’asta giudiziaria, tanto che la possibilità di acquistare un bene costoso come un immobile attraverso un’asta giudiziaria tenta un po’ tutti! Le aste giudiziarie, però, richiedono molta attenzione e l’acquisto di immobili attraverso di esse è impegnativo per una famiglia, quindi è bene saperne il più possibile!

Andiamo con ordine: cos’è un’asta giudiziaria?

Un’asta è una vendita pubblica di beni al miglior offerente. Il caso che ci interessa vede i beni presi in carico dall’autorità giudiziaria e venduti nell’ambito di un procedimento esecutivo, come ad esempio il pignoramento di un immobile o una procedura concorsuale come un fallimento.

Piccola curiosità: l’etimologia del nome “Asta” deriva dal latino “Hasta”, letteralmente “Lancia”, perché in età romana si piantava una lancia dove la vendita aveva luogo. 

Come posso partecipare a un’asta giudiziaria, e come posso gestirla al meglio?

Prima di tutto devi venirne a conoscenza! Ci sono vari modi per informarsi, come:

  • consultare siti internt specializzati in materia, come quello del tribunale nel cui circondario sono ubicati gli immobili.
  • prendere visione delle pubblicazione negli spazi destinati all’affissione, talvolta degli stessi immobili messi in asta. Spesso gli organi preposti, però, non prevedono questo tipo di pubblicazioni. 
  • Individuare le pubblicità delle vendite sui quotidiani. 
  • Prendere visione degli avvisi di vendita direttamente presso la Cancelleria del Tribunale

Presso la Cancelleria o sul sito ove è pubblicizzata l’asta è reperibile anche una relazione di stima relativa all’immobile, realizzata dal Consulente Tecnico d’Ufficio: è sempre bene averne una copia per sottoporla a un tecnico di fiducia che valuti la convenienza dell’acquisto.

È essenziale conoscere a fondo le caratteristiche del bene, come lo stato di conservazione, se è occupato dal debitore o meno, ed è sempre una buona idea fare un sopralluogo dell’edificio

L’asta è aperta a tutti, eccezion fatta per il debitore, anche se i suoi parenti, moglie o figli, possono partecipare. La partecipazione è ammessa sia direttamente che per procura, tramite un avvocato. 

Attenzione, però: se si si decide di far partecipare qualcun altro all’asta al proprio posto, costui dovrà dichiarare presso la Cancelleria del Tribunale entro tre giorni dall‘incanto il nome della persona per cui si deposita l’offerta. Il mandato dovrà essere depositato, altrimenti l’aggiudicazione diventerà definitiva a nome del procuratore.

Le aste possono essere di due tipi: senza incanto o con incanto.

La vendita senza incanto è un’asta che si svolge a porte chiuse, senza la presenza fisica degli offerenti, tramite la presentazione di offerte.

A livello pratico prevede prima di tutto il deposito in Cancelleria (o solitamente presso il Custode Delegato dal Giudice alla vendita) di uno scritto in forma libera in cui è necessario indicare:

  • i propri dati anagrafici
  • l’immobile che si intende acquistare
  • l’indicazione del prezzo di acquisto che si propone, il modo in cui si intende pagare e la data in cui si intende saldare (entro 120giorni) e dell’ordinanza di vendita.

L’offerta, corredata delle marche richieste, deve essere completata da un assegno circolare a titolo di cauzione (o altra modalità stabilita dal bando di vendita).

Tutto deve essere inserito in una busta chiusa e depositato alla Cancelleria delle Esecuzioni Immobiliari del Tribunale (o presso il Custode Delegato alla vendita) nel cui circondario si trova l’immobile. Il cancelliere, ricevendo la busta, appone alcune annotazioni all’esterno in modo da identificare di quale procedura si tratta. 

Le buste pervenute devono essere conservate dalla cancelleria, e aperte, quindi, dal Giudice (o dal Custode Delegato) all’udienza fissata per l’esame delle offerte. Se ci sono più offerenti, il Giudice dell’esecuzione invita gli offerenti a una gara sull’offerta più alta. 

Inoltre, quando il Giudice dell’esecuzione dà luogo alla vendita, stabilisce con decreto tutte le modalità per il versamento del prezzo e il termine entro il quale deve essere effettuato il saldo. A volte viene concesso un pagamento rateale. Si può acquistare un bene all’asta anche attraverso un mutuo e con le c.d. „agevolazioni prima casa“ ove ricorrano i requisiti.

Infine, avvenuto il versamento, il Giudice emette un altro decreto per il trasferimento del bene espropriato al nuovo acquirente, e ingiunge al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto. Questo costituisce titolo esecutivo per il rilascio. 

La vendita con incanto, invece, prevede la partecipazione diretta alla gara.

Non si presenterà, quindi una busta chiusa. Nel provvedimento con il quale il Giudice dell’esecuzione ordina l’incanto, si stabiliscono:

  • prezzo base dell’incanto
  • giorno e ora dell’incanto e le forme di pubblicità
  • la misura minima dell’aumento delle offerte
  • la cauzione da versare, che verrà poi restituita a chi non vincerà la gara.

La gara in sé si svolge molto velocemente: le offerte, per essere valide, devono superare il prezzo base o l’offerta precedente nella misura minima indicata. Tra un’offerta e l’altra non deve trascorrere più di uno/due minuti (il tempo è stabilito prima dell’apertura dell’asta), altrimenti l’ultima offerta fatta diviene definitiva. 

Una volta conclusa l’asta, il vincitore viene definito “aggiudicatario provvisorio”. Questo perché vengono ancora concessi dieci giorni di tempo per avanzare ulteriori offerte, che però devono superare di un quinto il prezzo raggiunto nell’incanto. 

Trascorsi, infine, dieci giorni dall’aggiudicazione senza ulteriori offerte, l’aggiudicatario diventa definitivo… e può tirare un sospiro di sollievo!

Solo il Tribunale si occupa della vendita all’asta?

No: recentemente, è stata introdotta nel nostro ordinamento la possibilità per il giudice di delegare le operazioni di vendita dei beni mobili registrati e dei beni immobili . Inizialmente, questa possibilità è stata attribuita solo ai notai, ma successivamente è stata estesa anche ad avvocati e commercialisti iscritti ad appositi elenchi.

Ovviamente, la partecipazione del professionista al processo esecutivo rimane soggetta alla direzione del Giudice, al quale spetta la definizione dell’ambito delle funzioni delegate e la risoluzione delle controversie che possano sorgere. 

La procedura di partecipazione a un’asta giudiziaria è comunque qualcosa di laborioso e difficile!

Affidarsi a un professionista può essere la soluzione ideale! Scopri come funzionano gli istituti di Rappresentanza e Procura!

Hai bisogno della nostra assistenza? Contattaci: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan.

decreto ingiuntivo

Decreto ingiuntivo: cos’è e come posso oppormi

Ci sono determinate esperienze, nella vita, che davvero non vorremmo vivere. Esperienze negative capaci di destabilizzarci e che spesso non sappiamo come affrontare. Una di queste è ricevere un decreto ingiuntivo!

A dire il vero, ricevere un decreto ingiuntivo non è così insolito e può capitare davvero a tutti. Cerchiamo quindi di capire meglio di cosa si tratta, e soprattutto, come opporci quando riteniamo che il decreto sia stato emesso ingiustamente!

Cos’è un decreto ingiuntivo?

Innanzitutto cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Un decreto ingiuntivo, detto anche ingiunzione di pagamento, è un atto giudiziario con il quale il Giudice ingiunge a un debitore di pagare una somma determinata di denaro o di consegnare una cosa determinata o una certa quantità di cose il cui valore va a colmare il debito. 

Il decreto ingiuntivo viene emesso a seguito di un procedimento speciale, chiamato anche “monitorio”, che consente di ottenere il più rapidamente possibile un titolo esecutivo.

La caratteristica fondamentale di questa particolare procedura è l‘assenza totale di un contraddittorio nella sua prima fase, ossia quella successiva al deposito del ricorso. Infatti, una volta ricevuto il ricorso iniziale, il Giudice esamina l’atto e i documenti e, se ritiene che vi siano i presupposti, emette il decreto ingiuntivo, senza fissare alcuna udienza.

Il ricorrente, quindi, dovrà depositare il ricorso per ingiunzione di pagamento presso la cancelleria del Giudice competente, il Giudice di Pace o il Tribunale a composizione monocratica. Fatto questo, una volta che il Giudice lo avrà emesso, senza conferire con l’altra parte, ricorso e decreto verranno portate a conoscenza del debitore. Qesto mediante una notifica per copia autentica, entro e non oltre 60 giorni dal deposito in cancelleria del decreto stesso.

Dopo essere stato notificato, il decreto ingiuntivo ha valore per dieci anni!

Inoltre, con questo titolo, nel caso in cui il debitore non dovesse pagare, sarà poi possibile attivare l’esecuzione forzata, ossia il pignoramento dei beni del debitore.

Quindi, come si vede, l’iter che porta all’emissione di un decreto ingiuntivo è molto semplice e può capitare di riceverne uno per una situazione “debitoria” di cui non siamo a conoscenza o che non riteniamo tale! 

Cosa fare, dunque, quando si riceve un decreto ingiuntivo?

Una volta notificato il decreto ingiuntivo, il “debitore ingiunto”, ossia il destinatario del decreto, può fare tre cose: 

1. Adempiere spontaneamente, cioè pagare ed evitare così un eventuale pignoramento.

2. Non fare nulla: adottata questa strategia, trascorsi 40 giorni dalla notifica, il creditore farà dichiarare definitivo il decreto ingiuntivo, chiedendo che lo stesso venga dichiarato „esecutivo“. Bisogna però prestare attenzione, perchè in alcuni casi il decreto ingiuntivo è “provvisoriamente esecutivo” fin da subito e in questo caso non occorre che il creditore attenda 40 giorni prima di poter agire. Ottenuta l’esecutorietà del decreto, il creditore può avviare l’azione esecutiva, notificando il precetto. Con questo atto egli “intima e fa precetto” al debitore di pagare entro e non oltre il termine di 10 giorni. Scaduto quest’ultimo termine, il creditore è libero di procedere a pignoramento, che sia esso mobiliare, presso terzi o immobiliare. 

3. Proporre opposizione al decreto ingiuntivo!

Come ci si oppone a un decreto emesso a nostro nome?

Lo strumento difensivo a disposizione dell’ingiunto è quindi l’Opposizione , con cui è possibile far valere eventuali vizi della notificazione. Ad esempio, il fatto che la notifica sia avvenuta oltre i 60 giorni dall’emissione del decreto ingiuntivo. Oppure l’incompetenza del Giudice adito con il ricorso per ingiunzione oppure contestare nel merito la stessa esistenza del debito. 

A seguito dell’opposizione si instaura un giudizio nel corso del quale il Giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo valuta il caso più approfonditamente e si pronuncia sulla natura o l’esistenza del credito azionato dal ricorrente. 

L’opposizione deve essere presentata, come si diceva, entro 40 giorni dalla notifica del decreto. Questo a meno che non si proceda a una “opposizione tardiva” (hyperlink art. 650 c.p.c.), possibile quando il debitore/ingiunto dimostri di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo per caso fortuito o forza maggiore, circostanze che dovranno essere dimostrate. Non sarà in ogni caso possibile opporsi una volta trascorsi 10 giorni dal primo atto di esecuzione. 

L‘opposizione può avere diversi esiti:

  • Può essere totalmente rigettata: in tal caso, il decreto diviene definitivo;
  • Può essere accolta integralmente: in questa ipotesi, il decreto non sarà più efficace;
  • Può essere accolta parzialmente: in questo caso il decreto sarà sostituito dalla sentenza, che diverrà il nuovo titolo esecutivo.

Come già anticipato, se il debitore non provvede al pagamento, ma nemmeno si oppone al decreto, oppure, se l’opposizione non va a buon fine, il creditore è autorizzato ad avviare l’esecuzione e, quindi, a procedere al pignoramento dei beni.

Quindi, se ricevi un decreto ingiuntivo, non farti prendere dal panico e contatta il nostro Studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan

diritto alla disconnessione

Diritto alla disconnessione: ricaricarsi… staccando la spina!


Paradossale a dirsi ma immediato nella vita di chiunque, tutti abbiamo bisogno di un periodo di distacco dal mondo per ricaricarci e tornare al nostro lavoro con più efficacia. Fin qui nulla di strano, esperienze di vita comune, eppure negli ultimi tempi le nuove forme di lavoro da remoto hanno imposto una riflessione seria su un argomento caro a tutti i lavoratori: il diritto alla disconnessione.

Il diritto alla disconnessione: tutto comincia con lo smart working.

Lo smart working è una modalità di lavoro che, durante il periodo di lock down, quasi tutti si sono trovati costretti a sperimentare e che sembra essere destinata a divenire parte della nostra quotidianità. Alcuni Stati, lo ricordiamo, hanno già preso atto del cambiamento in corso e hanno già introdotto norme volte a regolamentare lo smart working e riportare in equilibrio il rapporto fra vita e lavoro.

Secondo i dati diffusi dal Parlamento europeo, con l’avvento della pandemia il c.d. smart working ha avuto un incremento, rispetto al periodo precedente, di almeno un 30%, determinando un importante cambiamento nelle vite dei lavoratori. Il lavorare da casa, infatti, ha portato ad essere sempre connessi e, quindi, a prestare attività per molte ore continuative: in media si è calcolato che un lavoratore in smart working sia effettivamente attivo per non meno di 48 ore settimanali.

Tutto ciò ha avuto, inevitabilmente, un impatto negativo sull’equilibrio fra esigenze lavorative e di vita quotidiana. Per questo, all’inizio dell’anno, lo stesso Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione Europea di approvare una legge che garantisca il c.d. diritto alla disconnessione, ossia il diritto del lavoratore a disconnettersi digitalmente dalla sua attività al termine dell’orario di lavoro, senza ciò abbia ripercussioni negative da parte del datore di lavoro.

Il “diritto alla disconnessione” è ormai divenuto un diritto fondamentale, equiparabile al diritto di godere del riposo infrasettimanale o delle ferie.

Tra i vari Stati europei che hanno regolamentato lo smart working, il Portogallo è stato il primo ad aver recepito, almeno in parte, le indicazioni provenienti dal Parlamento europeo. Infatti, pur non avendo riconosciuto un vero e proprio diritto alla disconnessione, ha espressamente vietato ai datori di lavoro di contattare i dipendenti fuori dall’orario di lavoro o di monitorarli mentre lavorano da casa, sostanzialmente tutelando la libertà di ogni lavoratore di dedicare un adeguato numero di ore alla propria vita privata. Oltre a questo, la legge prevede che ai lavoratori venga elargito un contributo economico per far fronte alle spese di connessione internet e di elettricità, anche se le disposizioni non saranno applicabili alle aziende con meno di dieci dipendenti.

È bene sottolineare, però, che tra gli obiettivi della nuova normativa non vi è soltanto quello di tutelare i lavoratori, ma anche quello di attrarre i nomadi digitali nel Paese, secondo quanto dichiarato dalla stessa ministra portoghese Ana Mendes Godinho.

E per quanto riguarda l’Italia?

In Italia esiste già una legge che regolamenta il lavoro agile, la L. n. 81/2017. Essa, però, non contempla alcun generale diritto alla disconnessione ed ha rimesso la regolamentazione ad un eventuale accordo tra le parti, il quale dovrà individuare “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”

La genericità di tali disposizioni fa sì che, molto spesso, la disconnessione rimanga inattuata nella pratica; per questo, nella nuova società post pandemia, si rende inevitabile un nuovo intervento del legislatore o, quanto meno, della contrattazione collettiva, al fine di garantire ai lavoratori agili un effettivo diritto alla disconnessione.

Il diritto del lavoro, qualcosa di davvero complesso

Per questo, quando si tratta di comprendere e far valere i propri diritti, è sempre consigliabile rivolgersi a un professionista. Contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Monica Bassan