violenza sessuale

Può una violenza sessuale essere una questione di secondi? Il perché della sentenza di assoluzione di Malpensa

Ha fatto scalpore, qualche tempo fa, una notizia che conclude una amara vicenda: un sindacalista dell’aeroporto di Malpensa è stato assolto dall’accusa di violenza sessuale nei confronti di una hostess. La ragione consiste nel fatto che la donna ha impiegato più di venti secondi prima di reagire al suo comportamento inopportuno. 

Ma andiamo con ordine: quali sono i fatti? 

Il procedimento di fronte al Tribunale di Busto Arsizio, che si è concluso con una sentenza assolutoria, si incardina sulla vicenda del sindacalista R.M., a processo con l’accusa di violenza sessuale per aver palpeggiato e accarezzato il collo di una donna cui stava offrendo una consulenza presso la sede del sindacato, tenendo quindi un comportamento inopportuno, fortemente sessualizzante. 

Il Tribunale collegiale di Busto Arsizio ha ritenuto credibile la versione della donna, confermando che il fatto della condotta a sfondo sessuale posta in essere dal sindacalista esiste

Ciononostante, la sentenza emessa è di assoluzione piena, a causa di un’insussistenza degli elementi oggettivi del reato. I Giudici, infatti, non ravvisano l’elemento della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità. La donna, anche se avrebbe potuto, non ha reagito immediatamente alle avances non gradite allontanandosi o manifestando palesemente il suo dissenso. Ma è possibile, ai sensi di legge, che basti questo per un’assoluzione? 

Cosa configura la fattispecie di reato “violenza sessuale”? 

L’articolo 609 bis del Codice Penale recita ” 

Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 

  • Abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto.
  • Traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito a un’altra persona.” 

Le condotte previste, dunque, sono due. 

Da un lato la costrizione di una persona a compiere o subire atti sessuali mediante violenza, minaccia o abuso di autorità. Dall’altro l’induzione a compiere atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità psicofisica o psichica della vittima. Inoltre con atti sessuali si intende tutti quei comportamenti che coinvolgano la corporeità delle persone offese, posti in essere con coscienza e volontà di compiere un atto invasivo della sfera sessuale di una persona non consenziente, qualora emerga una indebita compromissione della sessualità. Con violenza, invece, si intende non solo una coercizione fisica, ma anche quella che incide sulla volontà. 

Il Tribunale ha quindi riconosciuto la condotta, ma non il carattere della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità, perché la donna si sarebbe potuta allontanare in qualunque momento, o avrebbe potuto verbalmente dichiarare la sua contrarietà. Avrebbe però dovuto agire in modo tempestivo, senza lasciar passare del tempo (quei venti secondi fatidici) prima di opporsi all’indebita invasione della sua sfera intima da parte del sindacalista.   

Denunciare e difendersi in sede legale da una violenza sessuale non è mai facile, sia psicologicamente che dal punto di vista pratico. In questo caso, come in molti altri, l’assistenza di un legale è essenziale: contatta il nostro studio se ne hai bisogno, la prima consulenza è senza impegno.  

violenza sulle donne

Violenza sulle donne: prevenire e tutelare.  

La violenza sulle donne è un problema che, purtroppo, anima quotidianamente la cronaca nazionale. Secondo il Viminale, in Italia le donne uccise nel corso del 2022 sarebbero ben 120, dato in aumento di quasi il 5% rispetto all’anno precedente. Di queste, 97 sarebbero state assassinate in ambito familiare o affettivo, e 57 per mano del partner o dell’ex partner. 

Nel mondo la violenza contro le donne interessa 1 donna su 3. Similmente, in Italia i dati ISTAT mostrano che almeno il 31.5% ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. 

Il gap legislativo riguardo la violenza sulle donne

Nonostante la violenza di genere sia ormai un fenomeno tristemente diffuso e dalle percentuali consolidate, nel Codice penale e nel Codice di rito non vi è una precisa connotazione di genere in tal senso, cosa che invece ritroviamo nelle fonti internazionali come la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, la Direttiva 2012/29/UE e la Convenzione d’Istanbul, la quale al suo articolo 3 designa come violenza nei confronti delle donne  

una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”. 

Secondo il rapporto dell’OMS “Violence Against Women Prevalence Estimates” la violenza contro le donne rappresenta un problema di salute dalle proporzioni enormi e, in quanto tale, meritevole della massima attenzione e tutela. 

La legge italiana in merito alla violenza sulle donne

In Italia, la prima significativa novella legislativa in questo senso, si è avuta con l’approvazione della Legge 15 febbraio 1996, n. 66, espressione di una vera e propria rivoluzione sociale e culturale grazie alla quale la sessualità è divenuta valore imprescindibile della persona, simbolo della libertà dell’autodeterminazione dell’individuo. Con questa riforma i delitti contro la libertà sessuale, dapprima collocati nel Libro Secondo, Titolo IX dei delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume del Codice penale, sono statati finalmente posizionati all’interno del titolo XII rubricato “dei delitti contro la persona” ed in particolare nella sezione dedicati ai delitti contro la libertà personale.  

Per la prima volta viene quindi valorizzata la persona umana e si acquista consapevolezza sul fatto che la violenza sessuale produce nella vittima una serie di effetti patologici dovuti sia dall’entità oggettiva dell’atto, sia dall’entità soggettiva del trauma subito dalla vittima che vede leso in profondità il proprio diritto all’autodeterminazione.  

Non solo violenza sessuale: le altre leggi e normative vigenti

Nel corso dei decenni si sono susseguiti diversi interventi legislativi sul tema, tra i quali meritano menzione la Legge 27 giugno 2013, n. 77 di ratifica della Convenzione di Istanbul, pietra miliare nel contrasto a questi fenomeni, e la Legge 19 luglio 2019 n. 69 recante ”Modifiche al Codice penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, meglio conosciuta come ”Codice rosso” che ha introdotto significative novità in tema di diritto sostanziale delineando, in particolar modo, nuove fattispecie di reato e velocizzando l’avvio del procedimento penale per alcune fattispecie delittuose come i maltrattamenti in famiglia, lo stalking e la violenza sessuale.  

La violenza sulle donne è un problema profondo nelle sue origini e nelle sue conseguenze

La violenza di genere, oltre che una violazione dei diritti umani, è un problema sistemico esteso i cui effetti si ripercuotono sul benessere dell’intera comunità. Essa, infatti, presenta conseguenze negative nel breve e nel lungo termine andando ad incidere sulla salute fisica e mentale della vittima, e spesso delle persone ad essa vicine, condizionandone così ogni aspetto della quotidianità. 

A ciò si aggiunga che resiste ancora uno stigma sociale e istituzionale nei confronti di chi subisce violenza che tace, nasconde e perfino giustifica quanto subito e che andrebbe estirpato quanto prima. Il non riconoscimento della violenza, la diffidenza verso le vittime, i pregiudizi e gli stereotipi sessisti fanno rivivere le condizioni traumatiche sofferte e minano la fiducia e la credibilità delle testimonianze. Gli ultimi dati dimostrano che il 58,8% delle donne è vittima del proprio partner o ex partner (57,8% nel 2020 e 61,3% nel 2019), il 25,2% di un altro parente, il 5% di un conoscente, e il 10,9% di uno sconosciuto. 

Quando è la figura d’attaccamento a perpetrare la violenza, si sviluppano molteplici circostanze drammatiche che si pongono altresì come ostacoli alla possibilità di presentare denuncia, non permettendo così un’adeguata valutazione del rischio e una tempestiva risposta. Tuttavia, anche nei casi in cui avvenga effettivamente uno svelamento dei soprusi subiti, i dati dimostrano la preponderante sussistenza di casi di vittimizzazione secondaria esercitata sia da parte delle forze dell’ordine che da parte dei servizi sociali, che sono i soggetti istituzionali che dovrebbero più incisivamente intervenire in questi casi. 

Una questione di cultura

Ciò detto, la considerazione primigenia, ed intellettualmente onesta, che occorre fare è che non sta esclusivamente alla legge risolvere un problema che sembra affondare le sue radici in una cultura profondamente patriarcale, che da troppo tempo fatica ad evolvere. Il compito dell’Ordinamento, al di là della tipica risposta sanzionatoria, sarebbe piuttosto quello di prevenire la commissione di questi reati attraverso un percorso, fondato sulla sensibilizzazione e sull’educazione alle tematiche di genere, in grado di coinvolgere le vecchie e le nuove generazioni in un’ottica intersezionale. 

Alle volte, il carico degli eventi è tale da non poterlo affrontare in solitudine: è in quei momenti che poter contare sull’aiuto di un professionista diventa fondamentale. Se hai bisogno di supporto legale, contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti! 

decreto penale di condanna

Decreto Penale di Condanna: la conversione della pena definitiva

Siamo abituati a pensare che, quando una persona viene giudicata colpevole di un reato, la condanna si traduca in un periodo di reclusione. Eppure non è sempre così: la legge prevede infatti alcuni modi per non comminare il carcere a un imputato ritenuto colpevole, e uno di questi è il decreto penale di condanna

Cos’è il decreto penale di condanna, e cos’è cambiato recentemente

Il decreto penale di condanna è un provvedimento del Giudice per le indagini preliminari, disposto su richiesta del Pubblico Ministero. Viene adottato quando per i reati contestati è possibile applicare una sanzione finale costituita dalla sola pena pecuniaria, anche se in sostituzione di quella detentiva.

Attualmente, a seguito della riforma Cartabia, le condizioni sono variate rispetto a prima. Il valore giornaliero di ragguaglio tra la pena detentiva convertita in pecuniaria, ossia quanto denaro dovrà versare il reo per ogni giorno di reclusione comminato, non può essere inferiore a euro 5 e superiore a euro 250 giornalieri.  Precedentemente andava da un minimo di 75 euro a un massimo di 225 euro. Nondimeno deve corrispondere alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria. Si tengono in considerazione sia le complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita sia dell’imputato sia del suo nucleo familiare.

Quali sono i vantaggi di questa alternativa?

Il vantaggio del decreto penale di condanna consiste nel fatto che non si provvederà alle spese del procedimento né all’applicazione delle pene accessorie. Inoltre, anche se divenuto esecutivo, ovvero passato in giudicato e quindi definitivo perché non più suscettibile di impugnazione, non ha efficacia nel giudizio civile. 

La caratteristica più degna di nota è che il reato si estingue se nel termine di 5 anni, se concerne un delitto, o di due anni nel caso di una contravvenzione, l’imputato non commette un altro reato della stessa indole. Si cancella cosi l’effetto penale e la condanna non risulterà di ostacolo ad una successiva sospensione condizionale della pena.

L’opposizione al decreto penale di condanna

Tuttavia, se non fosse ritenuta la migliore soluzione per il caso di specie, il decreto penale può essere opposto, personalmente o tramite il difensore, entro quindici giorni dalla notificazione. Con l’opposizione possono essere richiesti dei riti alternativi per la definizione del processo, come il giudizio abbreviato, il giudizio immediato o il patteggiamento.

Nell’ultima parte della disposizione è stato inoltre modificata dalla riforma la possibilità della sostituzione della pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità. Dapprima era richiedibile sempre a mezzo di opposizione. Adesso basterà una semplice istanza di concessione di un termine di sessanta giorni per depositare la disponibilità dell’ente e il programma rilasciato dall’ufficio di esecuzione penale esterno .

Una piccola premessa di buon senso

Per usufruire di tutte le possibilità e le tutele che la legge ci mette a disposizione è fondamentale essere ben consigliati e, soprattutto, ben rappresentati. Affidarsi a un legale non è semplicemente un consiglio. È una norma di buon senso tanto immediata da essere riconosciuta come diritto fondamentale da tutte le costituzioni moderne. Se hai bisogno di assistenza puoi rivolgerti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi

violenza negli stadi

Violenza negli stadi? Ecco i rischi e le tutele!

La violenza negli stadi, o appena fuori da essi, è una piaga che ci accompagna da decenni. Chi pensa che gli eccessi degli ’80 e ’90 del secolo scorso siano ormai storia passata corre il rischio di ingannarsi. Non ci si inganna, invece, considerando che la legge ha saputo attrezzarsi meglio che in passato per evitare le peggiori derive del fenomeno e che continua ad aggiornarsi per non lasciare nulla di intentato.

Il 19 novembre 2021, infatti, la Suprema Corte di Cassazioneè tornata ad esprimersi sulle condotte antisportive dei tifosi, riconoscendo alla Società sportiva, la cui immagine viene compromessa da tali comportamenti, il diritto di chiedere ed ottenere un risarcimento del danno, oltre al DASPO. 

Ma cos’è il DASPO?

Il DASPO (Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive) è una misura di prevenzione che sancisce il divieto al soggetto ritenuto pericoloso di accedere ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, ha una durata che va da 1 a 5 anni ed è il Questore competente ad emanare ed eventualmente modificare o revocare tale misura. Il DASPO viene sempre notificato all’interessato.

Nel caso in cui, però, il DASPO venga comminato ad una persona sottoposta a obbligo di firma, il medesimo viene comunicato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale competente. Oltre a questo è richiesta la convalida da parte del GIP, solo per quanto riguarda la firma, entro 48 ore dalla notifica al soggetto interessato.

Nel caso di violenza negli stadi, come si verifica che il DASPO venga rispettato?

Solitamente questa misura viene accompagnata dall’obbligo del tifoso violento di recarsi alla più vicina caserma dei Carabinieri o commissariato di Polizia durante l’evento sportivo che gli è stato vietato.

Quali sono le condotte antisportive del tifoso violento che portano all’emanazione di suddetta misura?

Un DASPO viene comminato in caso di possesso di armi improprie senza giustificazione. Anche indossare caschi o passamontagna che impediscono il facile riconoscimento di una persona, il lancio di materiali pericolosi, l’invasione di campo. L’esposizione negli impianti sportivi o in prossimità di essi di simboli o immagini discriminatorie o razziste o l’aver preso parte o aver incitato o indotto alla violenza contro persone o cose. Il tutto, chiaramente, durante una manifestazione sportiva sono comportamenti che possono comportare l’applicazione del DASPO.

Oltre a questa misura che mira alla sicurezza e all’ordine pubblico, è possibile che il tifoso violento sia soggetto al pagamento di un risarcimento danni nei confronti della società sportiva di cui si dichiara tifoso.

Ma in cosa consiste il risarcimento in caso di violenza negli stadi?

In primo luogo, il soggetto perde l’abbonamento alla partita e a tutte quelle successive oggetto del contratto di abbonamento. Il contratto di abbonamento fra società sportiva e tifoso/spettatore ha infatti oggetto il diritto ad assistere ad un determinato numero di competizioni sportive, come da art. 1458 Codice Civile. Ai sensi di questa norma, in caso di risoluzione del contratto, la società dovrebbe essere tenuta a restituire il corrispettivo delle prestazioni non godute. Ossia delle partite ed eventi sportivi a cui il tifoso non parteciperà. Normalmente, il contratto di abbonamento contiene anche una clausola contrattuale che deroga a quanto disposto dall’art. 1458 c.c. e che consente alla società di trattenere il corrispettivo delle prestazioni non godute “salvo il diritto al risarcimento del maggior danno”. Si configura quindi una clausola penale ai sensi dell’art. 1382 c.c.

Questo significa che la società può sia non rimborsare l’abbonamento non goduto dal tifoso violento. Oltre a questo, può chiedere un ulteriore risarcimento per il danno patito dalla stessa a causa del comportamento di un suo abbonato.

Nel caso su cui la Cassazione si è pronunciata nella sentenza del 19 novembre 2021, il tifoso aveva schiaffeggiato un membro dello staff della squadra ospite. Come conseguenza la società sportiva Juventus aveva sospeso l’abbonamento allo stesso. 

Capire fenomeni come la violenza negli stadi dal punto di vista legale è importantissimo!

Comprendere ci da le armi per comprendere il funzionamento della nostra società! Questo articolo ti è stato utile? Il diritto dello sport è una materia davvero complessa e variegata. Se hai bisogno di assistenza rivolgiti al nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Giulia Schiavon

telecamere di sorveglianza

Telecamere di sorveglianza: un delicato equilibrio fra sicurezza e privacy!

Succede sempre più spesso che si senta la necessità di installare un sistema di telecamere di sorveglianza nella propria abitazione a causa dei continui furti nella zona in cui abitiamo e ciò al fine di tutelare la sicurezza della nostra abitazione e della nostra famiglia.

Ma possiamo installare le telecamere di sorveglianza senza autorizzazione?

Quale può essere il raggio di azione di dette telecamere? Incorriamo in illeciti se installiamo dette telecamere?

A queste domande dà risposta una fitta normativa che permette di chiarire i dubbi. Dobbiamo considerare che vi sono due interessi contrapposti: da un lato la tutela della nostra sicurezza. Dall’altro il diritto alla riservatezza di chi potrebbe essere inquadrato dalle telecamere stesse. Si tratta di due diritti uguali e contrapposti, definiti diritti di pari rango. Tuttavia in questi casi, poiché gli interessi sono uguali, vanno comunque bilanciati, ossia è possibile che un diritto sia in qualche modo compromesso a tutela dell’altro, purché la compromissione avvenga “nei limiti dello stretto necessario”.

Va subito chiarito che non serve alcuna autorizzazione per installare telecamere di sorveglianza nella propria abitazione, con lo scopo appunto di tutelare la nostra sicurezza. Questo, però, solo se la telecamera inquadra zone di nostra pertinenza. Se, al contrario, la telecamera inquadra zone di pubblico passaggio si applicherà il Codice della Privacy. Bisognerà quindi fare in modo che le riprese non permettano il riconoscimento dei soggetti,  magari inquadrando solo i piedi. Se vi è una registrazione andrà distrutta entro le 24 ore successive. Soprattutto sarà necessario informare che vi è un sistema di telecamere di sorveglianza che registra, e quindi appendere un cartello che informa chi passa della possibilità di essere registrato.

Ma cosa succede se si rileva una violazione del Codice della Privacy?

La violazione delle norme contenute nel Codice della Privacy permette a chi è stato leso di rivolgersi al Garante della Privacy con le modalità previste dal Codice per ottenere tutela. La tutela può anche essere richiesta sul piano civile, qualora le telecamere di sorveglianza abbiano arrecato un danno di cui si chiede il risarcimento. Infine, le videoregistrazioni del vicino potrebbero rappresentare una interferenza illecita nella vita privata e quindi dare luogo al reato di cui all’art. 615 bis c.p.

Questo è forse il caso più comune. Perché quando abbiamo a che fare con un vicino “spione” la cosa più semplice e più economica e quella di sporgere una denuncia. In quest’ultimo caso, tuttavia, non è affatto semplice che si possa dare dimostrazione del reato. La ragione è che viene considerato lecita l’installazione tutte le volte in cui vi sia un concreto pericolo per l’incolumità di beni e persone avanti ad un diritto di riservatezza. 

La giurisprudenza, in primo luogo, ha stabilito che la semplice immagine di una persona non costituisce un dato personale. Avanti a due diritti fondamentali contrapposti dovrà necessariamente cedere quell’interesse che, valutato caso per caso, sarà considerato meno rilevante dal Giudice chiamato a pronunciarsi.

Telecamere di sorveglianza: la discrezione del Giudice

In definitiva, qualora ci sia un vicino “spione” il Giudice dovrà valutare se questa intromissione nella vita privata altrui sia solo fine a se stessa oppure sia necessaria per tutelare l’incolumità del soggetto e della sua famiglia. Come avviene, per esempio, se il vicino in questione ha subito furti, atti di vandalismi nella propria proprietà e così via. 

In alternativa, anche se la zona dove si trova l’abitazione sia stata oggetto di attenzione da parte dei ladri. In questo caso, quindi, se il vicino in questione ha posizionato delle telecamere con la scopo di tutelarsi da un pericolo concreto rispettando quello che viene definito il principio di proporzionalità, sarà ben arduo dimostrare la sussistenza di un reato. Ciò a condizione che non vi sia un eccesso di installazione delle videocamere e soprattutto venga rispettata la normativa della privacy in vigore.

Privacy e sicurezza sono esigenze che vanno equilibrate, e non è facile!

La soluzione migliore, in questi casi, è sempre e comunque rivolgersi a un legale per capire preventivamente e con completezza come agire. Se hai bisogno di assistenza per una delle esigenze che abbiamo sollevato nell’articolo, non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti!

Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon.