prestazioni occasionali

Prestazioni occasionali sul lavoro: come gestirle secondo la legge

Nel mondo del lavoro, il contratto di collaborazione occasionale ora prestazioni occasionali viene spesso utilizzato tra le parti, datore di lavoro e lavoratore, per lavori saltuari e limitati nel tempo. E’ un rapporto che dovrebbe essere molto semplice e snello ma è stato spesso rimaneggiato dal nostro legislatore dopo alterne fortune, giuridiche, politiche e sociali.

Le prestazioni occasionali secondo la legge

La “prestazione occasionale” è stata da ultima disciplinata compiutamente nel 2017. Giuridicamente, l’interpretazione e l’applicazione del contratto non è facile e abbiamo avuto bisogno di numerose circolari del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS, nonché diversi interventi giurisprudenziali per definirne i contorni.

E’ bene specificare che questo rapporto di lavoro è tutti gli effetti un lavoro autonomo e, quindi, il prestatore di lavoro non è un dipendente: è colui che svolge a favore di un committente un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione. Si distingue dal lavoro autonomo abituale non per la natura della prestazione ma per il carattere episodico dello stesso. Infatti si parla di attività svolte nel corso di un anno civile, dal 1° gennaio al 31 dicembre di ciascun anno.

Cosa cambia con la nuova legge di bilancio

E ora la legge di bilancio 2023 ha introdotto importanti novità per quanto riguarda il Contratto di Prestazione occasionale e l’INPS si sta adeguando. Ma dal 1° gennaio 2023, cosa cambia in termini pratici?

Innanzitutto, se ne è esteso grandemente l’utilizzo. Infatti è previsto l’aumento da 5.000,00 a ben 10.000,00 euro per anno civile del limite di compenso erogabile dall’utilizzatore nei confronti dei prestatori di lavoro. Inoltre, potranno adoperare questo contratto tutti gli utilizzatori che hanno fino a 10 (mentre prima era fino a 5) lavoratori subordinati a tempo indeterminato.

Infine, sono stati eliminati i limiti che imponevano alle imprese del turismo di occupare solo particolari categorie di lavoratori. Per le imprese agricole sono introdotte forme semplificate di utilizzo delle prestazioni di lavoro occasionale a tempo determinato. Il nuovo regime specifico prevede, tra l’altro, l’inoltro della Comunicazione Obbligatoria di assunzione al competente Centro per l’impiego.

Rimane invariata, invece, la disciplina generale sia fiscale che normativa.

Continua, infatti, a non essere necessaria l’apertura di una partita IVA e nemmeno l’iscrizione ad un albo professionale. È sufficiente che il collaboratore presenti all’utilizzatore una ricevuta per prestazione occasionale e il committente versi, per conto del collaboratore occasionale, una ritenuta d’acconto sul compenso pari al 20%.

Il prestatore ha diritto all’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, con iscrizione alla Gestione separata dell’INPS, nonché all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Inoltre, è previsto il diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali come per legge, nonché l’estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

La gestione dei rapporti di lavoro è una materia complessa e delicata

Eppure moltissime persone hanno bisogno di gestire situazioni simili nella loro quotidianità. Le conseguenze di una gestione errata, però, si ripercuotono in modo molto tangibile sull’economia personale e familiare di moltissimi lavoratori. Ecco perché affidarsi a un professionista è un investimento necessario. Se anche tu hai bisogno di aiuto nella gestione della tua attività lavorativa contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan

unioni civili

Unioni civili: anatomia di un diritto

Il tema dei diritti civili non perde mai il suo ruolo di spicco nel dibattito pubblico nazionale. Da ultimo l’attenzione è stata focalizzata sul Ddl Zan, la legge sull’omotransfobia bocciata al senato, ma il rumore per quest’ultimo dibattito rischia di farci perdere di vista una battaglia di pari entità, combattuta qualche anno fa e, a detta di molti, vinta: quella per le unioni civili

Da anni si sentiva la necessità di dare una veste legale alla situazione in cui si trovano  molte persone che, per una ragione o per l’altra, non potevano o non volevano sposarsi ma ravvisavano la necessità di reciproca assistenza, cura e delega. Specialmente, il problema veniva sollevato nell’ambito della comunità LGBTQI+, che riscontrava una mancanza di tutela di coppia pressoché totale. 

Con la legge 76 del 20 maggio 2016 viene finalmente regolato, dopo un lungo dibattito, l’istituto delle unioni civili, riservato alle persone dello stesso sesso, unificandolo con la disciplina della convivenza di fatto che riguardava invece sia le coppie omosessuali che quelle eterosessuali. 

La normativa riconosce alle persone dello stesso sesso la possibilità di costituire una unione civile

I cittadini possono unirsi facendo discendere dall’unione civile gli stessi diritti e gli stessi doveri che hanno due coniugi eterosessuali all’interno del matrimonio. L’istituto è dunque equivalente al matrimonio: il diverso nome corrisponde a una precisa scelta di tipo politico, ma tuttavia non toglie nulla all’unione civile rispetto al differente ma egualitario istituto del matrimonio. 

Tuttavia, qualche differenza c’è. 

Le differenze più lampanti sono legate alla costituzione del rapporto e allo scioglimento dello stesso. 
 
Riguardo alla costituzione, laddove il matrimonio è celebrato da un Ufficiale dello Stato Civile o da un ministro di culto, l’unione civile si costituisce mediante una dichiarazione davanti all’Ufficiale dello Stato Civile, che provvede poi alla registrazione nell’archivio dello stato civile, in modo del tutto simile a quel che avviene per il matrimonio. 

Per quanto riguarda lo scioglimento, invece, nell’istituto del matrimonio esso avviene con la morte di un coniuge, oppure mediante separazione e successivo divorzio. Per quanto riguarda l’Unione Civile, invece, il rapporto si scioglie tre mesi dopo aver comunicato il venir meno della relazione affettiva accompagnata dalla convivenza all’Ufficiale di Stato Civile. 

I diritti e i doveri fondamentali, però, rimangono uguali nei due diversi istituti. Secondo i commi 11 e 12 della legge 76, infatti, i due componenti l’Unione Civile hanno l’obbligo della reciproca assistenza morale e materiale, e hanno pari dignità nella coppia. 

Le unioni civili nel regime patrimoniale

Invece, il regime patrimoniale, normato dal comma 13, in mancanza di una diversa convenzione è quello della comunione dei beni. Anche in questo caso, quindi, si riscontra una perfetta equivalenza con la disciplina del Matrimonio. 

Anche nel caso di morte di uno dei componenti la coppia, le indennità dovranno essere corrisposte all’alro soggetto dell’unione civile, come da comma 17. L’equivalenza tra i due istituti non viene meno, e anzi si coglie in pieno, nella normativa di richiamo come il comma 19, che rimanda ad altre norme di diversa natura, come pure per le norme successorie (comma 21 art.1), che comporta una piena parificazione tra la figura del coniuge e quella del partner nell’unione civile. 

Una differenza però c’è, a ben guardare, e a detta di molti è sconcertante. L’istituto dell’Unione Civile al contrario del Matrimonio non prevede l’obbligo della fedeltà, che ovviamente non è solo da intendersi in termini di fedeltà sessuale. La differenza potrebbe essere ascrivibile alla percezione anacronistica dell’obbligo, la cui violazione non pare più avere rilevanza come in passato, e tuttavia rappresenta comunque una forma di diseguglianza tra i due istituti che non può passare sotto silenzio, poiché, forse inconsapevolmente, rende il matrimonio un istituto di serie A riservando all’unione civile la serie cadetta.

Unioni civili: un esempio di quanto c’è da scoprire riguardo alla legge!

Questo articolo ti è stato utile? Scopri tutti i nostri approfondimenti, ma se hai bisogno di assistenza diretta non esitare a contattatre il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon.  

furto

Furto: un concetto solo all’apparenza semplice

Siamo abituati a dare alcuni concetti per scontati. Soprattutto in campo sociale, esistono atteggiamenti, azioni, o devianze che riconosceremmo subito appena li vediamo o ne sentiamo parlare. Ma siamo sicuri di poter dire davvero in cosa consista, ad esempio, un reato? Non parliamo di reati concettualmente complessi come il peculato o la diffamazione, difficilmente definibili se non per chi non abbia una formazione specifica. Pensiamo a reati con cui tutti -purtroppo- hanno dimestichezza. Come il furto, per esempio: tutti sapremmo idealmente spiegare cosa sia. Ma dal punto di vista legale siamo sicuri di sapere in cosa consista e cosa comporti? Anche il furto, in effetti, è qualcosa di molto complesso: scopriamo insieme di cosa si tratta di preciso.

Furto: la definizione della legge

Il Codice Penale, all’Art. 624, definisce il concetto di Furto. Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516. Oggetto del reato è la cosa mobile altrui, che deve uscire dalla sfera di possesso del detentore ad opera di un soggetto che deve agire con dolo specifico, ovvero allo scopo di trarre profitto, non necessariamente patrimoniale.

Al fine della punizione del reato è necessaria la presentazione di apposita querela, da formulare da parte della persona offesa negli uffici delle forze dell’ordine o a mezzo difensore. In queste viene descritto il fatto e risulti la volontà che si proceda in ordine al reato e che venga punito il colpevole. La querela deve essere presenta entro 3 mesi dal giorno in cui si ha notizia del fatto.

Non è quindi un reato per cui si possa procedere d’ufficio?

Non esattamente. Vi sono, in effetti, alcuni casi in cui si procede d’ufficio, quindi anche senza la necessità di presentazione di apposita querela. Succede quando la persona offesa è incapace per età o infermità, oppure nei caso in cui fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento. O, ancora, esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinata a pubblico servizio o pubblica utilità, difesa o reverenza. Oppure se il fatto è commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica.

Non esiste un solo tipo di furto: le aggravanti

Il reato di furto è aggravato, quindi soggiace a una pena più dura prevista nella reclusione da due a sei anni e della multa da euro 927 a euro 1.500, ai sensi dell’art. 625, in alcuni casi. Oltre a quanto già sopra accennato, anche nei casi in cui: se il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento; se il colpevole porta in dosso armi o narcotici, senza farne uso. Quando il fatto è commesso con destrezza. Ancora, se il fatto è commesso da tre o più persone, ovvero anche da una sola, che sia travisata o simuli la qualità di pubblico ufficiale o d’incaricato di pubblico servizio. Se il fatto è commesso sul bagaglio dei viaggiatori; se il fatto è commesso all’interno di mezzi di pubblico trasporto. Se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire o che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro.

Da ultimo, vi sono anche i casi di furto in abitazione e furto con strappo, disciplinati all’art. 624 bis c.p.

Il furto in abitazione avviene mediante introduzione in edificio o altro luogo destinato a privata dimora o nelle pertinenze di esso, intendendosi i luoghi ove una persona staziona per compiere attività di vita privata o professionale. Il furto con strappo avviene con la sottrazione di mano o di dosso della persona, ove la violenza attuata è diretta a vincere la resistenza del legittimo detentore.

Entrambe le fattispecie sono punite con la reclusione da quattro a sette anni e con la multa da euro 927 a euro 1.500.

In campo legale non è mai il caso di dare nulla per scontato

Se persino il furto è qualcosa, seppur concettualmente semplice, che diventa molto complesso quando si tratta di dargli una collocazione legale, è facile intuire quanto complesso sia destreggiarsi fra codici e procedure. Per questo, anche per le esigenze all’apparenza più semplici, è sempre meglio avere un esperto al proprio fianco. Per qualsiasi esigenza legale contatta il nostro studiotutela i tuoi diritti!

divorzio immediato

Il divorzio immediatola procedura accelerata per concludere un matrimonio

L’augurio che si fa a ogni coppia che si sposa è che la loro felicità possa durare in eterno… ma realisticamente sappiamo che non sempre, purtroppo, questa fortuna accompagna gli sposi. Alle volte, per le più disparate ragioni, una coppia decide di separarsi e quindi divorziare, e si da persino il caso che le motivazioni siano tanto serie da esigere una separazione più rapida possibile. Spesso anche dal punto di vista della burocrazia e dello stato civile degli ex coniugi. Dunque servirebbe una procedura di divorzio immediato. Ma la legge lo prevede? 

Divorzio immediato: i presupposti della legge

Il nostro ordinamento, all’art 3 della legge sul divorzio, prevede casi tassativi grazie ai quali è possibile ottenere il divorzio immediato. E’ infatti previsto che, oltre all’ipotesi più comune nella quale si giunge al divorzio trascorso un determinato periodo dalla separazione, vi sono altri casi che permettono ai due sposi infelici di porre fine al vincolo matrimoniale immediatamente , e ciò avviene, per esempio, quando il coniuge è stato condannato all’ergastolo, quando ha cambiato sesso, quando si è macchiato di reati particolarmente gravi ai danni del coniuge o dei figli.  

 Anche una possibile sentenza di assoluzione può essere valutata dal Giudice della causa civile per giungere ad un divorzio immediato. Tra questi casi di divorzio, definiamolo, istantaneo, non rientra, tuttavia il divorzio così come previsto dalla riforma Cartabia, che, ha sì, sensibilmente modificato le modalità procedurali nel diritto di famiglia, ma non ha previsto un divorzio istantaneo, piuttosto ha previsto una procedura più veloce per giungere al divorzio.  

 Il divorzio dopo la Riforma Cartabia  

La nuova disciplina processuale introdotta dalla cosiddetta Riforma Cartabia, in vigore  dopo il 28 febbraio 2023, è ispirata alla semplificazione e speditezza del processo cosicché, per dare esecuzione a questo principio, nel caso del diritto di famiglia, il legislatore ha previsto la possibilità di una trattazione unitaria dei due diversi passaggi per giungere alla cessazione del vincolo matrimoniale. 

Secondo la riforma di cui sopra è possibile presentare, in un unico atto tanto la domanda di separazione che la domanda di divorzio, questo permetterà, sicuramente, di ridurre i tempi di attesa ma non di saltare un passaggio. 

Il divorzio immediato: la procedura

Il Giudice, quindi, valuterà la domanda di separazione e, una volta accolta la richiesta di separazione con una sentenza, stabilirà  con altro provvedimento  la data dell’udienza di divorzio, data che varierà in considerazione del tipo di separazione richiesta. Si ricordi, infatti, che è possibile giungere al divorzio trascorsi 6 mesi dalla separazione consensuale oppure dodici mesi da quella giudiziale.  

Peraltro, mentre in un primo momento, desumendolo dal dato letterale, pareva possibile applicare questa procedura al solo divorzio giudiziale, la Cassazione è intervenuta chiarendo che la procedura in questione trova applicazione tanto nel procedimento giudiziale quanto in quello consensuale.  

 A riprova, tuttavia, che non si tratta di un procedimento di divorzio immediato, così come è stato erroneamente definito nel momento di in cui la norma è entrata in vigore, la circostanza che anche se si presentano le due diverse domande in un unico atto ,il contributo unico da versare è raddoppiato proprio perché due sono le domande. Quando, dunque, si farà un ricorso che preveda la separazione e la contestuale domanda di divorzio bisognerà versare un doppio contributo unificato. 

Si procederà quindi, ad avanzare tutte le richieste che si vogliono fare con la separazione e , nello stesso atto, avanzare anche la domanda di divorzio indicando le condizioni. 

Quando conviene procedere in questo modo? 

Ove si consideri che la domanda di separazione e di divorzio fotografa la situazione allo stato degli atti, se  la situazione tra le parti risulti alquanto definita (si pensi a due coniugi che non hanno figli minori o non economicamente autosufficienti) è auspicabile l’adozione di questa procedura perché permette di risparmiare tempo e soldi, considerando che difficilmente potrà esserci una mutazione della situazione nel breve lasso di tempo di sei mesi.

Il divorzio immediato non è meno problematico di un divorzio

Il momento in cui una coppia decide di concludere la propria vita comune è sempre traumatico: il rischio di fraintendimenti è dietro l’angolo, e non è sempre facile mantenere la calma e concludere in modo equo il rapporto. Per fortuna la legge è molto precisa in questi casi, proprio allo scopo di evitare iniquità e, di conseguenza, rancori. Per questo è sempre il caso di affidarsi a un legale esperto che guidi gli ex coniugi nella fase del divorzio: se ne hai bisogno contatta il nostro studioTutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon

asta giudiziaria

Asta giudiziaria: una procedura aperta a tutti

Spesso e volentieri sentiamo di persone che hanno concluso affari d’oro approfittando di un’asta giudiziaria, tanto che la possibilità di acquistare un bene costoso come un immobile attraverso un’asta giudiziaria tenta un po’ tutti! Le aste giudiziarie, però, richiedono molta attenzione e l’acquisto di immobili attraverso di esse è impegnativo per una famiglia, quindi è bene saperne il più possibile!

Andiamo con ordine: cos’è un’asta giudiziaria?

Un’asta è una vendita pubblica di beni al miglior offerente. Il caso che ci interessa vede i beni presi in carico dall’autorità giudiziaria e venduti nell’ambito di un procedimento esecutivo, come ad esempio il pignoramento di un immobile o una procedura concorsuale come un fallimento.

Piccola curiosità: l’etimologia del nome “Asta” deriva dal latino “Hasta”, letteralmente “Lancia”, perché in età romana si piantava una lancia dove la vendita aveva luogo. 

Come posso partecipare a un’asta giudiziaria, e come posso gestirla al meglio?

Prima di tutto devi venirne a conoscenza! Ci sono vari modi per informarsi, come:

  • consultare siti internt specializzati in materia, come quello del tribunale nel cui circondario sono ubicati gli immobili.
  • prendere visione delle pubblicazione negli spazi destinati all’affissione, talvolta degli stessi immobili messi in asta. Spesso gli organi preposti, però, non prevedono questo tipo di pubblicazioni. 
  • Individuare le pubblicità delle vendite sui quotidiani. 
  • Prendere visione degli avvisi di vendita direttamente presso la Cancelleria del Tribunale

Presso la Cancelleria o sul sito ove è pubblicizzata l’asta è reperibile anche una relazione di stima relativa all’immobile, realizzata dal Consulente Tecnico d’Ufficio: è sempre bene averne una copia per sottoporla a un tecnico di fiducia che valuti la convenienza dell’acquisto.

È essenziale conoscere a fondo le caratteristiche del bene, come lo stato di conservazione, se è occupato dal debitore o meno, ed è sempre una buona idea fare un sopralluogo dell’edificio

L’asta è aperta a tutti, eccezion fatta per il debitore, anche se i suoi parenti, moglie o figli, possono partecipare. La partecipazione è ammessa sia direttamente che per procura, tramite un avvocato. 

Attenzione, però: se si si decide di far partecipare qualcun altro all’asta al proprio posto, costui dovrà dichiarare presso la Cancelleria del Tribunale entro tre giorni dall‘incanto il nome della persona per cui si deposita l’offerta. Il mandato dovrà essere depositato, altrimenti l’aggiudicazione diventerà definitiva a nome del procuratore.

Le aste possono essere di due tipi: senza incanto o con incanto.

La vendita senza incanto è un’asta che si svolge a porte chiuse, senza la presenza fisica degli offerenti, tramite la presentazione di offerte.

A livello pratico prevede prima di tutto il deposito in Cancelleria (o solitamente presso il Custode Delegato dal Giudice alla vendita) di uno scritto in forma libera in cui è necessario indicare:

  • i propri dati anagrafici
  • l’immobile che si intende acquistare
  • l’indicazione del prezzo di acquisto che si propone, il modo in cui si intende pagare e la data in cui si intende saldare (entro 120giorni) e dell’ordinanza di vendita.

L’offerta, corredata delle marche richieste, deve essere completata da un assegno circolare a titolo di cauzione (o altra modalità stabilita dal bando di vendita).

Tutto deve essere inserito in una busta chiusa e depositato alla Cancelleria delle Esecuzioni Immobiliari del Tribunale (o presso il Custode Delegato alla vendita) nel cui circondario si trova l’immobile. Il cancelliere, ricevendo la busta, appone alcune annotazioni all’esterno in modo da identificare di quale procedura si tratta. 

Le buste pervenute devono essere conservate dalla cancelleria, e aperte, quindi, dal Giudice (o dal Custode Delegato) all’udienza fissata per l’esame delle offerte. Se ci sono più offerenti, il Giudice dell’esecuzione invita gli offerenti a una gara sull’offerta più alta. 

Inoltre, quando il Giudice dell’esecuzione dà luogo alla vendita, stabilisce con decreto tutte le modalità per il versamento del prezzo e il termine entro il quale deve essere effettuato il saldo. A volte viene concesso un pagamento rateale. Si può acquistare un bene all’asta anche attraverso un mutuo e con le c.d. „agevolazioni prima casa“ ove ricorrano i requisiti.

Infine, avvenuto il versamento, il Giudice emette un altro decreto per il trasferimento del bene espropriato al nuovo acquirente, e ingiunge al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto. Questo costituisce titolo esecutivo per il rilascio. 

La vendita con incanto, invece, prevede la partecipazione diretta alla gara.

Non si presenterà, quindi una busta chiusa. Nel provvedimento con il quale il Giudice dell’esecuzione ordina l’incanto, si stabiliscono:

  • prezzo base dell’incanto
  • giorno e ora dell’incanto e le forme di pubblicità
  • la misura minima dell’aumento delle offerte
  • la cauzione da versare, che verrà poi restituita a chi non vincerà la gara.

La gara in sé si svolge molto velocemente: le offerte, per essere valide, devono superare il prezzo base o l’offerta precedente nella misura minima indicata. Tra un’offerta e l’altra non deve trascorrere più di uno/due minuti (il tempo è stabilito prima dell’apertura dell’asta), altrimenti l’ultima offerta fatta diviene definitiva. 

Una volta conclusa l’asta, il vincitore viene definito “aggiudicatario provvisorio”. Questo perché vengono ancora concessi dieci giorni di tempo per avanzare ulteriori offerte, che però devono superare di un quinto il prezzo raggiunto nell’incanto. 

Trascorsi, infine, dieci giorni dall’aggiudicazione senza ulteriori offerte, l’aggiudicatario diventa definitivo… e può tirare un sospiro di sollievo!

Solo il Tribunale si occupa della vendita all’asta?

No: recentemente, è stata introdotta nel nostro ordinamento la possibilità per il giudice di delegare le operazioni di vendita dei beni mobili registrati e dei beni immobili . Inizialmente, questa possibilità è stata attribuita solo ai notai, ma successivamente è stata estesa anche ad avvocati e commercialisti iscritti ad appositi elenchi.

Ovviamente, la partecipazione del professionista al processo esecutivo rimane soggetta alla direzione del Giudice, al quale spetta la definizione dell’ambito delle funzioni delegate e la risoluzione delle controversie che possano sorgere. 

La procedura di partecipazione a un’asta giudiziaria è comunque qualcosa di laborioso e difficile!

Affidarsi a un professionista può essere la soluzione ideale! Scopri come funzionano gli istituti di Rappresentanza e Procura!

Hai bisogno della nostra assistenza? Contattaci: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan.

decreto ingiuntivo

Decreto ingiuntivo: cos’è e come posso oppormi

Ci sono determinate esperienze, nella vita, che davvero non vorremmo vivere. Esperienze negative capaci di destabilizzarci e che spesso non sappiamo come affrontare. Una di queste è ricevere un decreto ingiuntivo!

A dire il vero, ricevere un decreto ingiuntivo non è così insolito e può capitare davvero a tutti. Cerchiamo quindi di capire meglio di cosa si tratta, e soprattutto, come opporci quando riteniamo che il decreto sia stato emesso ingiustamente!

Cos’è un decreto ingiuntivo?

Innanzitutto cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Un decreto ingiuntivo, detto anche ingiunzione di pagamento, è un atto giudiziario con il quale il Giudice ingiunge a un debitore di pagare una somma determinata di denaro o di consegnare una cosa determinata o una certa quantità di cose il cui valore va a colmare il debito. 

Il decreto ingiuntivo viene emesso a seguito di un procedimento speciale, chiamato anche “monitorio”, che consente di ottenere il più rapidamente possibile un titolo esecutivo.

La caratteristica fondamentale di questa particolare procedura è l‘assenza totale di un contraddittorio nella sua prima fase, ossia quella successiva al deposito del ricorso. Infatti, una volta ricevuto il ricorso iniziale, il Giudice esamina l’atto e i documenti e, se ritiene che vi siano i presupposti, emette il decreto ingiuntivo, senza fissare alcuna udienza.

Il ricorrente, quindi, dovrà depositare il ricorso per ingiunzione di pagamento presso la cancelleria del Giudice competente, il Giudice di Pace o il Tribunale a composizione monocratica. Fatto questo, una volta che il Giudice lo avrà emesso, senza conferire con l’altra parte, ricorso e decreto verranno portate a conoscenza del debitore. Qesto mediante una notifica per copia autentica, entro e non oltre 60 giorni dal deposito in cancelleria del decreto stesso.

Dopo essere stato notificato, il decreto ingiuntivo ha valore per dieci anni!

Inoltre, con questo titolo, nel caso in cui il debitore non dovesse pagare, sarà poi possibile attivare l’esecuzione forzata, ossia il pignoramento dei beni del debitore.

Quindi, come si vede, l’iter che porta all’emissione di un decreto ingiuntivo è molto semplice e può capitare di riceverne uno per una situazione “debitoria” di cui non siamo a conoscenza o che non riteniamo tale! 

Cosa fare, dunque, quando si riceve un decreto ingiuntivo?

Una volta notificato il decreto ingiuntivo, il “debitore ingiunto”, ossia il destinatario del decreto, può fare tre cose: 

1. Adempiere spontaneamente, cioè pagare ed evitare così un eventuale pignoramento.

2. Non fare nulla: adottata questa strategia, trascorsi 40 giorni dalla notifica, il creditore farà dichiarare definitivo il decreto ingiuntivo, chiedendo che lo stesso venga dichiarato „esecutivo“. Bisogna però prestare attenzione, perchè in alcuni casi il decreto ingiuntivo è “provvisoriamente esecutivo” fin da subito e in questo caso non occorre che il creditore attenda 40 giorni prima di poter agire. Ottenuta l’esecutorietà del decreto, il creditore può avviare l’azione esecutiva, notificando il precetto. Con questo atto egli “intima e fa precetto” al debitore di pagare entro e non oltre il termine di 10 giorni. Scaduto quest’ultimo termine, il creditore è libero di procedere a pignoramento, che sia esso mobiliare, presso terzi o immobiliare. 

3. Proporre opposizione al decreto ingiuntivo!

Come ci si oppone a un decreto emesso a nostro nome?

Lo strumento difensivo a disposizione dell’ingiunto è quindi l’Opposizione , con cui è possibile far valere eventuali vizi della notificazione. Ad esempio, il fatto che la notifica sia avvenuta oltre i 60 giorni dall’emissione del decreto ingiuntivo. Oppure l’incompetenza del Giudice adito con il ricorso per ingiunzione oppure contestare nel merito la stessa esistenza del debito. 

A seguito dell’opposizione si instaura un giudizio nel corso del quale il Giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo valuta il caso più approfonditamente e si pronuncia sulla natura o l’esistenza del credito azionato dal ricorrente. 

L’opposizione deve essere presentata, come si diceva, entro 40 giorni dalla notifica del decreto. Questo a meno che non si proceda a una “opposizione tardiva” (hyperlink art. 650 c.p.c.), possibile quando il debitore/ingiunto dimostri di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo per caso fortuito o forza maggiore, circostanze che dovranno essere dimostrate. Non sarà in ogni caso possibile opporsi una volta trascorsi 10 giorni dal primo atto di esecuzione. 

L‘opposizione può avere diversi esiti:

  • Può essere totalmente rigettata: in tal caso, il decreto diviene definitivo;
  • Può essere accolta integralmente: in questa ipotesi, il decreto non sarà più efficace;
  • Può essere accolta parzialmente: in questo caso il decreto sarà sostituito dalla sentenza, che diverrà il nuovo titolo esecutivo.

Come già anticipato, se il debitore non provvede al pagamento, ma nemmeno si oppone al decreto, oppure, se l’opposizione non va a buon fine, il creditore è autorizzato ad avviare l’esecuzione e, quindi, a procedere al pignoramento dei beni.

Quindi, se ricevi un decreto ingiuntivo, non farti prendere dal panico e contatta il nostro Studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan

diritto alla disconnessione

Diritto alla disconnessione: ricaricarsi… staccando la spina!


Paradossale a dirsi ma immediato nella vita di chiunque, tutti abbiamo bisogno di un periodo di distacco dal mondo per ricaricarci e tornare al nostro lavoro con più efficacia. Fin qui nulla di strano, esperienze di vita comune, eppure negli ultimi tempi le nuove forme di lavoro da remoto hanno imposto una riflessione seria su un argomento caro a tutti i lavoratori: il diritto alla disconnessione.

Il diritto alla disconnessione: tutto comincia con lo smart working.

Lo smart working è una modalità di lavoro che, durante il periodo di lock down, quasi tutti si sono trovati costretti a sperimentare e che sembra essere destinata a divenire parte della nostra quotidianità. Alcuni Stati, lo ricordiamo, hanno già preso atto del cambiamento in corso e hanno già introdotto norme volte a regolamentare lo smart working e riportare in equilibrio il rapporto fra vita e lavoro.

Secondo i dati diffusi dal Parlamento europeo, con l’avvento della pandemia il c.d. smart working ha avuto un incremento, rispetto al periodo precedente, di almeno un 30%, determinando un importante cambiamento nelle vite dei lavoratori. Il lavorare da casa, infatti, ha portato ad essere sempre connessi e, quindi, a prestare attività per molte ore continuative: in media si è calcolato che un lavoratore in smart working sia effettivamente attivo per non meno di 48 ore settimanali.

Tutto ciò ha avuto, inevitabilmente, un impatto negativo sull’equilibrio fra esigenze lavorative e di vita quotidiana. Per questo, all’inizio dell’anno, lo stesso Parlamento europeo ha chiesto alla Commissione Europea di approvare una legge che garantisca il c.d. diritto alla disconnessione, ossia il diritto del lavoratore a disconnettersi digitalmente dalla sua attività al termine dell’orario di lavoro, senza ciò abbia ripercussioni negative da parte del datore di lavoro.

Il “diritto alla disconnessione” è ormai divenuto un diritto fondamentale, equiparabile al diritto di godere del riposo infrasettimanale o delle ferie.

Tra i vari Stati europei che hanno regolamentato lo smart working, il Portogallo è stato il primo ad aver recepito, almeno in parte, le indicazioni provenienti dal Parlamento europeo. Infatti, pur non avendo riconosciuto un vero e proprio diritto alla disconnessione, ha espressamente vietato ai datori di lavoro di contattare i dipendenti fuori dall’orario di lavoro o di monitorarli mentre lavorano da casa, sostanzialmente tutelando la libertà di ogni lavoratore di dedicare un adeguato numero di ore alla propria vita privata. Oltre a questo, la legge prevede che ai lavoratori venga elargito un contributo economico per far fronte alle spese di connessione internet e di elettricità, anche se le disposizioni non saranno applicabili alle aziende con meno di dieci dipendenti.

È bene sottolineare, però, che tra gli obiettivi della nuova normativa non vi è soltanto quello di tutelare i lavoratori, ma anche quello di attrarre i nomadi digitali nel Paese, secondo quanto dichiarato dalla stessa ministra portoghese Ana Mendes Godinho.

E per quanto riguarda l’Italia?

In Italia esiste già una legge che regolamenta il lavoro agile, la L. n. 81/2017. Essa, però, non contempla alcun generale diritto alla disconnessione ed ha rimesso la regolamentazione ad un eventuale accordo tra le parti, il quale dovrà individuare “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”

La genericità di tali disposizioni fa sì che, molto spesso, la disconnessione rimanga inattuata nella pratica; per questo, nella nuova società post pandemia, si rende inevitabile un nuovo intervento del legislatore o, quanto meno, della contrattazione collettiva, al fine di garantire ai lavoratori agili un effettivo diritto alla disconnessione.

Il diritto del lavoro, qualcosa di davvero complesso

Per questo, quando si tratta di comprendere e far valere i propri diritti, è sempre consigliabile rivolgersi a un professionista. Contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Monica Bassan

assegno divorzile

Assegno divorzile: stringersi la mano in un momento difficile

Spesso, guardando film o serie TV, ci facciamo un’idea stereotipata e infarcita di luoghi comuni riguardo ad uno degli istituti più temuti da chiunque affronti il già difficilissimo momento del divorzio. L’assegno divorzile, ossia quanto l’ex coniuge è tenuto a versare al coniuge economicamente più debole a titolo di assegno di mantenimento.

Occorre partire dal presupposto che, la maggior parte delle volte, la narrazione di un divorzio che ci deriva dal cinema viene fatta sulla scorta del sistema giuridico statunitense. Spesso, appunto, le informazioni che filtrano sono stereotipate e servono più a fare da corollario ad una situazione drammaturgica che a descrivere la realtà. 

Assegno divorzile: una misura unidirezionale?

Ad esempio, non è assolutamente vero che l’assegno divorzile va nell’unica direzione della moglie. Allo stesso modo non è vero che il marito deve dissanguarsi per soddisfare la pretesa di una cifra arbitrariamente fissata da un giudice onnipotente. 

Nell’ordinamento italiano, l’assegno divorzile è stabilito secondo parametri ben precisi e il più possibile equi. Vediamo quali. 

Innanzitutto, ci corre l’obbligo di fare un rapido passaggio sull’istituto legale dell’assegno divorzile.

La legge prevede che: 

“tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio…” il Tribunale disponga “… l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Articolo 5 della legge 898/1970, al sesto comma,

L’idea di base è mantenere il tenore di vita.

Sino al 2017 la norma era stata interpretata così da garantire all’ex coniuge economicamente più debole un assegno che potesse permettergli lo stesso tenore di vita che aveva avuto durante la sussistenza del rapporto matrimoniale. 

Nel 2017  viene abbandonato quel criterio guida e si ha riguardo all’autosufficienza economica del coniuge e alla sua capacità di produrre reddito. Invero la diversa interpretazione della normativa di riferimento è frutto dei tempi. In una famiglia degli anni 70 la moglie era molto spesso casalinga o comunque aveva un reddito inferiore a quello del marito poiché lavorava part-time per dedicarsi alla famiglia. Ad essa si è sostituita oggi una famiglia nella quale i redditi e i ruoli dei coniugi possono essere paritari. Sicché il parametro guida del tenore della vita matrimoniale non corrispondeva più al concetto di famiglia come oramai si interpreta. 

Qui entra in gioco il concetto di diritto vivo

Il diritto vivo è appunto questo: l’adattare la norma, che ha carattere universale- ai tempi in cui la norma stessa deve trovare applicazione, e questo è il compito dei giudici. In tal senso sono intervenute le sentenze di cui si dirà appresso.

Dal criterio dell’autosufficienza economica, tuttavia, sono conseguite delle aberrazioni. Soprattutto in quei casi nei quali la moglie aveva conservato una capacità lavorativa che tuttavia non poteva più spendere in un momento di crisi economica. 
 
A dirimere la questione è intervenuta la sentenza 18287/2018 delle Sezioni Unite. Questa ha avuto il merito di superare ma al contempo contemperare le opposte visioni giurisprudenziali vagliando l’oggettiva situazione delle parti. L’assegno divorzile viene parametrato alla situazione dei coniugi e alla storia coniugale. Si pone per la prima volta su un piano paritetico tutti i criteri presi in considerazione dall’articolo 5 della legge sul divorzio del 1970

Ma qual è, dunque, lo scopo dell’assegno divorzile?

Attualmente, la funzione dell’assegno divorzile può così riassumersi: assistenziale, compensativa e solo in parte perequativa, ossia con lo scopo di eliminare eventuali disparità ed eliminare svantaggi. 
  
Ne ha diritto chi si trova in una situazione di difficoltà economica come conseguenza della conclusione del matrimonio non avendo possibilità di procurarsi altrove i mezzi di sostentamento necessari sulla base di difficoltà oggettive. 
  
Stabilito, quindi, il diritto all’assegno dell’ex coniuge, il Giudice sarà tenuto a determinare quale funzione, una o più, debba assolvere l’assegno. Se quella assistenziale, ossia ha lo scopo di sopperire ad oggettiva mancanza del coniuge economicamente debole, quella perequativa, di cui si è detto, o ancora quella compensativa. In questo caso comporta la valutazione dei sacrifici fatti dal coniuge “debole” per la famiglia. L’assegno potrà quindi essere quantificato anche sulla base del contributo dato dal coniuge alla vita coniugale. Questo per garantirgli un reddito che tenga conto anche dei sacrifici fatti. 

Non è mai facile porre termine a una storia d’amore.

Così, sul finire di un matrimonio, si pareggiano i conti e si rimette in pari il piatto della bilancia. Ma è possibile agire preventivamente per evitare malintesi e non lasciare nulla al caso in un matrimonio? 
 
Per questo potete contattare lo studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon

autotutela

Istanza in autotutela all’agenzia delle entrate: a cosa serve e come farla

Ricevere un atto dall’agenzia delle entrate è un’esperienza che nessuno vorrebbe mai vivere. Purtroppo, però succede spesso, anche se non sempre questo significa che il contribuente non abbia ragione! In questi casi c’è un meccanismo che interviene a tutela del contribuente: l’istanza in autotutela.

Il potere di autotutela

L’autotutela è un istituto deflattivo del contenzioso tributario previsto dall’art. 2-quater del D.L. n. 564/94 e dal D.M. 11 febbraio 1997 n. 37 e consiste nel potere concesso all’Amministrazione finanziaria di annullare, rivedere o correggere “d’ufficio” le proprie decisioni o i propri atti, nel caso in cui questi risultino affetti da vizi, senza la necessità di attendere la decisione di un giudice. Qualora l’Amministrazione non provveda in maniera autonoma, sarà il contribuente a poter sollecitare, tramite un’istanza, l’annullamento dell’atto viziato.

La domanda di autotutela all’Agenzia delle Entrate

La domanda di autotutela all’Agenzia delle Entrate-Riscossione consiste nella richiesta del contribuente al Fisco di procedere all’annullamento di un atto contenente errori quali:

  • errori di persona;
  • errori di calcolo;
  • errori sui presupposti dell’imposta;
  • mancata considerazione dei pagamenti effettuati regolarmente dal contribuente;
  • sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolati;
  • errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’Amministrazione;
  • doppia imposizione dello stesso tributo.

Gli atti che possono formare oggetto dell’istanza sono: cartelle esattoriali, intimazioni di pagamento, pignoramenti, avvisi di accertamento ecc.

Come presentare l’istanza?

È possibile presentare la domanda via mail o a mezzo Pec direttamente all’Ente che ha emesso l’atto viziato, con richiesta in carta bianca o mediante l’utilizzo dei moduli resi disponibili nel sito dell’Agenzia delle Entrate, indicando l’atto del quale si chiede l’annullamento e i motivi per i quali lo si ritiene illegittimo (dunque in tutto o in parte annullabile) e allegando la documentazione idonea a dimostrare le tesi sostenute. Dopo aver esaminato la richiesta, l’Ente interessato comunicherà al contribuente la propria decisione di accoglimento o di rigetto dell’istanza.

Attenzione!

È bene ricordare due cose:

1) il silenzio dell’Ente non può essere considerato come assenso all’istanza presentata;

2) la presentazione della domanda non vale ad interrompere i termini per presentare ricorso al giudice tributario.

Pertanto, qualora i termini per il ricorso stiano per scadere, è bene affrettarsi a proporlo; nell’eventualità in cui poi dovesse esserci l’accoglimento dell’istanza in autotutela, il procedimento nel frattempo instaurato potrà essere dichiarato estinto per cessazione della materia del contendere.

L’autotutela, però, a volte non basta…

La legge ci tutela, è vero, ma spesso per far valere la nostra buonafede e i nostri diritti occorre avere una conoscenza della legge stessa che, a meno di formazione ed esperienza specifiche, è difficile avere. Per questo farsi rappresentare da un professionista è sempre più che una buona idea, una vera e propria necessità: se hai bisogno di assistenza rivolgiti al nostro studiotutela i tuoi diritti!

assegno unico

L’assegno unico e universale nel caso di genitori non conviventi: a chi spetta?

Un piccolo aiuto per i genitori, l’Assegno Unico e Universale, è il contributo dello stato all’andamento economico della famiglia per partecipare al benessere del bambino. Essendo, in realtà, destinato al benessere del bambino, viene erogato a prescindere dal fatto che i genitori continuino o meno a stare insieme. Dunque a chi viene erogato quando la coppia si separa o, in generale, non convive?

Assegno unico e universale: in cosa consiste

A partire da Marzo 2022 gli assegni per il nucleo familiare ed altre agevolazioni fiscali, sono sostituite dall’ Assegno Unico e Universale (AUU) per i figli:

La prestazione è erogata dall’INPS direttamente nel conto corrente a chi ne fa richiesta. La prestazione spetta a tutti i nuclei familiari con figli sino a 21 anni ossia anche a non occupati e lavoratori autonomi

In caso di divorzio e separazione: come viene gestito l’assegno

L’importo dell’AUU dipende dall’ISEE del nucleo familiare ma nel caso di genitori non conviventi, separati anche di fatto e divorziati, il genitore non convivente viene attratto nel nucleo del figlio. L’ISEE  tiene conto del reddito di entrambe i genitori.

Qualora il Tribunale stabilisca l’affidamento condiviso del minore, la nuova normativa prevede espressamente all’art. 6, 4° comma, d.lgs. n. 230/2021, che l’INPS eroghi l’assegno con importo al 50% tra i genitori. Tuttavia è possibile, per accordo, la possibilità di attribuire il 100% dell’importo dell’Assegno Unico e Universale ad uno solo dei genitori. Sarebbe opportuno chiarire la circostanza avanti al Giudice affinché l’accordo venga recepito nel provvedimento. Sarà, invece, percepito il 100% dell’AUU da quel genitore che ha l’affido esclusivo del figlio.

Cosa cambia rispetto a prima per l’assegno unico e universale

Da quanto sopra esposto deriva che i presupposti del AUU sono del tutto diversi rispetto ai vecchi assegni familiari, sicché laddove un provvedimento stabiliva che gli assegni familiari spettavano ad un solo genitore, tale provvedimento non permetterà al genitore di poter avere il 100% dell’ AUU 

La Giurisprudenza ha emesso provvedimenti in parte difformi. Alcune di pronunce hanno stabilito che gli assegni unici vadano percepiti “come per legge”. Altre, invece,  pur avanti ad un affido condiviso, hanno stabilito che l’Assegno Unico e Universale sia percepito in via esclusiva dal genitore ove il minore risulta prevalentemente collocato sul presupposto che l’AUU sostituisca gli assegni familiari. Ad esempio il Tribunale di Bari, il 03 febbraio 2022

Tuttavia l’assegno unico non corrisponde agli assegni familiari e il metodo per la sua determinazione è totalmente difforme rispetto a quanto stabilito per gli assegni familiari. Questo, secondo circolare INPS n. 1714 del 20 aprile 2022.

Una separazione porta con sé molte difficoltà, un momento difficile richiede l’assistenza migliore

Separarsi, divorziare, o anche semplicemente gestire una famiglia pur non volendo vivere sotto lo stesso tempo è complicato. Un momento o una situazione complessa, che conviene affrontare essendo preparati e ben consigliati. Per questo affidarsi a un legale competente è sempre la miglior cosa che si possa fare: rivolgiti al nostro studio se ne hai bisogno, tutela i tuoi diritti!