Quando si viene chiamati in giudizio esiste il modo di evitare il giudizio? La legge prevede la possibilità di accodarsi per trovare una soluzione che eviti le lungaggini e le spese di un processo? In effetti una procedura simile esiste: è quella che chiamiamo patteggiamento.
Il patteggiamento: di cosa stiamo parlando
Detto anche applicazione della pena su richiesta delle parti, il patteggiamento è un rito premiale, perché porta a una riduzione della pena prevista fino a un terzo, e eltresì un rito alternativo, in quanto si adotta a fronte della rinuncia allo svolgimento del giudizio.
Consiste in un accordo tra il pubblico ministero e l’imputato per la richiesta da sottoporre al giudice della pena che viene concordata in relazione al fatto oggetto di reato, purché si rientri nel limite finale di due anni di pena. Un’estensione temporale è possibile nel cosi detto patteggiamento allargato, che è stato introdotto dalla legge n° 134 del 12/06/2003, con riferimento ai delitti e contravvenzioni per i quali sia applicabile, a seguito della riduzione, una pena detentiva superiore a due anni e un giorno ed inferiore a cinque anni.
Non solo una riduzione: le pene accessorie
Oltre alla riduzione, come sopra detto, fino a un terzo, prevede anche la mancata applicazione delle pene accessorie e la mancata condanna al pagamento delle spese processuali. Oltre a questo, prevede che la sentenza penale di applicazione della pena non abbia alcuna efficacia nei giudizi civili o amministrativi.
Un ulteriore vantaggio consiste nel fatto che il reato è estinto, quando è stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, se nel termine di cinque anni (dal passaggio in giudicato della sentenza) quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di due anni, quando la sentenza concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole.
Quanto al momento in cui può essere richiesto, esso può essere adottato sia in fase di indagini preliminari, sia fino all’udienza preliminare o al dibattimento.
Richiedere un patteggiamento è una questione delicata
Per questo farsi assistere al meglio da un avvocato che possa consigliarti al meglio è fondamentale. Se hai bisogno di assistenza non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti.
Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Lucrezia Zacchi
Nei momenti più tristi della vita, occorre pur sempre raccogliere le forze e adempiere ad alcune incombenze necessarie. Specie nel caso della dipartita di una persona amata, però, lo stato richiede alcuni adempimenti che, a seconda dei casi, possono presentare un grado di complessità più o meno gravoso e complesso. È il caso, ad esempio, della dichiarazione di successione.
Quando una persona viene a mancare vi sono degli adempimenti da compiere al fine di regolarizzare fiscalmente il subentro degli eredi nel patrimonio del defunto. L’adempimento principale è, appunto, la dichiarazione di successione che, a decorrere da gennaio 2017, si può presentare all’Agenzia delle Entrate solo in via telematica.
Chi deve presentare la dichiarazione di successione
E’ facoltà di ciascun erede presentare la dichiarazione di successione; in caso di più eredi è sufficiente che uno solo presenti detta dichiarazione anche a nome di tutti gli altri eredi.
Entro quando va presentata la dichiarazione di successione.
La dichiarazione di successione deve essere presentata entro 12 mesi dalla data di apertura della successione, ossia dalla data di decesso del de cuius. Si può presentare anche oltre detto termine ma si è esposti al rischio dell’applicazione di sanzioni amministrative per il ritardo.
A cosa serve la dichiarazione di successione
Detto adempimento serve per consentire allo Stato di calcolare la tassazione da applicare alla successione sulla base dei beni lasciati dal defunto. Infatti, nella dichiarazione di successione vanno obbligatoriamente indicati l’attivo e il passivo ereditario. L’attivo è composto da beni immobili (edifici, terreni) lasciati dal defunto, conti correnti, obbligazioni. Ne fanno parte anche quote o azioni di società di capitali, per i beni mobili il valore è calcolato nella misura del 10% del valore complessivo netto, salvo inventario.
Tra le passività vanno indicate le spese funerarie, spese mediche sostenute nel semestre precedente il decesso, i debiti contratti dal defunto risultanti da atto in forma scritta con data certa. Nella dichiarazione di successione vanno altresì indicati eventuali soggetti che abbiano rinunciato all’eredità o eventuali soggetti interdetti/incapaci.
Quali sono le imposte da pagare?
L’imposta di successione per il coniuge e i parenti in linea retta è soggetta alla franchigia di euro 1 milione per ciascun beneficiario (euro 1,5 milione in caso di erede con grave handicap). Sull’eccedenza si applica il 4%; per i fratelli e sorelle la franchigia è di euro 100.000,00 ciascuno, sull’eccedenza viene applicata l’imposta del 6%; parenti sino al quarto grado 6% senza franchigia; altri parenti/soggetti l’imposta applicata è dell’8% senza franchigia. Oltre a detta imposta si dovranno versare le imposte ipotecarie e catastali relative agli immobili.
Anche per queste faccende farsi aiutare è la cosa migliore
Quello in cui si subentra a un parente come eredi è sempre un momento difficile, carico di emotività e delicato. Per questo farsi assiste da un avvocato specialista in diritto di successione non è solo la cosa migliore da fare dal punto di vista legale. È anche un sollievo e un alleggerimento personale. Rivolgiti al nostro studio se hai necessità di assistenza: tutela i tuoi diritti!
Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alberto Padoan
La festa della mamma sarà il prossimo 14 maggio. Non esiste dunque momento migliore di questo per approfondire, dopo esserci occupati in generale del congedo parentale, un argomento tanto importante: le tutele riconosciute alla lavoratrice madre.
Tutele per la lavoratrice madre: la base costituzionale
L’articolo 37 della Costituzione, al primo comma, stabilisce che
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”.
Ora, tale disposizione di legge potrebbe sembrare anacronistica, specie nella parte in cui fa riferimento alla “essenziale funzione familiare” della donna. Tuttavia, questa norma costituzionale ha una fondamentale importanza, in quanto prevede espressamente che alla madre lavoratrice e al bambino debba essere riservata una particolare tutela.
Congedo obbligatorio per la lavoratrice madre
L’art.16 D. Lgs. 151/2001 sancisce il divieto di adibire la donna al lavoro nei due mesi precedenti la data presunta del parto e nei tre mesi successivi alla data effettiva del parto.
La lavoratrice è tenuta ad informare tempestivamente il datore di lavoro ed entro quindici giorni deve produrre il certificato medico attestante il mese di gravidanza e la data presunta del parto, al fine di consentire al datore di lavoro di prendere gli opportuni provvedimenti: valutare la compatibilità delle mansioni svolte dalla lavoratrice e, in caso di necessità, adibire la stessa a una diversa mansione.
Due mesi prima della data presunta del parto la lavoratrice dovrà consegnare al datore di lavoro e all’INSP un certificato medico indicante la data presunta del parto. Successivamente, una volta nato il bambino, la lavoratrice dovrà presentare entro trenta giorni il certificato di nascita.
Flessibilità del congedo obbligatorio
È prevista la possibilità di usufruire della flessibilità del congedo, ossia la possibilità di astenersi dal lavoro a partire da un mese prima la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi, ferma restando la durata complessiva del congedo di cinque mesi.
La flessibilità del congedo deve essere richiesta dalla lavoratrice madre entro la fine del settimo mese di gravidanza, a condizione che non vi sia stato un provvedimento di interdizione anticipata. La richiesta deve essere corredata da apposita certificazione che attesti che la gravidanza è fisiologica, che le mansioni svolte e l’ambiente di lavoro non sono pregiudizievoli, né vi sono controindicazioni derivanti dalle modalità di raggiungimento del luogo di lavoro. In ogni caso, la richiesta può essere presentata soltanto se la lavoratrice non svolge lavori pericolosi, faticosi o insalubri.
Interdizione anticipata
Dall’inizio della gravidanza e fino a sette mesi di età del bambino è vietato adibire le lavoratrici al lavoro notturno, al trasporto e al sollevamento di pesi e, comunque, a lavori pericolosi, faticosi e insalubri.
Qualora la lavoratrice non possa essere adibita ad altre mansioni e, comunque, in presenza di condizioni di lavoro non adeguate, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro potrà disporre l’interdizione anticipata dal lavoro, prorogabile sino a sette mesi dopo il parto.
Diversamente, se il rischio deriva da complicanze della gravidanza, l’interdizione anticipata è disposta su indicazione del medico e fino all’inizio del periodo di congedo obbligatorio.
Riposi giornalieri per la lavoratrice madre
Nel corso del primo anno di vita del bambino alla lavoratrice madre vengono riconosciuti particolari riposi orari per all’allattamento, della durata di una o due ore al giorno a seconda della durata dell’orario contrattuale.
Licenziamento e dimissioni
Dall’inizio della gravidanza e fino ad un anno di vita del bambino vige non è possibile il licenziamento della lavoratrice madre; ciò implica che il licenziamento, se intimato, dovrà considerarsi nullo.
È invece sempre possibile per la lavoratrice madre rassegnare le dimissioni; tuttavia, se rassegnate nel periodo che va dall’inizio della gravidanza sino ai tre anni di età del bambino, esse dovranno essere convalidate da parte dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. È bene precisare che queste tutele si estendono anche al padre lavoratore.
Per la lavoratrice madre le tutele sono molte, ma occorre conoscerle!
Un articolo come questo non basta! Esistono figure professionali specializzate nel tutelare i dei lavoratori e le lavoratrici, fornendo loro assistenza. Se hai bisogno di aiuto per questioni lavorative, non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti!
Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Alice Pizzo
Poco meno di un mese fa abbiamo affrontato un tema complesso e delicato, il ruolo dei servizi sociali nelle procedure di sfratto, concentrandoci su come e perché intervengano. Con questo articolo, invece, vedremo un altro aspetto fondamentale dell’attività dei servizi sociali, ossia cosa possono fare i servizi sociali per aiutare concretamente le famiglie in difficoltà abitativa.
Cosa possono fare i servizi sociali?
Sicuramente gli assistenti sociali del Comune interessato hanno molte possibilità per aiutare la persona o la famiglia che si trova a subire uno sfratto. Intanto, fino al momento dello sgombero forzato, hanno la possibilità di iniziare delle trattative con il proprietario e il suo avvocato e trovare un accordo per far rimanere dentro l’abitazione le persone sfrattate.
Inoltre, ci sono dei fondi regionali destinati proprio questo scopo e, in particolare, per la Regione Veneto ci sono alcune risorse economiche per il problema sfratti:
Fondo affitti: aiuti economici per il pagamento di canone di affitto troppo oneroso per le famiglie in possesso di regolare contratto di locazione, che presentano rilevanti difficoltà economiche nel sostenere tale onere
Fondo morosità incolpevole: aiuti economici per le persone che si trovano in precarie condizioni di lavoro e che, come tali, non riescono ad onorare il proprio impegno economico nei confronti del proprietario.
In ogni caso, è sempre possibile ottenere qualche altro sostegno economico dal proprio Comune, sia per pagare i canoni di locazione ed evitare lo sfratto, sia per posticipare l’uscita di casa, sia per raggiungere un accordo con il proprietario.
E se ci sono dei minori?
Attenzione: il nostro codice civile prevede che i minori debbono essere ricoverati e protetti, allontanandoli dai propri genitori e collocandoli in comunità quando sono in pericolo e precisamente:
si trovano in condizioni di abbandono materiale o morale.
si trovano esposti, nell’ambiente familiare, a grave pregiudizio o grave pericolo per la loro incolumità psicofisica.
Lo prevede espressamente l’art. 403 del codice civile, per cui in caso di sfratto esecutivo in cui siano presenti dei minori, i Servizi sociali hanno l’obbligo di proteggerli: se hanno fondato timore che i minori siano a rischio possono anche dividerli dal resto della famiglia, ma in genere si assicurano almeno la presenza della madre, e li portano al sicuro in qualche struttura pubblica dedicata.
Posso avere un alloggio pubblico in caso di sfratto?
Nel caso di procedura di sfratto è bene attivarsi per presentare domanda di alloggio ERP (Edilizia residenziale Pubblica). A tal fine, si dovrà verificare se ci sono tutti i requisiti previsti dai bandi comunali nel rispetto delle norme di legge e accertarsi del punteggio ottenuto e del posto in graduatoria. Se esistono i requisiti per potere ottenere un alloggio ERP, è indispensabile attivarsi subito, per evitare di arrivare all’esecuzione dello sfratto con tutti i maggiori costi che questo comporta.
Se invece si è nell’impossibilità di ottenere un alloggio ERP, è possibile sostenere l’utente nella ricerca di un alloggio privato utilizzando risorse economiche varie che lo Stato e i Comuni mettono a disposizione.
Sapere cosa possono fare i servizi sociali non è sufficiente
Nel caso del diritto immobiliare la legge è molto complessa, proprio per la necessità di tutelare contemporaneamente la dignità delle persone e la proprietà privata. Per questo l’assistenza di un legale è imprescindibile: se ne hai bisogno contatta subito il nostro studio, tutela i tuoi diritti!
Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan
Alle volte, una conversazione, un confronto o uno scambio di post sui social possono sfuggire di mano. In questi casi, però, è opportuno mantenere la calma ed evitare di passare alle parole pesanti, per non incorrere nel reato di diffamazione!
Il reato di diffamazione è un delitto purtroppo diffusissimo, che ricorre nelle circostanze più disparate e, per chi lo commette, spesso poco prevedibili!
Reato di diffamazione: cosa dice la legge.
La diffamazione, in qualità di reato, è punito con la reclusione fino a un anno oppure con una multa che può arrivare fino a 1032 euro. Queste previsioni sono aumentate nel caso in cui l’offesa consista in un fatto determinato, ossia nel caso in cui il contesto e le circostanze del caso concreto ci consentano di valutare se la fattispecie è aggravata o meno.
Allo stesso modo, le pene aumentano se l’offesa è arrecata a mezzo stampa o con un altro mezzo di pubblicità, oppure in un atto pubblico; infine, aumentano se l’offesa è arrecata a un corpo amministrativo o giudiziario.
Riassumendo, il reato di diffamazione punisce chi, comunicando con più persone, arrechi un’offesa in modo volontario a una persona assente.
Il bene tutelato, ovvero l’elemento che la legge tende a difendere, è la reputazione della persona, che la legge vuole, appunto, tutelare. Esistono però dei presupposti che devono coesistere contemporaneamente perché il reato si configuri.
Assenza della persona nel momento in cui viene arrecata l’offesa. C’è quindi impossibilità della persona interessata a difendersi. Questo elemento è dirimente rispetto al reato di ingiuria, che è simile, ma che si configura quando l’offesa avviene in presenza della persona, e che oggi è una fattispecie depenalizzata.
Offesa alla reputazione quale lesione delle qualità personali, morali, sociali o professionali.
Quando vi è la presenza di almeno due persone, o almeno di una che però la comunichi poi ad altre.
Reato di diffamazione e i social: un mezzo nuovo da comprendere.
Anche il reato di diffamazione evolve di pari passo con l’evolversi dei mezzi di comunicazione! Nel caso in cui esso venga consumato attraverso i social, per esempio, il reato si aggrava in quanto condotta commessa con altro mezzo di pubblicità.
Di per sé, il reato si consuma nel momento in cui terzi hanno percezione del messaggio offensivo, che viene veicolato nella consapevolezza di scrivere una frase lesiva dell’altrui reputazione. La condotta, infatti, potenzialmente è in grado di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente elevato di persone.
Il reato di diffamazione si configura anche senza indicare esplicitamente il nome e il cognome della persona, sempre che questa sia individuabile da chi recepisce il messaggio offensivo.
Come ci si può difendere?
Semplicemente sporgendo querela. La persona offesa dovrà denunciare il reato alle autorità competenti entro tre mesi dal momento in cui il fatto è stato consumato.
Il reato di diffamazione è qualcosa di complesso!
In tutto questo, sia che ci si debba difendere o che si debba pretendere giustizia nel caso del reato di diffamazione, occorre dotarsi degli strumenti giusti e soprattutto della giusta assistenza!
Le stesse parole promessa di matrimonio evocano alla mente immagini molto precise, commoventi e forse un po’ stereotipate. Lui in ginocchio con un bellissimo tramonto sullo sfondo, un anello adagiato sul suo cofanetto fra le mani, mentre lei, emozionata e con la voce rotta dalla commozione, sussurra il fatidico sì.
Scene da romanzo che tutti e tutte vorremmo vivere una volta nella vita… ma al di là dei cliché, dietro al concetto di Promessa di matrimonio c’è ben di più, e non solo a livello emotivo! Si tratta di un vero e proprio istituto giuridico: cerchiamo di capirlo!
Promessa di matrimonio, oltre il romanticismo!
La promessa di matrimonio è un istituto da molti, oggi, considerato obsoleto. Sicuramente un qualsiasi studente di Giurisprudenza, quando si trova a dover studiare gli articoli 79-80 e 81 del codice civile, rimane perplesso e stupito, convinto che si tratti di qualcosa, al più, di “pittoresco” ma totalmente inattuale.
Qui sta il bello della professione, ossia il fatto che, per citare Pirandello, la realtà supera sempre la fantasia. Così succede che l’avvocato si trovi a fare i conti con quei tre “antichi” articoli che tanto lo avevano fatto sorridere da studente e che certamente aveva nel fondo della sua memoria e dei suoi appunti. Succede quando arriva in studio il promesso sposo abbandonato sull’altare e che ha il vestito da cerimonia già confezionato. Oppure la promessa sposa tradita prima del fatidico giorno, con l’agenzia di viaggi che chiede il saldo di un viaggio di nozze che nessuno farà mai. O ancora la futura sposa che non intende in alcun modo restituire il prezioso anello di fidanzamento regalato anni addietro. O, infine, i poveri genitori dei promessi sposi che hanno dato fondo ai loro risparmi per costruire il nido d’amore rimasto vuoto.
Ma in cosa consiste la promessa di matrimonio?
La promessa di matrimonio a cui fa riferimento il codice è quella solenne , ed è quella che fa chiunque si reca in Comune a chiedere le pubblicazioni del matrimonio. Si sostanzia, quindi, nel promettersi vicendevolmente di convolare a nozze.
Il codice chiarisce immediatamente che si tratta, in realtà, di una promessa senza alcun carattere vincolante per il principio della libertà matrimoniale, considerato un diritto della personalità. Tuttavia, il non dar seguito alla promessa ha delle conseguenze, in senso lato, economiche.
Innanzi tutto è possibile chiedere la restituzione dei doni fatti a causa del matrimonio se questo non è stato contratto. Questo entro il termine di un anno dal momento del rifiuto o la morte di uno dei futuri sposi. Non ci si riferisce solo al classico anello di fidanzamento. Secondo la dottrina , il termine è ben più esteso e si riferisce anche alla corrispondenza epistolare, ossia alle lettere, e alle fotografie.
Tutto questo è possibile perché la promessa di matrimonio produce effetti definitivi a prescindere dalla circostanza che i fidanzati abbiano deciso se e quando sposarsi. Gli effetti, tuttavia, possono essere rimossi per il solo fatto che non sia seguito il matrimonio, indipendentemente dalla causa della rottura del fidanzamento. In definitiva ciò significa che chiunque dei due promittenti ha diritto a richiedere la restituzione dei doni fatti durante il fidanzamento. Anche colui che con il suo comportamento ha dato origine al venir meno della promessa.
Dunque nel rompere una promessa di matrimonio il concetto di colpa non gioca alcun ruolo?
Non esattamente: la norma prevede, in effetti, l’obbligo di risarcire i danni cagionati all’altra parte dal promittente che, senza giusto motivo, ricusi di eseguire la promessa di matrimonio. Insomma, lo sposo o la sposa abbandonata sull’altare ha diritto di chiedere il risarcimento del danno. Questo sia per le spese fatte che per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa.
Questo significa che il promesso sposo o sposa abbandonato o abbandonata in prossimità delle nozze, potrà chiedere all’altro di non fargli o farle gravare le spese fatte per le nozze stesse. Si pensi al vestito degli sposi, al ristornate, alle partecipazioni e alla bomboniere. Ma anche ai mobili acquistati per la nuova casa o, ancora la casa stessa. Tuttavia, bisognerà valutare, al fine di determinare quale tipo di danno, se il bene acquistato dal promittente deluso sia ancora utilizzabile, così come la nuova casa o gli arredi della stessa.
A quanto può ammontare il risarcimento, e possono richiederlo anche terze parti?
Accanto al limite qualitativo, che esclude quindi possa essere risarcito il lucro cessante, o il danno morale, la norma prevede, altresì, un limite quantitativo. Il danno è risarcito solo nel limite in cui le spese corrispondano alla condizione delle parti, ossia alla condizione economica dello sposo o della sposa. È buona norma quindi, quando si vuole intraprendere la strada del matrimonio, di contenere le spese entro le proprie possibilità ma soprattutto, entro le possibilità dell’altra parte. D’altro canto, non si sa mai!
E i terzi possono agire? Possono i genitori, per esempio, agire nei confronti di colui che ha rotto il fidanzamento se hanno sostenuto spese per il figlio o la figlia? La questione è dibattuta, tuttavia, trattandosi di un’obbligazione extracontrattuale, si deve ritenere che gli stessi siano legittimati ad agire.
Quella di una mancata promessa di matrimonio è una condizione estrema e traumatica, che nessuno di noi nella vita vorrebbe vivere.
Purtroppo però la vita è imprevedibile, e talvolta ci getta in situazioni da cui dobbiamo uscire con la giusta preparazione e il giusto supporto! Per questo occorre sempre tenere a mente il professionista che possa aiutarci in qualsiasi situazione.
Succede sempre più spesso che si senta la necessità di installare un sistema di telecamere di sorveglianza nella propria abitazione a causa dei continui furti nella zona in cui abitiamo e ciò al fine di tutelare la sicurezza della nostra abitazione e della nostra famiglia.
Ma possiamo installare le telecamere di sorveglianza senza autorizzazione?
Quale può essere il raggio di azione di dette telecamere? Incorriamo in illeciti se installiamo dette telecamere?
A queste domande dà risposta una fitta normativa che permette di chiarire i dubbi. Dobbiamo considerare che vi sono due interessi contrapposti: da un lato la tutela della nostra sicurezza. Dall’altro il diritto alla riservatezza di chi potrebbe essere inquadrato dalle telecamere stesse. Si tratta di due diritti uguali e contrapposti, definiti diritti di pari rango. Tuttavia in questi casi, poiché gli interessi sono uguali, vanno comunque bilanciati, ossia è possibile che un diritto sia in qualche modo compromesso a tutela dell’altro, purché la compromissione avvenga “nei limiti dello stretto necessario”.
Va subito chiarito che non serve alcuna autorizzazione per installare telecamere di sorveglianza nella propria abitazione, con lo scopo appunto di tutelare la nostra sicurezza. Questo, però, solo se la telecamera inquadra zone di nostra pertinenza. Se, al contrario, la telecamera inquadra zone di pubblico passaggio si applicherà il Codice della Privacy. Bisognerà quindi fare in modo che le riprese non permettano il riconoscimento dei soggetti, magari inquadrando solo i piedi. Se vi è una registrazione andrà distrutta entro le 24 ore successive. Soprattutto sarà necessario informare che vi è un sistema di telecamere di sorveglianza che registra, e quindi appendere un cartello che informa chi passa della possibilità di essere registrato.
Ma cosa succede se si rileva una violazione del Codice della Privacy?
La violazione delle norme contenute nel Codice della Privacy permette a chi è stato leso di rivolgersi al Garante della Privacy con le modalità previste dal Codice per ottenere tutela. La tutela può anche essere richiesta sul piano civile, qualora le telecamere di sorveglianza abbiano arrecato un danno di cui si chiede il risarcimento. Infine, le videoregistrazioni del vicino potrebbero rappresentare una interferenza illecita nella vita privata e quindi dare luogo al reato di cui all’art. 615 bis c.p.
Questo è forse il caso più comune. Perché quando abbiamo a che fare con un vicino “spione” la cosa più semplice e più economica e quella di sporgere una denuncia. In quest’ultimo caso, tuttavia, non è affatto semplice che si possa dare dimostrazione del reato. La ragione è che viene considerato lecita l’installazione tutte le volte in cui vi sia un concreto pericolo per l’incolumità di beni e persone avanti ad un diritto di riservatezza.
La giurisprudenza, in primo luogo, ha stabilito che la semplice immagine di una persona non costituisce un dato personale. Avanti a due diritti fondamentali contrapposti dovrà necessariamente cedere quell’interesse che, valutato caso per caso, sarà considerato meno rilevante dal Giudice chiamato a pronunciarsi.
Telecamere di sorveglianza: la discrezione del Giudice
In definitiva, qualora ci sia un vicino “spione” il Giudice dovrà valutare se questa intromissione nella vita privata altrui sia solo fine a se stessa oppure sia necessaria per tutelare l’incolumità del soggetto e della sua famiglia. Come avviene, per esempio, se il vicino in questione ha subito furti, atti di vandalismi nella propria proprietà e così via.
In alternativa, anche se la zona dove si trova l’abitazione sia stata oggetto di attenzione da parte dei ladri. In questo caso, quindi, se il vicino in questione ha posizionato delle telecamere con la scopo di tutelarsi da un pericolo concreto rispettando quello che viene definito il principio di proporzionalità, sarà ben arduo dimostrare la sussistenza di un reato. Ciò a condizione che non vi sia un eccesso di installazione delle videocamere e soprattutto venga rispettata la normativa della privacy in vigore.
Privacy e sicurezza sono esigenze che vanno equilibrate, e non è facile!
La soluzione migliore, in questi casi, è sempre e comunque rivolgersi a un legale per capire preventivamente e con completezza come agire. Se hai bisogno di assistenza per una delle esigenze che abbiamo sollevato nell’articolo, non esitare a contattare il nostro studio: tutela i tuoi diritti!
Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon.
Nel mondo del lavoro, il contratto di collaborazione occasionale ora prestazioni occasionali viene spesso utilizzato tra le parti, datore di lavoro e lavoratore, per lavori saltuari e limitati nel tempo. E’ un rapporto che dovrebbe essere molto semplice e snello ma è stato spesso rimaneggiato dal nostro legislatore dopo alterne fortune, giuridiche, politiche e sociali.
Le prestazioni occasionali secondo la legge
La “prestazione occasionale” è stata da ultima disciplinata compiutamente nel 2017. Giuridicamente, l’interpretazione e l’applicazione del contratto non è facile e abbiamo avuto bisogno di numerose circolari del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, dell’INPS, nonché diversi interventi giurisprudenziali per definirne i contorni.
E’ bene specificare che questo rapporto di lavoro è tutti gli effetti un lavoro autonomo e, quindi, il prestatore di lavoro non è un dipendente: è colui che svolge a favore di un committente un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio, senza vincolo di subordinazione. Si distingue dal lavoro autonomo abituale non per la natura della prestazione ma per il carattere episodico dello stesso. Infatti si parla di attività svolte nel corso di un anno civile, dal 1° gennaio al 31 dicembre di ciascun anno.
Cosa cambia con la nuova legge di bilancio
E ora la legge di bilancio 2023 ha introdotto importanti novità per quanto riguarda il Contratto di Prestazione occasionale e l’INPS si sta adeguando. Ma dal 1° gennaio 2023, cosa cambia in termini pratici?
Innanzitutto, se ne è esteso grandemente l’utilizzo. Infatti è previsto l’aumento da 5.000,00 a ben 10.000,00 euro per anno civile del limite di compenso erogabile dall’utilizzatore nei confronti dei prestatori di lavoro. Inoltre, potranno adoperare questo contratto tutti gli utilizzatori che hanno fino a 10 (mentre prima era fino a 5) lavoratori subordinati a tempo indeterminato.
Infine, sono stati eliminati i limiti che imponevano alle imprese del turismo di occupare solo particolari categorie di lavoratori. Per le imprese agricole sono introdotte forme semplificate di utilizzo delle prestazioni di lavoro occasionale a tempo determinato. Il nuovo regime specifico prevede, tra l’altro, l’inoltro della Comunicazione Obbligatoria di assunzione al competente Centro per l’impiego.
Rimane invariata, invece, la disciplina generale sia fiscale che normativa.
Continua, infatti, a non essere necessaria l’apertura di una partita IVA e nemmeno l’iscrizione ad un albo professionale. È sufficiente che il collaboratore presenti all’utilizzatore una ricevuta per prestazione occasionale e il committente versi, per conto del collaboratore occasionale, una ritenuta d’acconto sul compenso pari al 20%.
Il prestatore ha diritto all’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, con iscrizione alla Gestione separata dell’INPS, nonché all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. Inoltre, è previsto il diritto al riposo giornaliero, alle pause e ai riposi settimanali come per legge, nonché l’estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
La gestione dei rapporti di lavoro è una materia complessa e delicata
Eppure moltissime persone hanno bisogno di gestire situazioni simili nella loro quotidianità. Le conseguenze di una gestione errata, però, si ripercuotono in modo molto tangibile sull’economia personale e familiare di moltissimi lavoratori. Ecco perché affidarsi a un professionista è un investimento necessario. Se anche tu hai bisogno di aiuto nella gestione della tua attività lavorativa contatta il nostro studio: tutela i tuoi diritti!
Articolo scritto in collaborazione con l’avvocato Maria Monica Bassan
Il tema dei diritti civili non perde mai il suo ruolo di spicco nel dibattito pubblico nazionale. Da ultimo l’attenzione è stata focalizzata sul Ddl Zan, la legge sull’omotransfobia bocciata al senato, ma il rumore per quest’ultimo dibattito rischia di farci perdere di vista una battaglia di pari entità, combattuta qualche anno fa e, a detta di molti, vinta: quella per le unioni civili.
Da anni si sentiva la necessità di dare una veste legale alla situazione in cui si trovano molte persone che, per una ragione o per l’altra, non potevano o non volevano sposarsi ma ravvisavano la necessità di reciproca assistenza, cura e delega. Specialmente, il problema veniva sollevato nell’ambito della comunità LGBTQI+, che riscontrava una mancanza di tutela di coppia pressoché totale.
Con la legge 76 del 20 maggio 2016 viene finalmente regolato, dopo un lungo dibattito, l’istituto delle unioni civili, riservato alle persone dello stesso sesso, unificandolo con la disciplina della convivenza di fatto che riguardava invece sia le coppie omosessuali che quelle eterosessuali.
La normativa riconosce alle persone dello stesso sesso la possibilità di costituire una unione civile
I cittadini possono unirsi facendo discendere dall’unione civile gli stessi diritti e gli stessi doveri che hanno due coniugi eterosessuali all’interno del matrimonio. L’istituto è dunque equivalente al matrimonio: il diverso nome corrisponde a una precisa scelta di tipo politico, ma tuttavia non toglie nulla all’unione civile rispetto al differente ma egualitario istituto del matrimonio.
Tuttavia, qualche differenza c’è.
Le differenze più lampanti sono legate alla costituzione del rapporto e allo scioglimento dello stesso.
Riguardo alla costituzione, laddove il matrimonio è celebrato da un Ufficiale dello Stato Civile o da un ministro di culto, l’unione civile si costituisce mediante una dichiarazione davanti all’Ufficiale dello Stato Civile, che provvede poi alla registrazione nell’archivio dello stato civile, in modo del tutto simile a quel che avviene per il matrimonio.
Per quanto riguarda lo scioglimento, invece, nell’istituto del matrimonio esso avviene con la morte di un coniuge, oppure mediante separazione e successivo divorzio. Per quanto riguarda l’Unione Civile, invece, il rapporto si scioglie tre mesi dopo aver comunicato il venir meno della relazione affettiva accompagnata dalla convivenza all’Ufficiale di Stato Civile.
I diritti e i doveri fondamentali, però, rimangono uguali nei due diversi istituti. Secondo i commi 11 e 12 della legge 76, infatti, i due componenti l’Unione Civile hanno l’obbligo della reciproca assistenza morale e materiale, e hanno pari dignità nella coppia.
Le unioni civili nel regime patrimoniale
Invece, il regime patrimoniale, normato dal comma 13, in mancanza di una diversa convenzione è quello della comunione dei beni. Anche in questo caso, quindi, si riscontra una perfetta equivalenza con la disciplina del Matrimonio.
Anche nel caso di morte di uno dei componenti la coppia, le indennità dovranno essere corrisposte all’alro soggetto dell’unione civile, come da comma 17. L’equivalenza tra i due istituti non viene meno, e anzi si coglie in pieno, nella normativa di richiamo come il comma 19, che rimanda ad altre norme di diversa natura, come pure per le norme successorie (comma 21 art.1), che comporta una piena parificazione tra la figura del coniuge e quella del partner nell’unione civile.
Una differenza però c’è, a ben guardare, e a detta di molti è sconcertante. L’istituto dell’Unione Civile al contrario del Matrimonio non prevede l’obbligo della fedeltà, che ovviamente non è solo da intendersi in termini di fedeltà sessuale. La differenza potrebbe essere ascrivibile alla percezione anacronistica dell’obbligo, la cui violazione non pare più avere rilevanza come in passato, e tuttavia rappresenta comunque una forma di diseguglianza tra i due istituti che non può passare sotto silenzio, poiché, forse inconsapevolmente, rende il matrimonio un istituto di serie A riservando all’unione civile la serie cadetta.
Unioni civili: un esempio di quanto c’è da scoprire riguardo alla legge!
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Articolo realizzato in collaborazione con l’avvocato Marta Michelon.
Spesso e volentieri sentiamo di persone che hanno concluso affari d’oro approfittando di un’asta giudiziaria, tanto che la possibilità di acquistare un bene costoso come un immobile attraverso un’asta giudiziaria tenta un po’ tutti! Le aste giudiziarie, però, richiedono molta attenzione e l’acquisto di immobili attraverso di esse è impegnativo per una famiglia, quindi è bene saperne il più possibile!
Andiamo con ordine: cos’è un’asta giudiziaria?
Un’asta è una vendita pubblica di beni al miglior offerente. Il caso che ci interessa vede i beni presi in carico dall’autorità giudiziaria e venduti nell’ambito di un procedimento esecutivo, come ad esempio il pignoramento di un immobile o una procedura concorsuale come un fallimento.
Piccola curiosità: l’etimologia del nome “Asta” deriva dal latino “Hasta”, letteralmente “Lancia”, perché in età romana si piantava una lancia dove la vendita aveva luogo.
Come posso partecipare a un’asta giudiziaria, e come posso gestirla al meglio?
Prima di tutto devi venirne a conoscenza! Ci sono vari modi per informarsi, come:
prendere visione delle pubblicazione negli spazi destinati all’affissione, talvolta degli stessi immobili messi in asta. Spesso gli organi preposti, però, non prevedono questo tipo di pubblicazioni.
Individuare le pubblicità delle vendite sui quotidiani.
Prendere visione degli avvisi di vendita direttamente presso la Cancelleria del Tribunale
Presso la Cancelleria è depositata anche una relazione di stima relativa all’immobile, realizzata dal Consulente Tecnico d’Ufficio: è sempre bene farsene dare una copia per sottoporla a un tecnico di fiducia che valuti la convenienza dell’acquisto.
È essenziale conoscere a fondo le caratteristiche del bene, come lo stato di conservazione, se è occupato dal debitore o meno, ed è sempre una buona idea fare un sopralluogo dell’edificio.
L’asta è aperta a tutti, eccezion fatta per il debitore, anche se i suoi parenti, moglie o figli, possono partecipare. La partecipazione è ammessa sia direttamente che per procura, tramite un avvocato.
Attenzione, però: se si si decide di far partecipare qualcun altro all’asta al proprio posto, costui dovrà chiarire presso la Cancelleria del Tribunale entro tre giorni dall‘incanto il nome della persona per cui si deposita l’offerta. Il mandato dovrà essere depositato, altrimenti l’aggiudicazione diventerà definitiva a nome del procuratore.
Le aste possono essere di due tipi: senza incanto o con incanto.
La vendita senza incanto è un’asta che si svolge a porte chiuse, senza la presenza fisica degli offerenti, tramite la presentazione di offerte.
A livello pratico prevede prima di tutto il deposito in Cancelleria (o solitamente presso il Custode Delegato dal Giudice alla vendita) di uno scritto in forma libera in cui è necessario indicare:
i propri dati anagrafici
l’immobile che si intende acquistare
l’indicazione del prezzo di acquisto che si propone, il modo in cui si intende pagare e la data in cui si intende saldare (entro 120giorni) e dell’ordinanza di vendita.
L’offerta, corredata delle marche richieste, deve essere completata da un assegno circolare a titolo di cauzione (o altra modalità stabilita dal bando di vendita).
Tutto deve essere inserito in una busta chiusa e depositato alla Cancelleria delle Esecuzioni Immobiliari del Tribunale (o presso il Custode Delegato alla vendita) nel cui circondario si trova l’immobile. Il cancelliere, ricevendo la busta, appone alcune annotazioni all’esterno in modo da identificare di quale procedura si tratta.
Le buste pervenute devono essere conservate dalla cancelleria, e aperte, quindi, dal Giudice (o dal Custode Delegato) all’udienza fissata per l’esame delle offerte. Se ci sono più offerenti, il Giudice dell’esecuzione invita gli offerenti a una gara sull’offerta più alta.
Inoltre, quando il Giudice dell’esecuzione dà luogo alla vendita, stabilisce con decreto tutte le modalità per il versamento del prezzo e il termine entro il quale deve essere effettuato il saldo. A volte viene concesso un pagamento rateale. Si può acquistare un bene all’asta anche attraverso un mutuo e con le c.d. „agevolazioni prima casa“ ove ricorrano i requisiti.
Infine, avvenuto il versamento, il Giudice emette un altro decreto per il trasferimento del bene espropriato al nuovo acquirente, e ingiunge al debitore o al custode di rilasciare l’immobile venduto. Questo costituisce titolo esecutivo per il rilascio.
La vendita con incanto, invece, prevede la partecipazione diretta alla gara.
Non si presenterà, quindi una busta chiusa. Nel provvedimento con il quale il Giudice dell’esecuzione ordina l’incanto, si stabiliscono:
prezzo base dell’incanto
giorno e ora dell’incanto e le forme di pubblicità
la misura minima dell’aumento delle offerte
la cauzione da versare, che verrà poi restituita a chi non vincerà la gara.
La gara in sé si svolge molto velocemente: le offerte, per essere valide, devono superare il prezzo base o l’offerta precedente nella misura minima indicata. Tra un’offerta e l’altra non deve trascorrere più di uno/due minuti (il tempo è stabilito prima dell’apertura dell’asta), altrimenti l’ultima offerta fatta diviene definitiva.
Una volta conclusa l’asta, il vincitore viene definito “aggiudicatario provvisorio”. Questo perché vengono ancora concessi dieci giorni di tempo per avanzare ulteriori offerte, che però devono superare di un quinto il prezzo raggiunto nell’incanto.
Trascorsi, infine, dieci giorni dall’aggiudicazione senza ulteriori offerte, l’aggiudicatario diventa definitivo… e può tirare un sospiro di sollievo!
Solo il Tribunale si occupa della vendita all’asta?
No: recentemente, è stata introdotta nel nostro ordinamento la possibilità per il giudice di delegare le operazioni di vendita dei beni mobili registrati e dei beni immobili . Inizialmente, questa possibilità è stata attribuita solo ai notai, ma successivamente è stata estesa anche ad avvocati e commercialisti iscritti ad appositi elenchi.
Ovviamente, la partecipazione del professionista al processo esecutivo rimane soggetta alla direzione del Giudice, al quale spetta la definizione dell’ambito delle funzioni delegate e la risoluzione delle controversie che possano sorgere.
La procedura di partecipazione a un’asta giudiziaria è comunque qualcosa di laborioso e difficile!